Berenice di Cilicia, meretrice o donna innamorata?
Articolo a cura di Fiorella Franchini
“Amavo, Signore, amavo: volevo essere amata” dichiara Berenice di Cilicia nell’atto V della tragedia in versi di Jean Racine. Il drammaturgo francese ne fa una paladina dell’amore, vittima della ragion di stato, pronta a suicidarsi per la separazione da Tito, senza mascherare, tuttavia, la sua natura ambiziosa, desiderosa di diventare Imperatrice di Roma.
Giulia Berenice era un membro della dinastia erodiana, tra i suoi avi ci fu Erode il Grande, conosciuto per la famosa “strage degli innocenti”. Dai tempi di Augusto, la Giudea era diventata possedimento romano, ma la ribellione degli Ebrei, portò Roma alla prima guerra giudaica (66-70 d.C.) aspramente combattuta da Vespasiano che, eletto imperatore, passò il comando al figlio Tito Flavio. Fu proprio durante l’assedio di Gerusalemme che Tito conobbe Berenice.
La bella principessa a tredici anni aveva sposato un congiunto, Marco Giulio Alessandro, in seguito lo zio Erode di Calcide, da cui ebbe due figli, Bereniciano e Ircano, e da cui rimase vedova a vent’anni. Dopo un breve ritorno a palazzo si unì a Polemone I di Cilicia, ma si allontanò ben presto per ritornare dal fratello Agrippa. In un viaggio a Cesarea ascoltò la difesa di San Paolo, accusato di fomentare rivolte e non si risparmiò durante l’assedio del Tempio per convincere i rivoltosi ad arrendersi e, ancor prima, si presentò scalza e senza scorta al procuratore romano Gessio Floro per implorarlo di sospendere le stragi e le violenze contro gli abitanti di Gerusalemme.
La sua presenza sempre al fianco di Agrippa fu senz’altro il segno della sua enorme influenza e delle sue doti diplomatiche. Secondo il giudizio degli storici del tempo, sebbene avesse almeno dieci anni più del giovane generale, “possedeva l’avvenenza, il fascino, la malia di una donna orientale”, mentre Tito era conosciuto per la sua lussuria e ingordigia sessuale. I loro incontri, persino quelli negli accampamenti, erano lascivi e focosi. Tacito la definì “bellissima” quando lei aveva già 40 anni e il futuro imperatore 27. Domata la rivolta e distrutto il Tempio, Tito la condusse a Roma, dove vissero come marito e moglie. Probabilmente, le promise davvero di sposarla ma il Senato era scandalizzato dalla sua condotta di vita e non approvava la nazionalità della principessa. Le fonti raccontano che “organizzò una sua corte personale, era altezzosa, superba, ostentava maniere così distaccate da provocare l’orgoglio e l’antipatia dei Romani che pure, sensibili com’erano alla bellezza femminile, si lustravano gli occhi ogni volta che la vedevano.”
Le voci si rincorrevano circa la sua fama di donna lussuriosa, addirittura incestuosa, visto il rapporto più che affettuoso con il fratello Agrippa. Giovenale ironizzò ferocemente a proposito di un grosso diamante regalato alla sorella, quasi come un dono di nozze e la tradizione ebraico-cristiana la descrisse sempre come donna dedita ai vizi più immondi, come emerge anche dall’epiteto “Berenice la meretrice”. Vespasiano la fece allontanare ma alla sua morte rientrò a Roma, convinta di avere ancora un posto nel cuore del suo amante. Con l’ascesa al trono di Tito, invece, Berenice fu costretta a tornare in Palestina e non si conosce ancora il perché di questa decisione da parte del nuovo imperatore. Forse la presa di coscienza del suo nuovo ruolo? Le pressioni del Senato? Le ultime volontà del padre Vespasiano? Oppure un nuovo amore? Si parlò di Domizia Longina, moglie del fratello Domiziano, più giovane di Berenice e più scaltra, intrigante, libertina.
A 51 anni, forse Berenice non aveva più la stessa avvenenza; subì anche un processo per un’accusa di arti magiche da cui la difese Quintiliano. Tuttavia, poco prima di morire, alla fine del suo breve e travagliato regno, pare che Tito abbia ammesso che: “nessuno dei suoi atti gli lasciava rimorsi ad eccezione di uno solo“. Questo rimorso potrebbe essere stato proprio il ripudio della donna amata o, almeno, ci piace crederlo. Come ci racconta Svetonio: “Berenicen statim ab urbe dimisit, invitus, invitam”, Tito, una volta diventato imperatore, controvoglia allontanò subito da Roma Berenice che anch’essa non lo voleva.
La regina di Cilicia fu costretta a tornare dal fratello in Giudea e le sue tracce si persero nell’oblio, anche se un’insolita leggenda racconta che il primo maestro della raccolta e della lavorazione del bisso in quel di Sardegna, fosse proprio Giulia Berenice di Cilicia, che trovò un rifugio certo e sicuro nell’isola di Sant’Antioco. Per non impazzire pensò di distrarsi vicino al mare e, immergendosi nelle profonde acque del Mediterraneo, scoprì La Pinna Nobilis e le matasse di bisso, trascorrendo il resto della sua vita in esilio sull’isola a raccogliere il prezioso filato detto anche la bava d’oro. Un’immagine che poco somiglia all’ebrea che ambiva dominare Roma. Piuttosto, viene da pensare alla sua cocente delusione, all’amarezza per quel ripudio inaspettato. Suo fratello Agrippa si spense nel 100 d. C., a settantatré anni, e con lui scese nella tomba la dinastia degli Erodiadi. I Romani si annessero i suoi territori e cancellarono così le ultime speranze d’indipendenza del popolo giudaico.
La relazione di Tito e Berenice, invece, fin dal XVII secolo ha ispirato una lunga tradizione di opere romanzi, drammi, opera liriche, balletti, da Metastasio a Corneille, da John Masefield a Mozart.
Si racconta che, ancor oggi, in una loggia all’ultimo piano di Via del Portico d’Ottavia n.13 a Roma, capiti che si affacci, a volte, una donna in attesa; pare sia il fantasma di Berenice di Cilicia che attende l’arrivo del suo amato Tito nella splendida domus in cui consumavano il loro ardente amore.
Trama
Il 24 giugno del 79 d.C. Tito Flavio, generale che aveva saccheggiato e distrutto il Tempio di Gerusalemme, diviene Imperatore di Roma e ripudia la regina Berenice di Cilicia, sua amante. Assunto il potere, Tito deve fronteggiare l’eruzione del Vesuvio, un’epidemia a Roma e il terribile incendio di Campo Martio, prima di morire in circostanze improvvise e poco chiare. Furono questi eventi, disastrosi e funesti, legati alla terribile maledizione ebraica, la pulsa de nura, invocata dai rabbini per placare la collera di Berenice? Su questa ipotesi si regge il romanzo che intreccia la cospirazione politica a una struggente storia d’amore, sullo sfondo della Campania felix e dei Campi flegrei, rappresentati nello splendore architettonico delle ville patrizie, nella magnificenza dei templi e nella vivace quotidianità di plebe e mercanti.