Articolo a cura di Laura Pitzalis
Nel corso della storia dell’uomo il culto della morte è cambiato in modo parallelo al concetto della vita oltre la morte.
Nei più antichi popoli primitivi i rituali dovevano assicurare l’impossibilità per il defunto di interferire in qualsiasi modo con i viventi, poiché si riteneva che fossero vendicativi nei confronti di chi continuava a vivere, e si assisteva quindi a sepolture a testa in giù di defunti legati e coperti di pietre.
Risale al paleolitico del 100.000 a.C. il concetto della sopravvivenza dello spirito oltre la morte e quindi i primi rituali di sepoltura: si lasciavano nella tomba oggetti personali e utensili, armi per continuare a combattere, spesso si componevano giacigli con fiori e piante medicinali.
L’uso dei cimiteri veri e propri iniziò circa 12.000 anni fa. Inizialmente l’uomo primitivo, nomade e semi-nomade, seppelliva i propri morti in ripari sotto rocce e grotte, avendo cura di fornire al defunto il cosiddetto corredo funebre composto da tutto ciò che si riteneva potesse servire allo spirito nella sua nuova esistenza: offerte di cibo, oggetti a lui cari in vita, utensili, amuleti, armi.
In seguito, quando l’uomo imparò a sfruttare le risorse naturali in modo da produrre autonomamente cibo, venne meno l’esigenza di migrare e nacquero i primi villaggi e anche le prime necropoli. La necessità di garantire uno spazio dedicato e ben delimitato ai defunti, così come l’usanza di lasciare nelle tombe utensili e suppellettili, era tesa a garantire la separazione dal mondo dei vivi e a fornire il necessario per il lungo e difficile viaggio verso in un aldilà con caratteristiche varie a seconda delle credenze.
In Mesopotamia i defunti dovevano necessariamente essere sepolti nel sottosuolo, dove si trovava l’oltretomba, e bisognava garantire loro un accesso che li conducesse agli Inferi, altrimenti lo spirito, vagando invano alla ricerca dell’ accesso per l’aldilà, avrebbe sfogato la sua disperazione sui vivi stessi. La privazione della sepoltura era considerata una pena gravissima applicata per gravi colpe, oppure espressione di profonda ostilità nei confronti dell’estinto. Pertanto, l’unico rimedio che quietasse uno spirito di questo tipo era concedergli le esequie.
Gli antichi Egizi credevano fermamente nella vita ultraterrena, e per questo avevano sviluppato una serie di riti complessi per consentire la continuazione della vita oltre la morte. Per vivere nell’oltretomba era necessario preservare il corpo del defunto con la mummificazione, per consentire all’anima di vivere nel corpo imbalsamato. Nella tomba veniva lasciata ogni suppellettile utile, oggetti, cibi, profumi e vestiti e anche un modellino di barca per il trasporto nell’Aldilà.
La tecnica della mummificazione poteva essere praticata per vie naturali, grazie alle tombe sabbiose e ventilate che asciugavano il corpo, o tramite l’imbalsamazione, procedura ancora oggi non del tutto nota. I sacerdoti rimuovevano tutti gli organi interni, tranne il cuore, che avrebbe avuto un ruolo chiave anche nella vita ultra terrena, poi avvolgevano il corpo in bende di lino; a fianco del corpo mummificato venivano posti dei vasi, i canopi, raffiguranti i quattro figli del dio Horus: Asmet con la testa di uomo, doveva contenere il fegato del defunto, Duamfet con la testa di sciacallo, lo stomaco, Kebehsenuf con la testa di falco, gli intestini, Hapy con la testa di babbuino, i polmoni. Il cervello veniva gettato via, mentre il cuore con la psicostasia, il rito della pesatura, permetteva il passaggio alla vita eterna.
Nell’antica Grecia, nel 1.500 – 1.000 a.C., gli acheo-micenei conobbero due sistemi di sepoltura: cremazione e inumazione. In entrambi era essenziale la copertura del defunto con la terra: la vista dei resti di un defunto offendeva gli dei celesti e poteva rappresentare grave mancanza di rispetto verso i defunti stessi, poiché questi non avrebbero mai trovato pace se non ricoperti di terra. Solo dopo copertura il defunto era ammesso agli inferi. Nessun defunto poteva essere lasciato insepolto, anche il peggiore nemico: non seppellire un defunto era infliggere un castigo peggiore della morte stessa. I familiari dovevano posizionargli una moneta nella bocca, per pagare il traghetto in barca dello Stige, il fiume del lamento.
Il defunto veniva lavato e profumato con unguenti e rivestito di abiti normali e poi coperto con ghirlande di fiori e nastri. Il corpo veniva trasferito sopra un letto in posizione quasi verticale, per essere visto da chi gli rendeva gli onori, nella consuetudine della prothesis, esposizione funebre, forma di rito purificatorio poiché i presenti dovevano spruzzare sul defunto acqua profumata con piante aromatiche. Le Threnoi, donne di casa o mercenarie assunte appositamente, assistevano la salma con continue lamentazioni.
Le vere e proprie esequie, Ecforà, si tenevano dopo tre giorni dalla morte, e terminavano con l’accompagnamento funebre sino alla purà, il rogo, oppure direttamente alla tomba in caso di inumazione. Era consuetudine bruciare i doni insieme alla salma, oppure seppellirli nel caso di inumazione accanto al defunto.
Il “rito omerico” prevedeva invece che il defunto, prima di essere cremato, ricevesse come offerta propiziatoria alcuni capelli che ogni parente o amico si strappava dal capo: acceso il fuoco, i parenti più prossimi stavano a sorvegliare sino a che tutto si fosse ridotto in cenere. A rogo estinto, le ceneri venivano innaffiate con vino e poste insieme alle ossa in un’urna, e quindi sepolte. Dopo le esequie, i congiunti del defunto si riunivano per una cena funebre. Come segno di lutto, era obbligo indossare abiti scuri oppure bianchi, non era permesso portare gioielli o altri ornamenti, né usare profumi o cosmetici, i capelli dovevano stare sciolti oppure essere tagliati. I defunti venivano ricordati negli anniversari della loro nascita, della loro morte, e anche nel giorno dedicato a tutti i defunti: in questa occasione le tombe venivano adornate con corone di fiori e di erbe, con nastri e con vasi.
Per gli antichi Etruschi i defunti continuavano la vita dopo la morte nelle loro stesse tombe, che quindi venivano attrezzate con tutto il necessario come una replica delle loro stesse abitazioni; vi si deponevano oggetti, cibo, e tutti i simboli dello status sociale dell’individuo, ad esempio armi per gli uomini e gioielli per le donne, e le pareti erano decorate con affreschi che illustravano scene di vita come banchetti, danze o giochi. Di qui la nascita delle Necropoli etrusche, vere e proprie cittadine tombali.
Nell’antica Roma vediamo la nascita delle prime imprese funebri, i libitinarii, addetti ai funerali delle persone più ricche. Non si conoscono bene i riti, ma come unica certezza si sa che i corpi erano cremati su pire di legno o inumati; la cremazione era il rito prevalente, e quindi le ceneri erano raccolte in un’urna funeraria e deposte in una nicchia ricavata in una tomba collettiva chiamata columbarium. Le esequie duravano più giorni, con il coinvolgimento anche di attori, mimi, danzatori, musici, e lamentatrici professioniste, le prefiche, assunte allo scopo.
Nove giorni dopo la sepoltura si celebrava una festa, la coena novendialis, in occasione della quale si versava del vino sulla tomba o sulle ceneri.
Sette festività romane commemoravano i defunti, tra cui la Parentalia dal 13 al 21 febbraio, e la Lemuria, che si teneva il 9, l’11 e il 13 maggio.
Numerosissime le tipologie di tombe nell’antica Roma, dipendenti dal ceto sociale del soggetto e quindi dal risalto che si voleva dare alla persona: sarcofagi, templi, steli, piramidi, mausolei e altro, tutti rigorosamente fuori della cinta urbana, lungo le strade di accesso a Roma e ricche di epigrafi commemorative e di esortazione ai vivi.
Le comunità cristiane dei primi secoli non hanno cancellato le tradizioni e i riti pagani attorno alla morte e i due riti coesistevano. Ad esempio i pagani usavano fare un banchetto o refrigerium in giorni stabiliti dopo la morte e anche nell’anniversario della nascita della persona defunta. Si credeva che il defunto partecipasse al banchetto, tanto che in alcune tombe veniva lasciata una apertura per il passaggio del cibo anche al defunto.
Proprio per distinguersi dai pagani, che celebravano il refrigerium nel giorno del compleanno del defunto, le prime comunità cristiane, come attesta Tertulliano verso la fine del II secolo, si radunavano per l’eucaristia nel giorno dell’anniversario della morte che, alla luce della fede, diventa il vero dies natalis, il giorno della nascita alla vera “vita senza fine”. Queste celebrazioni, come ricorda sant’Ambrogio verso la fine del IV secolo, avevano un carattere di festa e non si svolgevano in una atmosfera funerea. Si aveva infatti la convinzione che il fedele morto nella comunione con Cristo fosse ammesso alla visione di Dio. Soltanto in seguito prevalse l’idea dell’incertezza circa la sorte del defunto al giudizio di Dio e pertanto l’eucarestia assunse un valore propiziatorio, e la messa venne inserita nel rito funebre. E’ possibile che il rito ancora attuale delle messe in suffragio dei defunti avesse inizialmente lo stesso significato propiziatorio.
Nel Medioevo la sepoltura dei morti viene effettuata nelle chiese, contrariamente a ciò che avveniva in precedenza quando la religione cristiana era contraria alla tumulazione all’interno di edifici religiosi, con una particolarità, la mancanza di iscrizioni sulle tombe che diventano completamente anonime. Oltre che all’interno della chiesa vera e propria, la sepoltura poteva avvenire nel cortile, nell’atrio, nel chiostro (talora definito ossario) e in tutte le zone limitrofe all’edificio religioso consacrate. La sepoltura quindi doveva avvenire “ad sanctos et apud aecclesiam“, ovvero vicino ai santi e presso le chiese.
Va da sé che il prestigio della sepoltura aumentava nel momento in cui si trovava nelle vicinanze delle reliquie di un santo, o nei pressi di determinate immagini sacre o in un punto preciso del cimitero esterno. Ma questo potevano permetterselo solo i ricchi aristocratici mentre ai poveri spettava la tumulazione all’interno di fosse comuni ubicate nel recinto esterno o intorno alle mura; fosse comuni dalle quali si traslavano periodicamente le ossa che venivano riposte negli ossari.
Lo spazio all’esterno delle chiese veniva definito “corte“: è proprio da questa espressione che nascono i primi termini per indicare i cimiteri e alla definizione di camposanto.
Oltre al tradizionale metodo di sepoltura, bisogna sottolineare che esistevano anche altri metodi di tumulazione dei defunti, seppur poco utilizzati o comunque adoperati soltanto in casi eccezionali: la mummificazione, effettuata dalle sapienti mani di chierici ed alchimisti attraverso l’utilizzo di erbe, creme e medicinali. Questo avveniva soprattutto per Re, Imperatori, Conquistatori o personaggi storici di rilevanza che, in un certo senso, continuavano a vivere anche dopo la morte.
Altro caso di sepoltura non convenzionale si aveva quando una città si trovava sotto assedio ed il cimitero non era raggiungibile. Sebbene per i cristiani rappresentasse qualcosa di sacrilego, in questi casi, si ricorreva all’utilizzo di fosse comuni all’interno della stessa città per cremare i cadaveri dei morti, oppure, in condizioni ancora più estreme, si cercava di avvelenare le acque circostanti la città gettando i cadaveri nei fiumi o nei corsi d’acqua limitrofi.
Intorno al 1527 nacque a Roma la “Confraternita della Morte”, con il compito, inizialmente, di dare sepoltura alle vittime del saccheggio dei Lanzichenecchi, vista la scarsità di servizi “funebri” dell’epoca e la moltitudine di cadaveri a cui bisognava dare sepoltura. In seguito il compito fu indirizzato prevalentemente ai cadaveri, rimasti insepolti, di vagabondi che spesso rimanevano senza identità, o persone che pur lavorando vivevano ai limiti della sussistenza, le cui famiglie non erano in grado di pagare le spese del servizio funerario offerto dal clero.
Nel 1552 Papa Giulio III ne approvò ufficialmente la costituzione. Nel 1575 la confraternita edificò la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, nella cui sacrestia ancora oggi si possono ammirare arredi e manufatti, elaborati da ossa di cadaveri. Papa Pio IV, con la bolla ”Divina providente clementia”, elevò la compagnia ad arciconfraternita. Lo svilupparsi delle Compagnie della Morte in Italia fu impetuoso, tant’è che oggi sono ancora presenti ed attive decine di Confraternite che furono aggregate all’arciconfraternita di Santa Maria dell’Orazione e Morte di Roma.
Ma perché la commemorazione dei defunti è il 2 Novembre?
La commemorazione dei defunti ha origini antiche, che uniscono paesi lontani per epoche e distanze, e anche la data non è casuale, perché civiltà antichissime già celebravano la festa degli antenati o dei defunti proprio tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre.
Questa data sembra riferirsi al periodo del grande Diluvio, di cui parla la Genesi. Quello per cui Noè costruì l’arca che, secondo il racconto di Mosè, cadde nel “diciassettesimo giorno del secondo mese“, che corrisponderebbe al nostro novembre. La Festa dei Morti nacque, dunque, col fine di esorcizzare la paura di nuovi eventi simili.
Da qui in poi, la storia, che è ovviamente sospesa tra religione e leggenda, diventa più chiara.
La tradizione celtica fu quella che ebbe maggiore eco. La celebrazione più importante del calendario celtico era il Samahin, letteralmente “tutte le anime”, che si festeggiava tra il 31 ottobre e il 1° novembre. Secondo l’anno druidico è la fine dell’anno pastorale e primo giorno d’inverno, in cui la notte è più lunga del giorno, e questo provocava la convinzione che in quella notte fosse concesso alle anime dei defunti di far ritorno, e, si sa bene, notte e buio sono gli elementi entro i quali con più facilità si muovono anime e spettri.
Il festeggiarli era un ottimo strumento per non dimenticare, per protrarre il legame con gli antenati negli anni.
Ma è anche una data importante legata all’agricoltura e all’allevamento, in quanto la Madre Terra aveva dato i suoi frutti e si preparava ai rigori invernali, e si ringraziava per il raccolto in attesa della futura semina. Inoltre era il momento in cui venivano macellati gli animali e le loro ossa gettate nei tanti roghi rituali, pratica protrattasi anche dopo l’avvento del cristianesimo.
All’epoca dei primi cristiani, queste tradizioni erano ancora molto presenti: la Chiesa cattolica faticava a sradicare i culti pagani, per cui Papa Gregorio II, nel 835, spostò la festa di “Tutti i Santi” dal 13 maggio al 1° novembre, pensando, in questo modo, di dare un nuovo significato ai culti pagani.
Fu, però, nel 998, Odilo, abate di Cluny, ad aggiungere al calendario cristiano il 2 novembre, come data per commemorare i defunti.
L’abate Odilone era così devoto alle anime del Purgatorio che tutte le sue preghiere, sofferenze, penitenze, mortificazioni e messe venivano applicate per la loro salvezza e salita al Paradiso.
Un giorno uno dei suoi confratelli, di ritorno dalla Terra Santa, gli raccontò di essere stato scaraventato da una tempesta sulla costa della Sicilia e di aver incontrato un eremita che gli raccontò che spesso aveva udito le grida e le suppliche delle anime del purgatorio, provenienti da una grotta che urlavano contro lui, l’abate Odilone. Costui, all’udire queste parole, ordinò a tutti i monaci del suo Ordine cluniacense di fissare il 2 Novembre come giorno solenne per la commemorazione dei defunti. Era l’anno 998 d. C.
Da allora, ogni anno, la “festa” dei morti viene celebrata in questo giorno.
Fonti
http://www.attidellaaccademialancisiana.it/146/19/articolo/Prolusione-Il-culto-della-morte-nei-secoli-ieri-oggi-e-forse-domani
http://historiemedievali.blogspot.com/2015/10/la-sepoltura-nel-medioevo.html
http://www.intrage.it/Famiglia/festa_dei_morti
https://www.terradamare.org/il-culto-dei-morti/