Articolo a cura di Laura Pitzalis
Tutti sanno che Ognissanti e la Commemorazione dei defunti sono due feste del calendario liturgico dell’Occidente cristiano ma forse non tutti sanno che sono un retaggio di culti pagani rintracciabili in Irlanda quando quest’isola era abitata dai Celti, popolo di pastori e agricoltori.
Per loro, il giorno a metà tra l’equinozio d’autunno, fine dell’estate, e il solstizio d’inverno, inizio della stagione invernale, collocabile intorno alla fine di ottobre e inizio novembre, (non c’era una data fissa perché il tempo era basato sui calcoli lunari), rappresentava l’inizio di un nuovo anno, lo spartiacque tra un anno agricolo e l’altro, il passaggio tra il semestre luminoso e quello oscuro, tra lo stare sveglio e il letargo, tra l’attività e il riposo. Una specie di Capodanno, quindi, chiamato Samhain, “fine dell’estate”, che veniva celebrato con lunghi festeggiamenti che si si protraevano per diversi giorni.
Questo era un momento solenne e importante in quanto rappresentava la fine e l’inizio di un ciclo in natura: durante la stagione invernale la vita sembra non esserci mentre in realtà si rinnova sottoterra, dove tradizionalmente riposano i morti. E, infatti, la morte era il tema principale della festa: nella notte di Samhain tutte le leggi dello spazio e del tempo erano temporaneamente interrotte, permettendo agli spiriti dei morti di unirsi al mondo dei vivi che, per ingraziarseli, li accoglievano con lauti banchetti.
Successivamente, quando iniziò l’opera di evangelizzazione delle Isole Britanniche, la Chiesa tentò di sradicare i culti pagani ma non sempre vi riuscì. Samhain non fu completamente cancellata ma fu, se così si può dire, cristianizzata istituendo il 1°novembre la festa di Ognissanti. Inoltre, per non stravolgere del tutto le caratteristiche di “festa dei morti” del Samhain, constatando che comunque il popolo, e in larga parte anche il clero, continuava a conservarle, la Chiesa dedicò il giorno successivo, 2 novembre, alla Commemorazione dei defunti.
Al di là degli aspetti storici e religiosi è interessante notare che, nelle tradizioni europee, i primi giorni di novembre hanno conservato sembianze che riportano all’antico Capodanno Celtico. Non per nulla il motivo ricorrente nelle tradizioni del 2 novembre è la credenza che nel corso di esso le persone care scomparse tornino a farci visita sulla terra, per cui molti dei riti di questo giorno sono atti sia a confortare e placare le anime dei nostri defunti, sia ad “accoglierli”.
È per questo che fin dalla notte dei tempi si è andata sviluppando una stretta relazione tra morte e cibo che, in questo contesto, assume un potente valore magico: mangiare determinati cibi, banchettare sulle tombe o lasciare la tavola imbandita per i defunti, permette di ristabilire quel legame che la morte ha spezzato oltre ad essere una delle pratiche spirituali più antiche. Allo stesso modo, nelle preparazioni per i cari estinti ritornano ingredienti molto profumati e gradevoli il cui aroma sfama i morti, poiché il buon odore è nutrimento dell’invisibile, e il resto ciba i vivi, permettendo in questo modo il contatto e l’unione tra i due mondi.
Ed ecco che in Campania e in Lombardia era abitudine lasciare in cucina un secchio o un vaso d’acqua per dissetare i defunti. In Piemonte si aggiungeva un posto a tavola, per i morti che sarebbero arrivati in visita. In Puglia ed in Toscana la tavola veniva allestita appositamente mentre in Sardegna non veniva sparecchiata, per consentire ai defunti di rifocillarsi durante la notte. In Basilicata e Calabria, presso le comunità albanesi, si usava andare al cimitero di sera e lì preparare un banchetto sulla tomba dei propri cari, invitando tutti i passanti a prenderne parte.
Nel nostro Paese non v’è regione che non abbia nella sua tradizione gastronomica, un piatto rituale dalla forte valenza simbolica dedicato al Giorno dei Defunti. In genere sono i dolci che la fanno da padroni, dolci che, il più delle volte, ricordano per la loro forma o consistenza il tema della morte, come le “fave dei morti”, dei deliziosi pasticcini alle mandorle, dalla forma ovale e leggermente schiacciata oppure le “ossa di morto”, dei biscotti secchi dalla forma allungata, a volte ricoperti di glassa, cioccolato o zuccherini colorati. A Napoli troviamo i “torroni dei morti”, detti anche “morticelli”, con il ripieno morbido, ricoperti di cioccolato e spolverati con granella di nocciole o pistacchi.
In Romagna si festeggia con la “piada dei morti” a base di uvetta, noci, mandorle, pinoli e miele.
La Sicilia, invece, ci regala un trittico sorprendente: la “frutta Martorana”, una riproduzione di frutta realizzata con farina di mandorle e zucchero; le “dita di apostolo”, delle superbe crespelle arrotolate e ripiene di ricotta; i “pupi di zucchero”, delle statuette di zucchero colorate raffiguranti paladini o figure maschili e femminili.
Infine, in Sardegna, si preparano dei dolcetti chiamati “pabassinas” o “pabassinos”, che devono il loro nome alla “pabassa”, cioè all’uva passa presente nel loro impasto insieme alla frutta secca ed al miele, e il “Pani ‘e saba”, un pane dolce che ha come ingrediente principale la “sapa”, il mosto di uva cotto.
Da queste preparazioni noterete che ovunque, a prescindere dai luoghi, gli ingredienti ricorrenti sono i “semi”. E se pensiamo all’analogia del seme che solo se posto nel buio della terra, quindi sotterrato, potrà tornare a vita nuova, capiremo il loro senso della rinascita e il perché alcuni cibi in occasione di questa ricorrenza, non possono mancare come le fave, il grano, e la melagrana.
Le fave per i Romani costituivano il cibo dei morti. Le consideravano sacre perché credevano che al loro interno fossero racchiuse le anime dei defunti, forse per le lunghe radici che affondano in profondità nel terreno che, secondo le credenze popolari, collegavano il mondo dei morti e quello dei vivi; e per i loro fiori bianchi con una caratteristica macchia nera, che ricordano la lettera greca ϑ, iniziale della parola ϑάνατος, che significa “morte”.
Erano il simbolo della resurrezione, il segno che le anime dei defunti non morivano con il corpo. Per questo sono diventate un cibo tradizionalissimo per la ricorrenza dei morti.
A Trieste le fave dei morti sono colorate simbolicamente di bianco (nascita), rosa (vita) e nero (morte).
Nel Lazio si preparano con mandorle, farina, zucchero, burro e uova, mentre in Umbria hanno uno spiccato profumo di limone e sono prive di burro.
In Emilia-Romagna esistono diverse ricette, gli ingredienti di base sono farina, zucchero, mandorle e uova, ma quelle di Ravenna contengono anche i pinoli, un po’ di farina di crusca mescolata a quella bianca e sono aromatizzate all’acquavite, mentre le fave di Forlì sono impastate con il burro e l’alchermes.
In Liguria, le fave e altre tipologie di frutta secca sono chiamate il “bene dei morti”.
Il grano è un altro importante cibo tradizionalmente presente sulle tavole il Giorno dei Defunti.
In tutte le culture e le religioni il grano è il simbolo stesso della vita e della fertilità ma anche di resurrezione. Ma per raccogliere il chicco di grano bisogna recidere la spiga, “ucciderla”, e il chicco, sottoterra, solo dopo essere “morto” rinascerà in una nuova spiga.
Nella tradizione culinaria italiana il grano è presente soprattutto nelle regioni meridionali. Cotto e mescolato a chicchi di melograno, cannella, noci, zucchero e vino cotto, faceva (e fa ancora) parte delle celebrazioni rituali in Puglia, dove troviamo il “Grano dei Morti” o anche Colva o Colba e, nella zona di Foggia, Cicc Cuott. Il nome colva, infatti, deriverebbe dal greco kòllyva o kòllyba, che significa “grano cotto” e gli antichi Greci lo preparavano per offrirlo agli dèi Dioniso ed Ermes.
Secondo la tradizione, la preparazione di questo dolce dovrebbe iniziare il 1° novembre con l’ammollo del grano e terminare il 2 con l’aggiunta di tutti gli altri ingredienti.
Ogni elemento presente nell’impasto fa parte della simbologia che lega la morte alla vita: il grano cotto rappresenta i defunti, i canditi o l’uva bianca sono la loro anima, i chicchi di melograno ricordano i loro occhi, le noci le loro ossa, il vincotto è il loro sangue, il cioccolato è la fertilità della loro esperienza terrena.
La tradizione del grano dei morti è presente anche in altre regioni del sud come la Calabria e la Basilicata, dove viene chiamato “u gran cutt”.
La melagrana è un frutto che porta il dualismo della vita e della morte, una duplicità di significato che di primo acchito potrebbe sembrare una contraddizione ma che riporta al ciclo della vita. È per questo che lo ritroviamo in molte pietanze che, per tradizione, vengono preparate il giorno della Commemorazione dei defunti.
Gli egizi la usavano durante le cerimonie funebri (sono stati ritrovati semi nella tomba di Ramses IV) e la mitologia greca ci racconta di Kore che rapita da Ade, dio dell’oltretomba, fu da lui costretta a mangiare sei chicchi di melagrana, cibo dei morti, e perciò condannata a ritornare ogni anno negli inferi e a restarci per un numero di mesi pari ai semi ingeriti.
Molto probabilmente per questo retaggio culturale il Carducci quando scrisse “Pianto antico”, per la morte del figlio Dante, scelse questa pianta: “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno …”