Personaggi Storici Viaggio nella storia

Il signor Barattieri e il gioco d’azzardo a Venezia – A cura di Paolo Lanzotti

Articolo a cura di Paolo Lanzotti

A San Marco, tra Palazzo Ducale e la Biblioteca Marciana, nella cosiddetta “piazzetta” che guarda la laguna e l’isola di San Giorgio maggiore, si ergono due alte colonne di marmo: quella di San Teodoro e, appunto, quella di San Marco. Molti sanno che, per secoli, il luogo fu sinonimo di tragedia. Era, infatti, tra queste due colonne che il boia della Serenissima eseguiva le sentenze capitali, per impiccagione, squartamento o taglio della testa. Da qui il detto veneziano “finire tra Marco e Todero”, che significava, appunto, essere giustiziati. Triste destino per dei pilastri che reggono, sulla sommità, l’emblema dei santi protettori di Venezia. Tuttavia, quello spazio insanguinato custodisce anche un altro ricordo, meno cupo, forse meno noto, ma non meno interessante. 

Le colonne della Piazzetta di San Marco e il gioco d'azzardo a Venezia |  Venice Café

La storia inizia nel 1172 quando un capomastro di nome Nicolò Barattieri (a volte identificato anche come Barattiero) ottenne la commessa necessaria per erigere le due grandi colonne provenienti da Costantinopoli che, da tempo, giacevano distese sul molo davanti a Palazzo Ducale. Barattieri portò a termine il lavoro a regola d’arte, eresse i due pilastri su dei solidi basamenti in pietra d’Istria e venne pagato. Ma non con del denaro. Quale ricompensa, chiese furbescamente che lo spazio fra le due colonne diventasse una specie di “zona franca”, aperta a ogni tipo di gioco d’azzardo. Ovviamente, insieme alla concessione chiese anche di poter gestire le attività inerenti al gioco in regime di monopolio. Ben lieta di non dover mettere mano al portafoglio, la Repubblica Serenissima gli concesse il privilegio. Nello stesso tempo decretò che il gioco fosse proibito in qualsiasi altra parte della città e addirittura per venticinque miglia intorno. Unica eccezione, il gioco degli scacchi.

Inutile dire che quest’ultima, audace disposizione di legge rimase sempre sulla carta e, nonostante i ripetuti tentativi delle autorità, non venne mai applicata. La proibizione fu abrogata, diverso tempo dopo, dal doge Andrea Gritti (1455-1538). Ma si trattò di un’inversione di rotta pressoché superflua, che prendeva semplicemente atto di una situazione. Le cronache del tempo raccontano che il gioco d’azzardo era così diffuso, in ogni strato della popolazione, che lo si praticava perfino sotto i portici di Palazzo Ducale, o nel cortile interno: il cosiddetto broglio. Dunque, proprio nei luoghi in cui era stata promulgata la legge e dove operavano coloro che avrebbero dovuto provvedere alla sua applicazione.

Venezia 1774, al bando IL GIOCO D'AZZARDO!

Non c’è da stupirsi. Il gioco d’azzardo era la grande passione, o il grande demone, dei veneziani. Soprattutto negli ultimi decenni della Repubblica – il famoso, gaudente e contraddittorio ‘700 – al tavolo della Bassetta, del Faraone, della Zecchinetta, dei Trionfetti, del Picchetto o del Mercante in Fiera si perdevano e si vincevano ogni giorno ingenti somme di denaro, se non addirittura interi patrimoni. Nessuna classe sociale era esente dal vizio e perfino i tutori dell’ordine partecipavano volentieri a questa specie di delirio collettivo.

C’erano, naturalmente, delle sale da gioco autorizzate, come il famoso Ridotto di Ca’ Giustinian. Ma chi non voleva o non era in grado di servirsene poteva sfidare la sorte praticamente in ogni angolo della città. Nelle case private, in primo luogo, dov’era quasi impossibile recarsi per una visita di cortesia senza poi doversi sedere al tavolo da gioco, volenti o nolenti. Ma anche nelle osterie, nei negozi di barbiere, nelle caffetterie, nelle farmacie, nelle locande, nelle botteghe d’ogni genere. Le eccezioni non mancavano. Tuttavia, in barba alla legge, erano molti gli esercizi pubblici che operavano come vere e proprie bische clandestine e mettevano a disposizione dei giocatori un discreto retrobottega dove gettare i dadi o distribuire le carte. Ogni occasione era buona. Ma poi, si sa, dopo una vincita bisogna festeggiare, mentre, se si risulta perdenti, bisogna trovare il modo di consolarsi. Così, queste bische non autorizzate offrivano spesso ai clienti anche una stanzetta appartata, predisposta per incontri di genere più intimo. In tal modo, il gioco d’azzardo andava a braccetto con l’industria della prostituzione. Il tutto sotto l’occhio compiacente, se non partecipe, degli sbirri.

Nicolò Barattiero, l'architetto che innalzò le colonne e il Campanile

Ma torniamo al nostro Nicolò Barattieri. Nonostante che, come abbiamo visto, la legge operasse solo sulla carta, il privilegio da lui ottenuto gli consentì di diventare in breve piuttosto ricco, mettendo in luce la sua lungimiranza e il suo spirito d’iniziativa. La vicenda non è certo di quelle che riempiono i libri di storia ed è difficile dire per quanto tempo i veneziani abbiano continuato a ricordarla. Ma una cosa è sicura: la memoria dell’intraprendente capomastro sopravvisse a lungo perlomeno nel linguaggio quotidiano. Nei secoli successivi, fino alla conquista napoleonica e oltre, a Venezia i giocatori d’azzardo professionisti vennero infatti chiamati col suo nome: barattieri.     

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