Mese Storico Viaggio nella storia

Storia dei mezzi di comunicazione: parlare senza parole

Venezia. Parlare senza parole.

A cura di Paolo Lanzotti

Il corpo umano possiede un codice di comunicazione silenzioso che viene definito scientificamente “linguaggio non verbale”. A chi li sa leggere, le espressioni del viso, la postura, i movimenti delle mani o degli occhi possono rivelare diverse cose sullo stato d’animo o sulle intenzioni di una persona. È una forma di comunicazione automatica e istintiva, a cui non si sfugge e della quale, in genere, non siamo neppure consapevoli. Ma a Venezia, nei secoli della gloriosa Serenissima, le nobildonne avevano altri due strumenti per dialogare senza parole in un salotto, in una gondola o al tavolino di una caffetteria: il neo e il ventaglio. E nel loro uso non c’era proprio nulla d’inconsapevole.

I nei

I nei posticci – a Venezia venivano chiamati “moschete” – erano in realtà pezzetti di stoffa di diverse forme e dimensioni. Si applicavano in varie parti del viso e, a seconda della loro collocazione, assumevano denominazioni diverse, ciascuna con un proprio significato. Per esempio, se il neo si trovava sulla gola veniva detto “della galante”. Se applicato all’angolo dell’occhio si definiva “dell’appassionata”. Se era sul naso diventava “della sfrontata”. Alla base del labbro o all’angolo della bocca era chiamato “della civetta” e addirittura “dell’assassina”.

È evidente che, pur non veicolando messaggi diretti ed espliciti, ciascuna di queste collocazioni esprimeva un atteggiamento, una condizione di spirito, un modo d’essere, un’aspirazione o un desiderio. Stati d’animo che la nobildonna poteva rendere pubblici, di volta in volta, senza aver bisogno delle parole e che si prestavano all’interpretazione di chiunque li ricevesse. C’era da sperare che una comunicazione così concepita non desse luogo a equivoci o ad aspettative immotivate. Ma almeno in un caso l’interpretazione del messaggio risultava alquanto semplice. Se la “moscheta” si trovava al centro della fronte significava “oggi mi sento piena di vita e sono pronta a tutto”, magari con una connotazione erotica, ma non necessariamente.  

il ventaglio

Forse ancora più esplicito era il linguaggio silenzioso del ventaglio: oggetto che non mancava mai fra le mani delle veneziane altolocate. Se una nobildonna s’accorgeva d’essere al centro degli sguardi indiscreti, ammiccanti o allusivi di un potenziale corteggiatore poteva sventolarlo lentamente o velocemente. Nel primo caso il messaggio suonava “Non c’è niente da fare. Sono sposata o, comunque, non m’interessi.”. Nel secondo caso si concedeva la possibilità di un eventuale approccio. Il messaggio, dunque, era: “Sono libera o mi ritengo tale. Quindi puoi farti avanti, con discrezione. Vedremo”.

Più succintamente, se la donna poneva il ventaglio chiuso sulla guancia destra significava “sì”. Se lo poneva sulla guancia sinistra significava “no”. Se lo toccava sulla sommità, tamburellando con le dita quasi nervosamente, voleva dire “devo o desidero parlarti subito”.  

Infine, il gesto più eclatante. Chi non ha mai letto, in qualche romanzo d’altri tempi, di una donna che lascia cadere il proprio fazzoletto, fingendo di non essersene accorta, così da indurre l’uomo dei suoi desideri a rincorrerla per restituirglielo? A Venezia si faceva la stessa cosa con il ventaglio. Lasciato cadere davanti a un uomo significava “seguimi”. Ma, in tal caso, il gesto non aveva proprio nulla di accidentale. Suonava come un invito esplicito, se non addirittura come un ordine. Se, infatti, è possibile che un fazzoletto scivoli dalla mano accidentalmente, senza che la proprietaria se ne accorga, è ben difficile immaginare che la stessa cosa possa accadere con un ventaglio. 

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