Oggi abbiamo il piacere di ospitare sul nostro blog Brunella Schisa, conosciamola meglio:
Sono napoletana, trapiantata a Roma dopo la laurea. Dal 1983 lavoro a Repubblica. Al settimanale il Venerdì dalla sua fondazione nel 1987. Da anni ho una rubrica di libri ma non mi considero una critica piuttosto una lettrice. Prima di approdare alla scrittura, ho tradotto e curato alcuni testi francesi. Il mio primo romanzo: “La donna in nero” ha vinto diversi premi tra cui il Rapallo Carige e da allora non mi sono più fermata. Ho anche scritto a quattro mani con lo storico d’arte Antonio Forcellino un thriller “Lo strappo” tradotto in Spagna e in Cina
Buongiorno Brunella e grazie per il tempo che vorrai dedicarci rispondendo alle nostre domande.
Parlaci un po’ di te, delle tue letture, dei tuoi generi preferiti. Ogni scrittore è anche un lettore, cos’è per te leggere?
Leggo da quando avevo tredici anni. Ho avuto la fortuna di avere in casa una libreria fornita. Mia madre mi disse: “Puoi leggere tutto, tranne questo (era “L’amante di Lady Chatterley”) perché non lo capiresti”. Così sfilai il primo romanzo a caso. Era “Il giovane Holden”. Lo lessi in un pomeriggio e subito passai al secondo, sempre preso a caso: “Cime tempestose”. Come non rimanere folgorati per sempre dalla lettura? La lettura per me è vita, nutrimento, passione, compagnia. Io non so quali generi mi piacciono. A sedici anni ho letto gli italiani: Carlo Cassola, (scrittore totalmente dimenticato), Giovanni Arpino, Cesare Pavese, Natalia Ginzburg. A venti i classici. Li ho letti a tappeto: francesi, russi, inglesi, americani, spagnoli, tedeschi. Per almeno un quindicennio non ho fatto altro, eppure tanti me ne mancano ancora. Soltanto dopo ho potuto dedicarmi al 900. Ho avuto una cotta per Graham Green, un innamoramento per Henry James e una passione per Edith Wharton. L’ultimo libro che mi ha scaldato il cuore? “L’Arminuta” di Donatella di Pietrantonio. Sono una lettrice onnivora. Non sarei mai diventata una scrittrice se non avessi letto tanto.
Brunella, come riesci a conciliare il tuo lavoro con la ricerca e, successivamente, con la scrittura?
Quando si ha una passione si riesce a fare tutto. Andando al giornale tutti i giorni, ho dedicato alla scrittura tutto il mio tempo libero: i week end, le vacanze, le notti. Non a caso ho cominciato a scrivere quando mio figlio era al liceo e aveva un unico desiderio: affrancarsi dalla mamma.
Il tuo primo romanzo è stato pubblicato, ci risulta, nel 2006, come hai scoperto il tuo amore per la storia e, di conseguenza, come hai deciso di trasferirla sui romanzi?
“La donna in nero” racconta la storia d’amore tra due pittori: Berthe Morisot e Edouard Manet. Sarà stato il 1998, al giornale mi occupavo di arte, quando mi sono imbattuta in questa pittrice borghese che aveva partecipato a tutte le mostre degli Impressionisti. A quell’epoca l’Accademia di Belle Arti era preclusa alle donne. La cosa che mi incuriosì di più era che Edouard Manet le aveva fatto undici ritratti, alcuni li conoscevo benissimo ma ignoravo il nome della modella. Per più di cinque anni ho raccolto libri su di lei. Poi, un bel giorno, mi sono sentita pronta. Ho cominciato a leggere quello che già possedevo e ho allargato la ricerca. Passare alla scrittura è stato naturale. Ricordo che scrissi l’incipit in dieci minuti, perché dovevo uscire per andare a cinema ma sentivo l’urgenza di metterlo giù. Ed è incredibilmente sopravvissuto alle successive stesure.
Nei tuoi romanzi storici sei nota per il rigore storico che ti contraddistingue, quanto tempo, mediamente, è necessario per la ricerca?
Dipende. Almeno un anno e mezzo, direi. Quando si scrive un romanzo storico si deve sapere tutto su quel periodo, perfino il prezzo di una pagnotta di pane anche se poi non ti servirà. Io sono una perfezionista, o se preferite una rompiscatole, quindi non mi fermo mai. Intendo dire che continuo la ricerca anche mentre sto scrivendo. Mi viene un dubbio, una curiosità e ricomincio a cercare, pur non smettendo di scrivere.
Quando termini la stesura di un romanzo, che sensazioni provi?
Quando metto il punto finale, mi alzo dalla sedia e faccio un giro per la casa con le braccia in alto come un pugile sul ring dopo aver messo ko l’avversario. So benissimo che si tratta della prima stesura e che dovrò lavorarci ancora e ancora, ma essere riuscita a chiudere la trama in modo soddisfacente mi dà una sensazione di onnipotenza. Poi infilo la giacca o il cappotto, dipende dalla stagione, e vado a camminare e sorrido agli sconosciuti.
Come nasce l’idea del romanzo, come decidi a che personaggio o fatto storico dedicarti? In parole povere come nasce l’ispirazione?
Non sempre nello stesso modo. “La donna in nero” è nata da una mostra su Manet che aveva dei ritratti di Berthe Morisot. Per “Dopo ogni abbandono” ho accuratamente scelto la mia protagonista, volevo una precorritrice dei tempi e ho scelto Evelina Cattermole, scrittrice, giornalista, amante di D’Annunzio, amica di Benedetto Croce, barbaramente uccisa dal suo giovane amante. Un femminicidio che scatenò un processo mediatico incredibile alla fine dell’Ottocento. Per “La nemica” quando ho letto il saggio di Benedetta Craveri “Maria Antonietta e lo scandalo della collana”, dieci anni fa, mi sono detta che prima o poi ne avrei scritto e ho cominciato a raccogliere materiale.
Ti è mai capitato di dare un titolo ad uno dei tuoi romanzi e successivamente, per esigenze editoriali, doverlo rivedere?
No, perché il titolo è l’ultima cosa a cui penso e spesso viene fuori da un lavoro congiunto con l’editor. Solamente per la “Donna in nero” lo conoscevo in anticipo. Manet ha dipinto Berthe Morisot quasi sempre in nero. Era obbligatorio.
Parlando del tuo ultimo romanzo “La nemica”, cosa ti ha incuriosita, e spinta a raccontare dell’affare della collana?
Mi ha incuriosita la storia vera eppure incredibile. Non credo ne esista un’altra più romanzesca. Una donna fatale, manipolatrice, bugiarda, ossessionata dall’orgoglio che mette in piedi una truffa colossale e riesca a sfilare dalle mani dei gioiellieri di corte una collana di 650 diamanti facendo credere di agire per conto di Maria Antonietta. Arrestata, processata, condannata alla fustigazione e alla marchiatura a fuoco sul patibolo e poi alla prigione a vita, con le sue arti seduttive riesce ad evadere. Anche io ho subìto il fascino perverso di Jeanne de la Motte.
Leggendo “La nemica”, colpiti dal rigore storico con cui narri le vicende ci si stupisce a pensare che forse hai voluto trasmettere un messaggio con questo romanzo. Quale?
Non so se ho voluto trasmettere messaggi particolari. So però che scrivere romanzi storici è un modo di scrivere del presente. Il titolo del romanzo è “La nemica” perché la mia protagonista quando evade si rifugia a Londra con un solo desiderio: vendicarsi. Comincia così a scrivere dei mémoire infamanti su Maria Antonietta. Libri pieni di menzogne, che per questo vanno a ruba. Jeanne de la Motte è la prima hater della storia, la prima produttrice di fake news. Credo davvero – e non sono soltanto io – ma fior di storici, che Jeanne de la Motte abbia contribuito alla Rivoluzione e a portare Maria Antonietta sul patibolo.
“La nemica” è la cronistoria degli eventi accaduti e i personaggi che compaiono sono tutti realmente esistiti, come hai costruito i pochi (due mi sembra) inventati?
Quello che racconto è tutto vero, documentato. La storia si svolge tra il 1785 e il 1791, quindi attraversa gli anni cruciali della Rivoluzione. Mi serviva dunque un personaggio che seguisse la storia della mia protagonista e al tempo stesso la grande Storia, dalla caduta della Bastiglia in poi. Perciò ho inventato un giovane giornalista e un suo collega, così mi sono mossa in un mare che conosco. C’è per la verità un terzo personaggio inventato, una donna, la fidanzata del giovane protagonista. A un certo punto ho sentito che mancava qualcosa ed è spuntata lei, Charlotte.
Grazie per essere stata con noi e per la tua disponibilità
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