Riapre il salotto di TSD che oggi vede nostro ospite Alessandro Sponzilli, autore del recente “Il leone di Babilonia”, edito da Leone Editore.
Non vogliamo perderci in chiacchiere e andiamo subito a intervistare lo scrittore.
“Il leone di Babilonia” è il secondo romanzo ambientato nelle lontane terre mesopotamiche. Come mai questa scelta?
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Non c’è una ragione specifica. Sono sempre a caccia di storie poco raccontate e ne ho scovate di interessanti proprio lì. Credo di essere uno dei pochi che si è spinto nel mondo mesopotamico; eppure l’ho trovato così ricco di spunti avventurosi e mistici.
Se si pensa che ancora non è chiaro come i progenitori dei sumeri, gli Obeid, siano riusciti a coltivare il deserto con tecniche scoperte solo migliaia di anni dopo, unitamente al mistero della loro provenienza, si può certo immaginare quante vicende interessanti possono fornire lo spunto per la partenza di un romanzo. Mi colpì molto il romanzo “L’Assiro” di Guild, ambientato nella terra fra i due fiumi in un’epoca successiva alle mie storie. Ecco, direi che in quelle pagine ho trovato l’ispirazione per dedicarmi allo studio dei sumeri.
Il protagonista, Heydar, è descritto con rarissimi occhi azzurri, un tratto somatico sicuramente inusuale per la popolazione babilonese. Le andrebbe di spiegare a un suo potenziale lettore perché ha deciso di inserire questa peculiarità?
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In realtà le origini di Heydar sono in parte giudee, seppure al tempo sarebbe stato raro trovare caratteristiche simili a quelle del protagonista. Ma non impossibile, dati i numerosi scambi con i popoli dell’Egeo. Volevo donargli uno sguardo particolare, di quelli che non passano inosservati, inoltre doveva essere carismatico, insomma carico di mistero, ma anche sensibile e romantico.
La figura del leone rappresenta, simbolicamente parlando, la forza del regno. Nel suo romanzo quale significato assume?
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Babilonia era considerata la città dei leoni. Immagini leonine erano raffigurate ovunque: nelle colonne dei templi, all’interno e all’esterno di palazzi più o meno importanti, nelle decorazioni delle famose porte.
Un’immagine ricorrente che ricordava la potenza della stirpe caldea regnante. Heydar, che da schiavo diviene potente e libero, rappresenta la forza e la regalità di chi sceglie di emancipare la sua vita anche a costo di perderla.
Libertà e amicizia, due tematiche di sicuro a lei molto care presenti nei suoi lavori di scrittura. Cosa ci può dire a riguardo? Fino a che punto sono così importanti tanto da volerle inserire nei suoi scritti?
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L’amicizia e l’amore non sono poi così dissimili, sono risultati della chimica che avviene quando incontriamo qualcuno da amare, probabilmente già incrociato in vite passate, per chi ci crede. L’amicizia sarà sempre un caposaldo nei miei romanzi perché ci credo veramente. Quei pochi amici che ho…qualcuno già mi ha preceduto nell’oltre…sono per me un grande tesoro, un valore aggiunto. Poi ovviamente ci sono le simpatiche conoscenze, s’intende, quelli con cui ti trovi bene a far serata, ma gli amici quelli veri li riconosci ed entrano nella nostra vita per arricchirla, così come pretendo che avvenga per i miei personaggi. La libertà al tempo era una condizione da raggiungere, a meno non si fosse nati in una famiglia con mezzi importanti. A Babilonia si poteva diventare schiavi anche per debiti non pagati e si raggiungeva la libertà solo alla loro estinzione, non risultano dai testi consultati però particolari coercizioni, ossia la manovalanza era pagata per lavorare e non si avvicinava nemmeno un po’ all’immagine degli schiavi degli egizi che costruiscono le piramidi.
Nel romanzo è presente una componente mistica/religiosa importante. Durante il suo lavoro di ricerca a riguardo c’è qualcosa che l’ha colpita particolarmente? Perché?
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La linea di demarcazione fra religione e magia a Babilonia è molto tenue. I sumeri erano devoti a déi molto distanti dall’uomo, a differenza dei greci, per esempio, che subivano gli interventi divini nella vita comune. Di forte suggestione è che le loro scritture, risalenti a 2500 a.C. parlavano della creazione del mondo esattamente come descritta nella Bibbia. Babilonia era una città mistica dedita a molti culti, ma si ponga l’attenzione su un punto: non vi era nessuna preclusione per altre divinità. I giudei che vi abitavano sia schiavi che uomini liberi, per esempio, potevano adorare il loro Dio senza nessun veto. Quindi pare non ci fosse quell’oltranzismo tipico dell’epoca, e tuttavia si osservavano delle usanze locali devozionali a cui tutti potevano accedere.
Per chiarire il rapporto con gli déi babilonesi, i notabili e i regnanti, insomma gli uomini che contavano, erano chiamati con il suffisso Nab. Nabucodonosor, Nabonedo, Nabuzardan, Nabopolasar, prendevano il nome dal dio Nabu, l’essenza eterea della conoscenza universale, non un dio crudele e guerriero ma tollerante e saggio. I sacerdoti erano introdotti nella contemplazione delle stelle, praticavano esorcismi per favorire la coltivazione dei campi o la fertilità delle donne. Addirittura avevano inventato uno strumento che misurava lo scorrere del tempo, il precursore della clessidra. Questa mescolanza fra devozione e apprendimento mi ha incuriosito e ho inserito questo aspetto nella vita quotidiana dei babilonesi. In particolare di una certa Adagupi, la maga sacerdotessa. Non vi anticipo nulla, ma non bisogna perdersela, è veramente una donna affascinante e, naturalmente, come quasi tutti i miei personaggi, compreso Heydar, veramente esistita.
Amore e avventura, non c’è prevaricazione e le due componenti sembrano miscelarsi sapientemente. Possono essere considerate entrambe chiave di lettura o una delle due, in questo caso, assume un’impronta decisiva?
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Nel romanzo la vicenda d’amore assume una connotazione di tipologia “shakesperiana”, ovviamente solo nel racconto, si badi bene. L’amore con la A maiuscola è sempre contrastato, c’è sempre chi ama di più e chi sacrifica meno. Basta raccontare senza eccessi né forzature questo disequilibrio, ed ecco che creiamo il dramma d’amore, meglio se si sviluppa attorno alle vite di due personaggi così distanti fra loro. Ma in fondo tutti noi lettori pretendiamo che vi sia quella componente fatata in ogni storia. Certamente il romanzo parte come una storia d’amore, direi che è la struttura portante di tutta la storia e si intreccia con l’aspetto avventuroso senza mai prevaricarlo, anzi spesso cerco molto umilmente di far percepire una loro naturale interdipendenza.
Ectabana, Regno di Media, 600 a.C. Heydar è un ragazzo di basso ceto dai rarissimi occhi azzurri. La sua unica ambizione è conquistare il cuore di una giovane nobile. Una sera Heydar ruba un gioiello da donare all’amata. Lei, dopo il gesto del ragazzo, promette di fuggire con lui per cominciare una nuova vita. Ma la stessa sera, al ritorno dall’incontro, Heydar viene catturato dal mercante a cui aveva sottratto il gioiello. Impossibilitato dal ripagare il debito, il ragazzo dagli occhi azzurri viene venduto come schiavo in un lontano villaggio ai confini di Babilonia. Passano lunghi anni, Heydar si è arreso alla schiavitù e ha ormai perso le speranze, fino all’arrivo di un pericoloso leone. Gli abitanti del villaggio spaventati dalla bestia chiedono aiuto ai principi babilonesi Sumulisir e Nabucodonosor. Lo schiavo è intento a compiere una commissione per la sua padrona, non lontano dal villaggio. Qualcosa cattura la sua attenzione. Nota due cavalieri babilonesi scontrarsi contro un possente leone. Heydar, vedendo uno degli uomini in pericolo di vita, interviene e colpisce a morte la bestia. Il futuro re di Babilonia, Nabucodonosor II, è stato salvato da uno schiavo. Heydar viene portato in trionfo nella lussuosa capitale, dove la sua ambizione si scontrerà con il suo destino.