Recensione a cura di Claudia Babudri
Spengo la tv, disorientata. Il telegiornale mi lascia sempre quella profonda amarezza destinata a durare per un po’. Tra immigrazione, guerre ed altri disastri è difficile restare insensibili. Mi ritornano in mente le parole di Albert Einstein a proposito del disarmo e del progresso. “La gente cerca di minimizzare il pericolo limitando gli armamenti e prolungando leggi restrittive per la conduzione della guerra” proseguiva Einstein, continuando il discorso “dove sono in ballo la vita e la morte, gli obblighi e regole vengono meno. Solo il rifiuto di tutte le guerre può essere d’aiuto in questo caso.” E il rifiuto verso le atrocità della storia deriva dalla consapevolezza del proprio comune passato, approfondito attraverso la lettura di libri come questo.
Artisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle avanguardie europee è un saggio storico di Maria Passaro (Il Mulino, 2018) incentrato sul rapporto tra l’ideologia nazista e le avanguardie del Novecento. Il 30 gennaio 1933, Adolf Hitler, leader delle forze nazionalsocialiste tedesche, diviene cancelliere. Tempi oscuri sono in serbo per l’Europa.
La furia nazista non fece sconti, imponendo tra le varie leggi la revoca della naturalizzazione e privazione della cittadinanza verso tutti coloro che “si comportavano in modo contrario al dovere di lealtà del Reich”. Dai comuni cittadini riluttanti all’idea della dittatura, ai mass media, agli oppositori politici e al mondo dell’arte, tutti sono passati al vaglio del regime per motivi religiosi, etnici, di orientamento sessuale ed ideologici.
“In un clima dominato dalla censura e dal controllo, la propaganda nazista si propone di ripristinare l’antico ordine classico dopo quella che viene definita la furia modernista.”
Per il Reich è arte degenerata, parto mentale di un folle, dunque nemica. Delle avanguardie, alla Camera della Cultura del Reich, istituita da Joseph Goebbels nel 1933, non piaceva nulla: gli avanguardisti basavano i loro studi sull’arte primitiva, quella dei bambini e le produzioni dei malati mentali. Questi studi particolari erano stati coltivati sin dalla metà dell’Ottocento, con Sigmund Freud e le sue nuove scoperte. Queste indagini continuano anche nei primi del Novecento.
La Passaro ricorda gli studi del medico e storico dell’arte tedesco Hans Prinzhorn , autore de “L’arte dei folli. L’attività plastica dei malati mentali”, pubblicata nel 1923. Secondo Prinzhorn, c’era un delicato confine tra arte e follia e i soggetti mentalmente compromessi, creavano senza finalità ma con pulsioni comuni come l’ordine, l’espressione o particolari sistemi simbolici. A questi studi si aggiungevano quelli di Walter Morgenthaler , interessato alla dimensione estetica di queste opere.
Mi sono soffermata su questa parte in quanto la trovo di estremo interesse per capire in che modo si giunge alla definizione di “arte degenerata”. Queste ricerche, studiate e fraintese dai nazisti, supportate da vecchie e tragiche teorie come quelle di Cesare Lombroso, Max Nordau e Paul Shultze- Naumburg, diedero al Reich le chiavi (pseudo)scientifiche per definire ciò che ispirava in loro “orrore e disgusto”, ovvero l’arte moderna, degrado mentale, irrecuperabile, criminale e minacciosa.
“La degenerazione s’identificava con il processo inverso dell’evoluzione, cioè la regressione a stati dell’uomo primitivo e dei suoi antenati preumani”.
La critica feroce verso artisti e avanguardie culminò con la mostra d’Arte degenerata allestita nel 1937 all’Istituto di archeologia di Monaco di Baviera. Le opere, malamente esposte in corridoi bui, accatastate senza giudizio, in modo aggressivo ed oppressivo, presentate con titoli che ne sottolineavano la presunta oscenità, furono requisite dai musei di tutta la Germania. La mostra, divenuta itinerante nei territori del Reich, non aveva allestimento casuale.
Opere della Die Brucke, del Cavaliere Azzurro, del Bahuaus e di grandi maestri come Kokoska, Dix o Schwitters, erano state appositamente accatastate o esposte in un continuo sulle pareti delle sale espositive al fine di sottolinearne la degenerazione. E nel frattempo, al pari dell’arte, Hitler scatenò i suoi mastini alla ricerca degli artisti. Finché fu possibile ribattere, pittori, scultori, musicisti e intellettuali continuarono a lavorare alacremente.
Naturalmente, questo fu possibile solo nei paesi liberi, non ancora assoggettati dal regime nazista. È il caso di Kandisky, genio dell’astrazione biomorfa, in quegli anni attivo a Parigi. La Francia, finché fu libera, gli diede la possibilità di esprimersi e di sperimentare, almeno fino al 1940 quando Hitler, conquistandola, impose la consegna su richiesta. Corrosi dal cancro della dittatura tedesca, i paesi europei assoggettati non sono più sicuri. Gli artisti, per motivi etnici, religiosi, ideologici e di orientamento, scappano verso le nazioni ancora libere. Da Amburgo, l’Istituto fondato dallo storico Aby Warburg si trasferisce a Londra. Il Reich, infatti, non avrebbe mai potuto tollerare la presenza di un ente dedicato non solo alle ricerche particolari di Warburg ma anche alla sua memoria. Quella di un ebreo. A Londra, tra i vari artisti, approda anche Kurt Schwitters.
Chi poteva, fuggiva ancora più lontano, in America. Se oggigiorno abbiamo la fortuna di poter ammirare opere d’avanguardia o di leggere capolavori della letteratura internazionale, altrimenti distrutti dalla furia nazista, è merito di uomini e istituzioni impegnate nella loro salvaguardia. In primis, Varian Fry, la “primula rossa”.
Membro del Comitato di soccorso d’emergenza creato dall’associazione Amici americani per la libertà tedesca, Fry riuscì a proteggere e a salvare, tra i geni del Novecento, Breton, Ernst e Chagall, procurando documenti falsi, indirizzandoli su mezzi sicuri verso l’America. Per alcuni, come Paul Westheim, riuscì ad ottenere il rilascio dai campi d’internamento. Trasferitisi oltreoceano, altri dotti ed intellettuali dell’epoca si riorganizzarono, forti di contatti importanti. È questo il caso, ad esempio, di Pierre Matisse, figlio del grande pittore, impegnato a New York nell’organizzazione di mostre. A differenza del Reich, l’America capisce da subito la portata del regalo involontariamente fatto dai tedeschi.
Se Goebbels accennava nel suo diario all’intenzione di vendere sul mercato internazionale le opere degenerate, sperando di “fare un po’ di soldi con questa spazzatura”, il MoMA ne intuì la portata rivoluzionaria. Tramite un sistema di fidati e insospettabili prestanome, presenziò a tutte le aste internazionali riuscendo ad acquistare e salvare molti capolavori destinati a più tragica fine. L’America si lascia ispirare dall’arte europea, divenendone al contempo fonte di ispirazione. Hans Hofmann era giunto in America nel momento esatto in cui Hitler era diventato cancelliere. Precedentemente aveva lavorato tra Monaco e Parigi per approdare a New York e aprire la sua scuola, in un confronto continuo tra arte e natura. Vivere in Germania era diventato arduo anche per Josef Albers e sua moglie Anni. Josef aveva insegnato al Bauhaus, Anni era ebrea. Era impensabile per loro continuare una esistenza tranquilla in Europa. Giunti a New York in nave, proseguirono per il North Carolina e poi per il Connecticut, dove Josef fu chiamato ad insegnare all’Università di Yale. Lasciato il Bauhaus, anche Laszlo Moholy – Nagy migra prima ad Amsterdam e poi a Chicago dando vita alla nuova visione del New Bauhaus. Da Parigi a Londra. Poi a New York. Piet Mondrian scopre la vita vorticosa della metropoli americana. Ugualmente, Lyonel Feininger. Grattacieli, musica, luci, movida colpiscono gli artisti. Si rielabora il reale, portando avanti i propri progetti con la consapevolezza sempre viva della propria identità e della propria storia.
Il libro, particolareggiato, dallo stile scorrevole e accessibile a tutti rappresenta un ottimo supporto per lo studio o il semplice approfondimento personale. Il tema, estremamente accattivante, offre al lettore inediti spunti di riflessione. Questo libro induce il lettore a confrontarsi materialmente con la crudeltà della guerra, l’intolleranza becera, la chiusura alle idee, la negazione delle libertà di parola ed espressioneattraverso le storie dei grandi maestri dell’Arte. Il lettore potrà riflettere sul passato in relazione al presente. La Passaro, pur mantenendo un registro professionale, descrive semplicemente l’arte attraverso gli uomini, protagonisti con le loro scelte del corso della storia. Se da una parte i nazisti scelsero la morte, dall’altra Varian Fry e il MoMa votarono per la vita, per la cultura, per il dialogo, comprendendone l’importanza. Parliamo degli stessi uomini, fatti di carne ed ossa, di sentimenti, di idee. Uomini autori di scelte diverse. Uomini coraggiosi, come i grandi maestri del Novecento: seppur col cuore infranto, furono capaci di ricominciare e lottare per la propria arte, la propria libertà creativa.
La Passaro, tramite questo libro sembra voler comunicarci proprio questo. Ed infondo, come sosteneva Albert Einstein, “il destino dell’umanità civilizzata dipende più che mai dalle forze morali che è capace di generare”.
Descrizione:
Emblematica della furia censoria nazista, la mostra sull’«Arte degenerata» del 1937 presenta gli artisti d’avanguardia come un residuo sociale perverso e irrecuperabile. In quel clima carico di minacce, un’intera leva di artisti si trovò a dover fuggire dall’Europa e a cercare riparo negli Stati Uniti. Per loro quel grande paese fu prima di tutto l’approdo alla salvezza, poi la possibilità di un nuovo inizio, senza nostalgie né rimpianti. Smentendo una rappresentazione dell’esilio come perdita, il libro mostra come per molti di quei transfughi – da Mondrian a Randinsky, da Moholy-Nagy a Max Ernst – l’esperienza americana coincise con una stagione ricca di creatività, portatrice di straordinari innesti artistici.