Come mangiavano i romani – a cura di Macrina Mirti
Articolo a cura di Macrina Mirti
Almeno durante l’età regia e quella repubblicana, prima di conoscere i fasti dell’impero, la cucina romana fu semplice e frugale. In genere, i cibi erano per lo più a base di cereali, legumi, ortaggi e vino.
Nell’antica Roma, i pasti principali erano tre: lo ientaculum, il prandium e la cena. I primi due erano frettolosi e spesso consumati per la strada. La cena era considerato il pasto principale, anche se solo le famiglie abbienti potevano concedersi il lusso di consumarlo in comodità, nel proprio tablinio, adagiati su comodi triclini. Nelle campagne e nelle insulae, però, si mangiava seduti a tavola, quando una tavola c’era.
Ma andiamo per ordine e parliamo dei vari alimenti.
LE VERDURE
Tra gli ortaggi, un posto d’onore spettava senza dubbio all’aglio, fin dall’antichità pianta sacra a Marte, dio della guerra. Ne facevano larghissimo uso i soldati, ai quali veniva distribuito sia per prevenire le infezioni che per scacciare la paura. Quando Roma cominciò a espandersi nel Mediterraneo, però, il suo odore forte e sgradevole divenne segno di bassa estrazione sociale, per cui le classi ricche gli preferirono la cipolla, lo scalogno, l’erba cipollina e il porro.
La rapa, simbolo di onestà e frugalità, era l’elemento principale nelle minestre, ma si gustava anche mangiata cruda o solo bollita e condita con olio e aceto, così come il cavolo, il cibo preferito di Catone il Censore. Si faceva largo uso di lattuga, che non tutti digerivano, di carote, di asparagi selvatici e di cardi, di cui si mangiava anche il fiore.
Tra i legumi, si consumavano ceci, fave e piselli. I piselli di allora erano più piccoli di quelli odierni e venivano cotti con tutto il baccello, mentre le fave erano legate ai riti per i defunti e per questo ritenute “impure”. Si mangiavano solo durante alcune feste religiose e il flamen dialis non poteva nemmeno nominarle, pena terribili catastrofi. I fagioli arrivarono sulla tavola più tardi, portati dall’Africa dai mercanti greci ed erano diversi da quelli importati dopo la scoperta dell’America. Inoltre, si faceva grande uso di ortica, che veniva prima bollita e poi ripassata in padella.
PANE
Il pane entrò nell’alimentazione molto più tardi e, in età monarchica e nella prima età repubblicana, era sostituto da una polentina di cereali, il puls, una farinata di farro, di orzo, di miglio e in seguito di frumento, che veniva cotta in acqua salata.
Si iniziò a produrre il pane, così come lo conosciamo oggi, solo nel II secolo d.C., con l’introduzione del lievito. In genere, si intrideva la farina con il mosto e si lasciava lievitare. Una parte della pasta così ottenuta veniva utilizzata per le successive panificazioni. Con la nascita delle panetterie, anche il pane divenne segno di distinzione sociale. Ne esisteva di tutte le qualità e di tutti i prezzi. Da quello cibarius, scuro e mangiato dai più poveri, a quello siligineus, bianco e servito sulle tavole dei ricchi.
L’importanza del pane nell’alimentazione ci viene anche ricordata dalle lotte sostenute dal tribuno della plebe Caio Gracco per l’approvazione della lex frumentaria.
LA CARNE e IL PESCE
Era vietato macellare i buoi, ritenuti lavoratori a tutti gli effetti, se non per ragioni sacrificali. Chi lo faceva rischiava di incorrere in pene severissime, che andavano dall’esilio fino alla morte. La carne, però, soprattutto quella di maiale, veniva consumata in abbondanza. Le salsicce erano un alimento che anche i più poveri potevano permettersi e bistecche e braciole di maiale erano a buon mercato e alla portata di molte tasche. Si mangiava anche molta cacciagione, cervi, anatre, gru, che veniva prima bollita e poi arrostita.
L’uso del pesce si diffuse intorno al secondo secolo a.C.. Si sa che i romani conoscevano e utilizzavano in cucina oltre centocinquanta specie ittiche. Siccome non tutti i pesci erano alla portata di tutte le borse, il suo consumo divenne sempre più uno status symbol e sappiamo di aste furiose tenutesi al mercato, nel foro, a cui parteciparono anche membri delle famiglie imperiali.
Una curiosità: alcuni pesci, come la murena e l’orata, presero il nome dalle persone che amavano mangiarli, Lucio Licinio Murena e Caio Sergio Orata, per l’appunto.
La domanda di pesce divenne tanto intensa che le attività dei pescherecci non bastarono più a soddisfarla. Così, da veri precursori, i romani si diedero all’itticoltura.
LE SPEZIE
Dal secondo secolo in poi, i romani fecero largo uso di spezie, necessarie, in un’epoca senza frigoriferi, per coprire l’odore di alcuni cibi. Le spezie erano così usate che spesso la cucina del secondo periodo repubblicano e quella dell’età imperiale vengono definite come cucina “mimetica”, perché gli alimenti erano talmente conditi che diventava difficile risalire alla loro origine.
Senza dubbio, la salsa più usata era il famoso garum, che secondo me dovrebbe somigliare, come sapore, alla colatura di alici che ancora oggi si produce sulla costiera amalfitana.
Come si otteneva il garum? In pratica, la procedura ordinaria era la seguente: si gettavano in un recipiente interiora di pesci e pescetti piccoli, salati e messi al sole, e li si mescolava frequentemente; una volta ottenuta la salamoia, il tutto era filtrato in una cesta, dove rimaneva la parte solida, l’allec. Alcuni aggiungevano anche vino vecchio nella misura di due parti ogni parte di pesce.
Secondo Plinio il vecchio, il garum migliore era quello proveniente dalla Spagna, fatto con sgombri e caro quasi come l’oro. Per altri, il vero garum doveva essere prodotto esclusivamente con viscere di tonno. L’alimento era così diffuso che esistevano numerose fabbriche che lo producevano. Alcune ne sono state ritrovate tra le rovine di Pompei.
IL VINO
A tavola, durante il pasto, si beveva vino che, anticamente, era molto diverso dalla bevanda che conosciamo oggi. Infatti, non era né pastorizzato né filtrato, e il suo sapore doveva risultare alquanto aspro, per cui si cercava di renderlo più gradito al palato. Era questo il motivo per cui si addizionava con miele e ogni tipo di spezia che potesse mascherarne i difetti di fermentazione. Inoltre, d’inverno veniva aggiunta acqua calda, mentre d’estate chi poteva permetterselo vi aggiungeva della neve. In molte ville romane, infatti, sono state ritrovate delle vere e proprie neviere, nelle quali la neve, protetta da uno strato isolante di paglia, si conservava fino all’estate.
Il vino era proibito alle donne e ai giovani, ma già nel primo secolo d.C. era considerato un alimento fondamentale anche per gli schiavi che svolgevano lavori pesanti. Il suo apporto calorico consentiva di raggiungere la quantità di calorie necessarie per la sopravvivenza a chi lavorava in campagna o ai remi di una nave.
I BANCHETTI
Allora, come ora, la tavola era uno dei luoghi privilegiati per stringere amicizie, accordi, alleanze e per concludere affari. Si mangiava nel triclinio, stesi o seduti su divani sistemati su un lato della tavola.
Durante i banchetti, nell’assegnazione dei posti d’onore doveva essere rispettato un preciso ordine gerarchico. L’ospite più importante sedeva nel divano centrale, il padrone di casa alla sua destra e l’invitato meno importante alla sinistra. Se gli ospiti erano accompagnati da schiavi di fiducia, costoro avrebbero dovuto sedersi ai piedi del divano del proprio padrone. Accomodati ai piedi dei divani stavano pure i servi del padrone di casa, durante i giorni di festa, quando anche a loro era concesso partecipare al banchetto, mentre i figli sedevano su scranni posti accanto o davanti a quelli dei genitori.
Durante il convivio, gli schiavi più avvenenti erano incaricati di fare a pezzi la carne nei piatti di portata e di mescere le bevande. Il cibo veniva preso e portato alla bocca con le mani e ci si sporcava così spesso e così tanto che i partecipanti ai banchetti di gala indossavano una veste leggerissima, la synthesis che poteva essere cambiata tra una portata e l’altra.
Si beveva molto e spesso ci si ubriacava, per cui, in età regia e repubblicana, alle donne era proibito bere vino, pena la condanna a morte da parte del pater familias. In genere, le mogli non partecipavano ai banchetti, a meno che non fossero riservati solo a parenti e ad amici molto intimi. Il perché è presto detto. Durante i banchetti venivano organizzati intrattenimenti di ogni genere per i partecipanti. Si andava dalle letture filosofiche all’esibizione di ballerine seminude in danze lascive. Spesso e volentieri un banchetto finiva in orgia. Quindi: le mogli non si portavano appresso e la padrona di casa rimaneva confinata nelle proprie stanze.
I commensali, poi, non erano proprio un modello di stile. Il rutto era così abituale che l’imperatore Claudio emanò un editto in cui si autorizzavano i convitati a emettere liberamente gas con l’intestino.
Il lusso nei banchetti dei ricchi romani divenne talmente esagerato che già 161 a.C. il console Caio Fannio aveva avanzato una proposta di legge per limitarne l’eccessivo lusso e nel 131 a.C. una legge Licinia aveva confermato il limite superiore della spesa che si poteva sostenere per un banchetto. Lex Fannia e lex Licinia furono però talmente trascurate, che Giulio Cesare in persona pensò di disporre nei mercati un servizio di guardie che avessero il compito di sequestrare gli alimenti proibiti e, addirittura, le pietanze vietate già imbandite nei triclini. Come il tutto sia andato a finire in età imperiale ce lo insegna il Trimalcione del Satyricon.
Per concludere, vi dirò che un banchetto di allora non aveva nulla da invidiare a un nostro moderno pranzo di nozze.
Si partiva con un gustaticium, l’aperitivo con stuzzichino da bere a digiuno, si proseguiva poi con la gustazio, l’antipasto, che era costituito da uova di qualunque volatile, cotte in tutti i modi e condite con l’immancabile garum.
Si passava quindi alla fercola, il pasto vero e proprio. C’erano piatti che somigliavano alle nostre lasagne o alla paella e poi, graditissime, le pietanze di carne, di pesce e gli sformati. Uno dei più importanti cuochi romani, un certo Apicio, vissuto in età augustea, ci ha lasciato un libro di ricette, de “Re coquinaria”, giunto fino a noi in una trascrizione di età bizantina. In esso sono contenute molte ricette, alcune delle quali oggi ne avrebbero causato l’arresto per crudeltà verso gli animali. Apicio era specializzato nella conservazione delle ostriche, nella produzione della “patina apiciana” (omlette), di concicla (purè di verdure), di minutal (fricasecca), di ofellae (spezzatini) e di isiciae (polpette). Sembra fosse anche l’amante di Seiano, prefetto del pretorio, ma questa è un’altra storia.
Il pasto si concludeva con i dessert, molti dei quali sono rintracciabili in dolci che esistono ancora oggi: bomboloni, cassate siciliane e mostaccioli.
Bibliografia
Helen Tosini: Apicio e la cucina degli antichi romani- articolo pubblicato su Ager Veleias- rassegna di storia, civiltà, tradizioni classiche
Dosi- Shnell: Le abitudini alimentari dei romani – Quasar edizioni
Apicio: De re coquinaria – a cura di J. Andrè – Parigi, 1974
Petronio, Satyricon, a cura di L. Canali, Milano 1990
Istruttiva e divertente anche la serie De gustibus, che trovate su History channel