Narrativa recensioni

L’impresa di Pitea – Francesco Gioia

Recensione a cura di Laura Pitzalis

Pitea, chi era costui?  Un personaggio straordinario, un navigatore e geografo, originario della colonia greca di Massalia, (l’odierna Marsiglia), vissuto presumibilmente tra il 380 a.C. e il 310 a.C.

Compì imprese sorprendenti viaggiando, intorno al 325 a.C., oltre le colonne d’Ercole, il limite ultimo e invalicabile della Terra conosciuta, esplorando, circumnavigandola, una considerevole parte della Gran Bretagna, l’Irlanda e le isole Shetland. Arrivò, molto probabilmente, oltre il circolo artico e tutto questo senza la guida di bussole o mappe! Fu il primo a descrivere il sole di mezzanotte, l’aurora polare e i ghiacci polari.

Descrisse i suoi viaggi in un’opera, “Dell’Oceano”, di cui sono sopravvissuti solamente alcuni frammenti, citati o parafrasati da autori successivi, e resoconti dei suoi viaggi contenuti nei testi di Strabone, Diodoro Siculo ePlinio il Vecchio. Storie talmente incredibili che Pitea fu accusato di aver documentato un viaggio immaginario che non sarebbe mai avvenuto: “il bugiardo” cominciarono a chiamarlo.

A tutt’oggi comunque, paragonando le osservazioni di Pitea con quelle attuali, si ritiene che il viaggio con molta probabilità avvenne.

Nonostante sia stato riconosciuto come uno dei più grandi esploratori, Pitea è stato dimenticato dai più.

A riportarlo “alla luce” e a ridargli tutta l’attenzione che gli spetta, ci ha pensato Francesco Gioia che lo erge a protagonista del suo romanzo “L’impresa di Pitea”, costruendogli con la sua penna una storia completamente romanzata, pur con solide basi storiche, facendolo diventare principe di Massalia, poi “kopistero”, (gladiatori romani ante litteram), e infine “navarca”, ammiraglio della flotta greca.

Sapendo, infatti, che Pitea si era recato nei mari del nord e soprattutto in Gran Bretagna, l’autore cosa fa? Gli fa ripetere il viaggio ma non come esploratore ma immaginandolo principe di Massalia che, rapito e portato a Taranto come schiavo e obbligato a combattere nell’arena, è costretto per riavere la libertà sua e della sua famiglia a recarsi nell’isola di Albione, (Gran Bretagna), e riportare in patria la figlia di Archita.

Archita, eminente personalità della città, morto tragicamente dopo un naufragio presso Mattinata, sulla costa japigia … era considerato il padre della polis, pur non essendone stato il fondatore. La città greca aveva portato il lutto per novanta giorni, ma le conseguenze di quella perdita si erano protratte ben più a lungo. Nessuno aveva avuto il coraggio di raccogliere l’eredità di quell’uomo, il suo governo illuminato aveva portato Taranto a uno splendore mai raggiunto prima.

Pitea è un personaggio molto ben caratterizzato, un eroe tutto di un pezzo, dignitoso, molto legato alla famiglia, all’amor di patria, che crede nei valori ma che allo stesso tempo dimostra quelli che sono i limiti umani, con le sue incertezze, paure, trasgressioni.

Quella donna era come se volesse aprirgli gli abissi della concupiscenza. Avrebbe resistito? Non ne fu più convinto come un tempo.

In ogni romanzo che si rispetti, accanto al protagonista positivo, l’eroe, c’è sempre il suo “alter ego”, la faccia scura della luna, il personaggio che fa da contraltare al protagonista, e Gioia lo crea con Fedro, il Tiranno di Taranto.

Se Pitea è un personaggio diretto, immediato, con saldi principi morali, Fedro è tutto l’opposto: subdolo, astuto, vizioso, con abitudini alquanto eterodosse, che governa pensando al suo tornaconto. Molto impulsivo, viene “portato alla ragione” da Nefarti, suo consigliere, sempre pronto a consigliargli come prendere le decisioni più consone al momento. Anche lui è uno dei personaggi di spicco del romanzo che l’autore tratteggia in modo esemplare e che ci riserverà più di una sorpresa.

“L’impresa di Pitea” è un romanzo d’avventura ma anche storico, che mi ha ricordato film di giurassica memoria, dove l’eroe, caduto prigioniero, per riacquistare la libertà sua e della sua famiglia, deve compiere un’impresa epica, fitta di pericoli, battaglie, imboscate, tradimenti, congiure. Il tutto contornato da nobili sentimenti di lealtà, altruismo e amori traditi da perdonare come pure dal desiderio di dominio e potere insito nell’uomo fin dall’antichità.

L’aspetto storico è dato dall’ambientazione spaziale, luoghi affascinanti dominati dalla cultura greca, città maestose all’apice del loro splendore e ricchezza come Cartagine, Siracusa e Taranto, l’antica Taras, la perla della Magna Grecia, dove si snodano le vicende del romanzo.

In queste pagine l’avventura cede il posto alle conoscenze storico-sociali dell’autore, siamo nel IV secolo a.C., che con minuzia, ma mai in modo prolisso, ci rende partecipi di frammenti di vita dell’epoca, dei riti religiosi, degli usi e costumi dei vari popoli. Ci conduce tra le vie ampie e sontuose delle zone residenziali e in quelle polverose, degradate, umide e maleodoranti delle zone popolari. Ci fa partecipare, nell’agonisterion, ai combattimenti dei kopisteri, sui quali il governatore della polis ha potere di vita e di morte, aspetto questo che verrà ripreso nella civiltà romana con i gladiatori.

…La folla iniziò a gridare il nome del massaliota, pretendendo l’uccisione del vinto. Dal palco d’onore si alzò una figura esile, dalla veste bianca con i contorni di porpora, si avvicinò al cornicione e, quando fu certo di avere tutti gli sguardi su di sé, diede il segnale per il colpo di grazia.

E poi ci sono i riferimenti al mito che Francesco Gioia intreccia alla storia in un modo originale e raffinato: le divinità dell’epoca entrano come personaggi nelle vicende del romanzo non solo contestualizzando gli eventi ma intervenendo concretamente nelle situazioni o solo commentandole.

 La dea Afrodite sorrise in modo malizioso, gustandosi la scena. Chiamò il suo dispettoso figlioletto Eros, occupato a giocare ai dadi con Ganimede, e lo pregò di scoccare un’altra delle sue frecce nel cuore dei due mortali, fermi sulla scogliera di Taranto.

Un romanzo piacevole da leggere grazie a uno stile narrativo fluido e semplice e alla capacità descrittiva di Francesco Gioia, così nitida che riesce a farci partecipare alla storia come se stessimo guardando una proiezione in 3D. Ci immedesimiamo nei personaggi, tifiamo per alcuni di loro, inorridiamo per alcune scene o decisioni, ci agitiamo circondati dal mare in tempesta, ci commuoviamo per la bellezza della natura, sorridiamo per gli atteggiamenti prettamente umani degli Dei.

Tutte queste sensazioni ci accompagnano per tutto il libro fino a un finale che non mi aspetto e non voglio ma in linea con i classici drammi epici. Un finale che, anche se il romanzo è autoconclusivo, tiene uno spiraglio aperto a un probabile sequel: ci riporterà Francesco Gioia nell’atmosfera arcana e sempre affascinante della Magna Grecia?

Ai posteri l’ardua sentenza.

Editore: ‎ Libromania (30 novembre 2021)
Copertina flessibile: ‎ 335 pagine
ISBN-10: ‎ 8851197709
ISBN-13: ‎ 978-8851197704
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Trama
Nel IV secolo a.C., il principe greco Pitea conduce un’esistenza felice a Massalia (l’odierna Marsiglia). È un sovrano duro ma giusto e onesto, amato dalla gente e dalla sua famiglia. Ma proprio mentre passeggia insieme alla moglie Niobe e alla figlioletta Cloe al di fuori delle mura cittadine, un inaspettato rapimento stravolge per sempre la sua vita.
Pitea viene trascinato nella lontana Taranto, dov’è costretto prima a lottare fino alla morte in sanguinosi combattimenti contro guerrieri forti e disperati come lui, e poi ad accettare il temibile patto che gli viene imposto da Fedro, il tiranno della “perla della Magna Grecia”. Fedro vuole riconquistare il favore dei tarantini rintracciando la giovane Patusa, figlia del grande e indimenticato governatore Archita, che anni addietro è stata venduta dagli iapigi a misteriose tribù celtiche sulla lontana isola di Albione. E solo un eroe come Pitea può riuscire a riportarla a casa.
Ha inizio così un viaggio epico e avventuroso per mari e contrade inesplorate. Pitea dovrà superare il ferreo controllo dei cartaginesi sui mari e attraversare le colonne d’Ercole: un’impresa che sarebbe ardua anche per un eroe omerico, ma che Pitea non può rifiutarsi di tentare se vuole riabbracciare la moglie e la figlia.

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