Recensione a cura di Raffaelina Di Palma
“Due vite. Una ricompensa,” edito da Mursia, è un romanzo storico. L’amore si intreccia tra la realtà e la finzione, dove la trama si annoda alle asperità e alle disuguaglianze dell’epoca feudale. Intrigo, amore, fame e miseria si srotolano ai piedi dei protagonisti e alla fine il destino trova il modo di riportare tutto al giusto valore. L’autore, Stefano Ferri, presenta ai lettori una vicenda inedita, drammatica, composita, sorprendente e anche curiosa che, da una tragedia individuale, conduce a una usanza diventata presto una tradizione: unendo nello spazio e nel tempo gli esseri umani che l’hanno vissuta, è arrivata intatta fino ai nostri giorni. Una lettura sicuramente particolare che crea con il lettore quasi una sorta di complicità in uno strano abbinamento: alimentazione e letteratura, coinvolgendolo completamente, portandolo a fare il tifo per il protagonista.
“Il prete gli diede la mano.«Ti saluto». «Reverendo», domandò lui baciandogliela, «perché mai un cibo benedetto da Dio non sazia?» «Si vede che non sei bravo a cucinarlo», frustò, lapidario per la seconda volta in pochi minuti. Guglielmo si sorprese, aveva seguito le indicazioni del cantiniere, non gli pareva d’aver commesso errori. Comunque non era col prevosto che doveva parlare di cucina.”
Anno Mille. In un lontano feudo del Regno di Lombardia, la vita del contadino Guglielmo viene stravolta dall’improvvisa e grave malattia della giovane moglie Rosa.
Non vuole rassegnarsi all’idea di perderla e sacrifica tutto il raccolto in un viaggio della speranza per portarla allo “Spedale” di Milano. Ma deve escogitare un modo per garantire il cibo ai suoi bambini.
Il protagonista di questo romanzo non è una persona, ma un cereale: il riso. Svincolarlo a macchia d’olio quale piatto nobile, mentre all’epoca era un tipico piatto dei poveri.
Lo scrittore Stefano Ferri ne costruisce la genesi, dove la leggenda si fa storia. Ci fa risalire nel tempo, attraverso il contadino Guglielmo, sino all’anno Mille, il quale è costretto a vendersi il poco che ha per poter curare sua moglie: scopre così, nella disperazione che segue alla fame ancestrale, che quel cereale venuto non si sa da dove, che gli hanno venduto a bassissimo costo, diventa gustoso e sostanzioso se al brodo si aggiunge il midollo di bue. Inventa così un cibo che sazia moglie e figli e poco alla volta acquista una fondamentale importanza per le famiglie che vivono in povertà. Da una situazione disperata, nasce un piatto che risolve per un po’ i suoi gravi problemi: diventando una pietanza basilare sulla sua povera tavola e ampliandone la conoscenza che va ben oltre il contado dove lui vive e lavora.
“Assaggiato il contenuto della spina dorsale del bue, il cantiniere ne fece un piatto di corte divenendone gestore esclusivo. […] Il giro d’affari della cricca episcopale s’infittì. Il vescovo, già non precisamente povero, iniziò a grondare ricchezza nel senso quasi letterale del termine, ma pure andò incontro a nuove spese, perché il riso non era coltivabile in casa e importarlo costava parecchio. In tal modo lui e i suoi successori impoverirono il feudo al punto da accelerare una fine già segnata, perché la Storia, quella con la esse maiuscola, se da un lato non ci dice nulla della sorte di Guglielmo, dei suoi figli e dei suoi amici, dall’altro ci ragguaglia sui destini del feudalesimo, che non sopravvisse né all’ascesa dei cives, cioè delle famiglie ricche di origine borghese, né all’affermarsi dei Comuni sui potentati tradizionali.”
Che il romanzo nasca da una solida preparazione storica dell’autore è palese sin dalle prime pagine, anche nella descrizione dell’abbigliamento dei personaggi, degli ambienti interni ed esterni, della dialettica, l’interagire tra nobili, borghesi e plebei, si entra, letteralmente, nelle strade e nei quartieri della Milano dell’epoca.
La prima parte del romanzo tratta le sofferenze e gli eroismi di questo contadino, che si prodiga disperatamente alla ricerca di cibo per i suoi bambini e nello stesso tempo spaventato, nella sua ingenuità e ignoranza a non venir meno ai precetti dei vari monsignori, rubicondi e profittatori della sua buona fede.
“Ne assaporò il gusto. Era a metà fra dolce e salato, molto forte. In un niente gli aveva profumato la bocca. Provò ancora. Quel sapore mai sentito dilagava, sempre più intenso e sempre più buono.”
Il lettore viene immerso in un tessuto sociale raccontato in micro episodi: una lettura dinamica e scorrevole, una vicenda straordinaria, che attraverso una pietanza, prima che diventasse il simbolo di una regione, ci racconta una storia di sacrifici, di fame e di impensate scoperte. Quel cereale che unito all’osso di bue diventerà un cibo a basso costo costituisce per lungo tempo un mezzo di sostentamento per le famiglie in difficoltà. Un’avvincente storia umana, che si snoda tra amori contrastati, intrecciati a politica e potere ecclesiastico, lo stravolgimento portato dalla peste, dischiude scenari inaspettati: tutto ciò muta profondamente la vita dei protagonisti e di una intera società.
Nella seconda parte facciamo un salto temporale di più di 500 anni ritrovandoci nel pieno del vasto e frenetico cantiere della fabbrica del Duomo. Qui conosciamo Filippo, un pittore che all’interno della fabbrica inizia a usare lo zafferano come tintura per creare delle sfumature di colore specifico usate nella creazione degli affreschi e delle vetrate. Siamo tra il 1576 e il 1577 e lo spettro della peste si abbatte anche su tanta bellezza, portando una serie di conseguenze negative anche ai costruttori di questo contesto.
“Apprendere che Milano era divenuta terreno di coltura per la peste lo scosse come un terremoto. Dovette razionalizzare e capire cosa fare davvero, più che piangere o rimpiangere.”
In parte è opera di fantasia, ma con aderenze ai dati storici.
Interessante la figura del cardinale arcivescovo Carlo Borromeo, che si incunea nella storia: colui che, all’interno della Chiesa, ha portato con sé il seme dell’innovazione riformatrice e la fiamma della carità. Si prodiga con ogni mezzo, esponendosi in prima persona, per portare soccorso agli ammalati, divenendo l’unico conforto, dentro e fuori le mura di una Milano appestata: il suo impegno in prima fila nell’aiutare la popolazione in difficoltà diventa un simbolo di riferimento: inedito e umano.
Nelle varie vicende di “Due vite, una ricompensa” lo zafferano diventa il “filo giallo” che unisce i capitoli di questo libro; diventa la raffigurazione di storie che l’autore racconta con particolare risalto letterario e nella quale inserisce anche qualcosa di personale con cui approfondisce stupendamente le storie stesse.
Stefano Ferri si trasforma in un cronista esclusivo prima ancora che storico, ossequioso e coerente che si conforma nell’azione della lotta tra il bene e il male, ma lo fa con vivace curiosità, con costanza, senza monotonia.
L’omelia conclusiva di Carlo Borromeo è la ciliegina sulla torta: una chiusura stupenda al termine del romanzo. È la veridicità di una testimonianza, toccante e accorata. Sembrano veri segni storici e non frutto della fantasia dell’autore: e qui risalta, inequivocabilmente, la sua preparazione e la sua profonda sensibilità.
Pro
Riso (inteso come cereale) e letteratura: un abbinamento originale. Una ricostruzione tra realtà storica e fantasia; resa credibile dalla conformità ai personaggi e agli eventi fondamentali della seconda parte del romanzo.
Contro
Nulla; sono fatti storici documentati.
Trama
Anno Mille. In uno sperduto feudo del Regno di Lombardia la routine del contadino Guglielmo viene funestata dall’improvvisa – e gravissima – malattia della giovane moglie Rosa. Deciso a non rassegnasi all’idea di perderla, mentre sacrifica tutto il raccolto a un viaggio della speranza allo “Spedale” di Milano, c’inventa un modo per non togliere il cibo di bocca ai suoi bambini: una pietanza che ritroviamo secoli dopo nella Milano di San Carlo Borromeo, tinta di giallo zafferano da un pittore del cantiere del Duomo, e che dopo la peste del 1576-1577 lascerà una traccia perenne nei riti dell’amore. Una storia emozionante, indicativa del senso della vita quant’altre mai.