Articolo a cura di Laura Pitzalis
Gioachino Rossini è uno dei più importanti e famosi operisti della storia, riconosciuto in ogni parte del mondo dove praticamente ogni giorno titoli come il celeberrimo Barbiere di Siviglia, L’italiana in Algeri, La Cenerentola, Il turco in Italia, Semiramide, Guglielmo Tell vengono rappresentati in qualche teatro di qualche città.
A differenza di Giuseppe Verdi, è stato a lungo dimenticato e molte delle sue opere, specialmente quelle serie, sono uscite per anni dal repertorio: insieme al Guglielmo Tell, il cui brano del finale “Tutto cangia il ciel s’abbella”, quelli della mia generazione ricorderanno perché accompagnamento musicale della grafica che annunciava l’apertura e la chiusura dei programmi Rai di una volta,
solo il Barbiere di Siviglia è sempre rimasto in repertorio, magari sottovalutato e considerato per gli aspetti divertenti, quasi fosse un’operetta. E sì perché Rossini è stato per tanto tempo confinato in un’immagine quasi grottesca e sicuramente stereotipata di amante dei piaceri della tavola, bon vivant, personaggio comico, compositore che eccelleva unicamente nell’ambito dell’opera buffa, della leggerezza, della comicità.
Pur riconoscendo a Rossini una superiorità pressoché inimitabile per le opere buffe, molte delle sue opere più interessanti, musicalmente parlando, appartengono a una produzione che nulla ha a che vedere con l’opera buffa. Soprattutto quelle scritte dopo il ritiro dalle scene teatrali quando all’apice della sua carriera, della sua fama e notorietà scelse il silenzio. Non un silenzio strategico per accrescere il mistero e neppure per godersi i frutti di una fama senza precedenti: il silenzio di Rossini era dovuto alla “malattia della mente” che lo consumava.
La vita del compositore, infatti, non è stata facile per la salute mentale. Ha sofferto di crisi depressive, alternate a disturbi dell’umore e disturbi ossessivo-compulsivi, e una forma di ipocondria che lo paralizzava e che gli faceva comparire lo spettro della morte dietro il più piccolo malessere. Spesso il tutto nascosto da una personalità particolare, che lo vede amante del buon cibo e delle donne.
In nemmeno trent’anni Rossini aveva composto più di 30 opere, spesso in tempi brevissimi com’era richiesto dal mercato dell’epoca, aveva viaggiato, si era spostato nei più grandi teatri europei per essere all’altezza della fama che lo accompagnava. Se poi aggiungiamo la pressione esercitata dagli impresari perché il pubblico aveva le sue esigenze ed egli doveva essere pronto a soddisfarle, costringendolo più di una volta a cambiare un finale da tragico a lieto, non perché lo desiderasse ma per andare incontro ai gusti della platea … possiamo capire a che stress incredibile fosse soggetto.
Ma chi era veramente Gioachino Rossini, come raggiunse una fama così straordinaria in così poco tempo?
Gioachino Rossini, sull’atto di battesimo il nome è “Giovacchino Antonio“, ma preferì la grafia “Gioachino” e più raramente “Gioacchino“, mentre quasi sempre si firmava “G. Rossini”, nacque a Pesaro il 29 febbraio 1792, quindi poté festeggiare solo 19 compleanni effettivi pur essendo vissuto fino all’età di 76 anni.
Ricevette i primi insegnamenti in campo musicale dal padre Giuseppe, detto “Vivazza”, trombettista e cornista del Comune che aveva tra l’altro l’incarico di banditore, come si diceva all’epoca “pubblico trombetta”. La madre Anna Guidarini era una discreta cantante che svolse la sua carriera prevalentemente nelle Marche.
Ragazzo prodigio a dodici anni aveva già scritto sei “Sonate per violini, violoncello e contrabbasso, ovvero sonate a quattro parti“. A quattordici si iscrive al Liceo musicale bolognese, studia intensamente composizione, appassionandosi alle pagine di Haydn e di Mozart, e per questo guadagnandosi l’appellativo di “Tedeschino,” e scrive la sua prima opera “Demetrio e Polibio“, che sarà rappresentata però solo nel 1812.
La sua fama come compositore iniziò il 3 novembre 1810 a soli diciotto anni, con il folgorante debutto de “La cambiale di matrimonio” al Teatro San Moisè di Venezia.
Inizialmente dopo questo enorme successo compose molte opere buffe ma più che altro perché in quel periodo si prediligevano opere “leggere” ma raffinate che seguissero la moda del periodo, conforme allo spirito di Venezia che fin dal 1500 era famosa per la sua vita notturna, i teatri, le feste, le cortigiane.
Aveva una prodigiosa facilità di scrittura, (dichiarò, probabilmente esagerando un poco, di aver composto il Barbiere di Siviglia in soli 12 giorni!), tanto che nel 1812 Rossini mandò in scena ben sei opere di generi diversi in quattro importanti città: a Venezia le tre farse “L’inganno felice”, “La scala di seta” e “L’occasione fa il ladro”; a Ferrara l’opera seria “Ciro in Babilonia”; a Roma l’opera giovanile “Demetrio e Polibio”; a Milano l’opera buffa “La pietra del paragone”, che segnò il suo debutto alla Scala.
La famosissima “Italiana in Algeri“, prima rappresentazione a Venezia nel 1813, fu musicata da Rossini in soli 27 giorni. Fu scritta così velocemente perché venne chiamato per “tappare un buco” in quanto al teatro San Benedetto di Venezia un’opera in cartellone era saltata improvvisamente: l’Italiana in Algeri ebbe un successo travolgente, segnò la definitiva consacrazione di Rossini operista che da quel momento colleziona un successo dietro l’altro.
Un altro aspetto imprescindibile della scrittura rossiniana, un suo tratto personalissimo a lungo incompreso, è l’ironia, che dal punto di vista orchestrale è ben rappresentato dal celeberrimo “crescendo rossiniano”.
Questo è ben raffigurato all’interno della partitura de “Il Barbiere di Siviglia”, opera mai uscita dal repertorio e senza dubbio, tra quelle rossiniane, la più eseguita e più amata, nonostante il debutto, il 20 febbraio del 1816 al Teatro Argentina di Roma, fosse stato un fiasco clamoroso, tra risate di scherno e fischi rivolti al compositore pesarese.
L’aneddotica del fiasco della prima è ricca e pirotecnica e va dal tenore Manuel Garcia che rompe una corda della chitarra mentre canta l’aria di entrata, all’interprete di Basilio che scivola, si rompe il naso e continua a cantare sanguinante, a un gatto nero che salta sul palco e molesta i cantanti.
Fu probabilmente il fiasco più colossale e clamoroso di tutta la storia dell’opera lirica, nonostante le precauzioni che si presero, visto che del Barbiere di Siviglia vi era già una versione operistica di Giovanni Paisiello, un monumento vivente della scuola napoletana: fu cambiato il titolo in “Almaviva, o sia l’inutile precauzione” e fu scritto un “Avvertimento al pubblico”, da allegare al libretto, che suonava come un’imbarazzata “excusatio non petita” che invece di rassicurare sortirà l’effetto contrario, esacerbare ancor di più gli animi.
Molto probabilmente a creare ad hoc tutto questo malcontento non furono solo i sostenitori del maestro Paisiello ma probabilmente anche alcuni disturbatori pagati dall’impresario del concorrente Teatro Valle, (dove il 26 dicembre aveva debuttato con scarso successo un’altra opera di Rossini, Torvaldo e Dorliska), preoccupato per eventuali successi del Teatro Argentina.
Il maestro lasciò il teatro con l’indifferenza di un semplice spettatore, ma la prese male e l’indomani si diede malato e non si presentò. E invece fu un successo, tanto che andarono a cercarlo a casa per portarlo in trionfo.
Rossini era famoso e amato in tutta Europa, il grande scrittore francese Stendhal lo ammira a tal punto da scrivere una sua biografia, “Vie de Rossini”, da molti ritenuta non del tutto attendibile.
Era lui il signore incontrastato dell’opera lirica, il genio che i suoi contemporanei consideravano il “Napoleone della musica”.
“Dopo la morte di Napoleone c’è stato un altro uomo del quale si parla ogni giorno a Mosca come a Napoli, a Londra come a Vienna, A Parigi come a Calcutta. La gloria di quest’uomo non conosce limiti […] ed egli non ha ancora trentadue anni.” – Stendhal, Vie de Rossini. –
E durante la visita di Richard Wagner nella sua villa di Passy, è stato narrato che Rossini si alzasse dalla sedia durante la conversazione quattro o cinque volte per poi tornare a sedersi dopo pochi minuti. Alla richiesta di spiegazioni da parte di Wagner, Rossini rispose: “Mi perdoni, ma ho sul fuoco una lombata di capriolo. Dev’essere innaffiata di continuo“
Perché Rossini ha un carattere tutto suo. È, così lo definiscono i suoi amici, simpaticamente inaffidabile, amabilmente bugiardo, ironico, amante degli scherzi, un “bon vivant”, ma generoso: ha accumulato una grande fortuna e si è concesso una vita dispendiosa, ma non ha mai dimenticato i meno fortunati. Nel 1822 dopo aver incontrato a Vienna Beethoven, già completamente sordo e in miseria, raccolse fondi per aiutarlo; nel 1842 a Bologna, in vista dell’esecuzione dello “Stabat Mater” fu istituita una apposita commissione che, per volere dello stesso compositore, dispose che i proventi dell’esecuzione fossero utilizzati per creare una “Cassa di pensione e di sussidi per gli artisti di canto e di suono nati ed abitanti in Bologna”.
Un carattere sempre cangiante, quindi, manifestato fin dalla giovinezza che riportò puntualmente, oltre che nella sua musica, nelle sue scelte di vita quando dopo aver regnato incontrastato sul panorama operistico, dopo aver composto 39 opere, oltre a vari pezzi da camera e altre musiche, all’apice del successo e della carriera, pensò bene, a 37 anni, di ritirarsi bruscamente a vita privata senza fornire alcuna spiegazione, senza ritorno.
Il suo cosiddetto silenzio non era però tale: si era sì ritirato dal palcoscenico ma non dalla musica, componendo in questo periodo circa un centinaio tra pezzi vocali, scherzi per pianoforte, concerti, musica da camera, raccolti oggi in ben 14 volumi, che lui con ironia amava definire i suoi “Péchés de vieillesse”, i “Peccati di vecchiaia”. Di questi lavori era gelosissimo, ne aveva tassativamente vietato l’esecuzione in pubblico e li chiudeva personalmente in un armadio nella sua camera da letto, tanta era la paura che qualcuno potesse sottrarli a sua insaputa. Venivano perlopiù eseguite privatamente nel suo frequentatissimo salotto parigino. Ad una delle collezioni Rossini diede intestazioni e titoli molto originali: “Gli antipasti”, “Ravanelli”, “Burro”, “Acciughe” …
E sì, la passione di Rossini per la gastronomia è nota, non è un caso che amasse definirsi “pianista di terza classe, ma primo gastronomo dell’universo”. Proprio sul suo amore per la cucina, che più che una passione era sicuramente una ragione di vita, esistono numerosissimi aneddoti, non si sa quanti siano effettivamente accaduti e quanti siano solo racconti leggendari, ma sicuramente tutti contribuiscono a creare un’immagine veritiera di un personaggio, oltre che geniale, decisamente originale e passionale.
Questa la sua filosofia di vita:
“Mangiare, amare, cantare e digerire sono i quattro atti di quell’opera comica che è la vita”
Rossini muore il 13 novembre del 1868 a Parigi, nella sua villa di Passy, in seguito a un’operazione chirurgica per uncancro al retto. Fu tumulato nel famoso cimitero parigino di Père Lachaise, ma la sua tomba oggi è vuota. Per iniziativa del governo italiano nel 1887 le sue spoglie furono infatti traslate in Italia, a Firenze, dove riposano nella Basilica di Santa Croce.
Lascia la sua eredità, a parte qualche legato in favore della moglie e di alcuni parenti, al “… Comune di Pesaro, mia patria, per fondare e dotare un liceo musicale in quella città…” che istituisce un liceo musicale diventato poi Conservatorio Statale di Musica, mentre l’EnteMorale a cui erano state conferite proprietà e gestione dell’asse ereditario rossiniano, fu trasformato nella Fondazione Gioachino Rossini, tuttora in piena attività.
Sicuramente Gioacchino Rossini fu uno dei più importanti creatori e innovatori del bel canto, uno dei più grandi geni musicali di tutti i tempi, che ha lasciato indelebile impronta di sé nella storia della lirica: portò strumenti umili e comprimari come il fagotto e il corno all’esibizione solistica; riuscì a rendere brillante e imprevedibile l’orchestra accentuando l’andamento con il celebre uso del crescendo (poi denominato appunto “crescendo rossiniano“), e adottando tecniche provocatoriamente audaci, come il battere degli archetti dei secondi violini sul leggio che potete ben ascoltare e vedere in questo video dell’ouverture de “Il Signor Bruschino”
Con il suo essere al tempo stesso ironico e profondo, gigante e fragile, ci restituisce, con le sue musiche immortali, un ritratto non soltanto di compositore multiforme e vario, ma anche quello di un uomo davvero moderno, con le sue ansie, i suoi dubbi, le sue paure celate dietro ilarità e glamour in cui ciascuno di noi può rispecchiarsi.