Recensione a cura di Lucia Maria Collerone
Dietro questa lunga biografia si sente l’amore e la passione dell’autore, un uomo, un ricercatore, che dedica il suo tempo, le sue capacità, la sua volontà e la sua perseveranza per mantenere l’attenzione focalizzata sui suoi obiettivi, anche quando tutto diventa difficile e gli ostacoli sembrano insormontabili.
C’è l’amore per la ricerca, la scoperta, il desiderio di far conoscere, di recuperare alla memoria la vita di un uomo, non solo per la sua eccezionalità, ma anche per la sua umanità, provata dalle esperienze della vita. Si sente, senza dubbio alcuno, la passione per la storia, per i suoi avvenimenti e per i risvolti nella vita delle persone comuni o meno, le sue orme indelebili, le macchie, le fragilità, il potere e la forza che, nelle persone eccezionali, a volte si trasformano con azioni di pura grandezza.
Lo scopo di Ed Caesar di restituire e mantenere alla memoria la vita di un uomo eccezionale, quale fu Maurice Wilson, diventa evidente nella scelta dell’autore di parlare di sé e della sua volontà di scrivere la sua biografia, rivolgendosi a sé stesso nella narrazione e parlando di sé in seconda persona singolare per raccontare questo suo impeto e insopprimibile volontà, scelta narrativa avvincente e davvero funzionale allo scopo.
Nel 2011 hai letto qualche riga su un inglese degli anni Trenta che decise di scalare l’Everest, ma ne fu impedito – un uomo talmente motivato e insofferente alle regole per volare per migliaia di chilometri, camminare per altre centinaia abbigliato da monaco e raggiungere le falde della montagna solo per dare inizio al suo tentativo-, e vuoi saperne di più. La domanda è perché. Non solo per lui, ma per te.
Il romanzo, che riporta le lettere e le pagine del diario dell’esploratore, ti fa entrare, in presa diretta, nella sua vita, ma anche in quelli che dovevano essere i suoi sentimenti, le sue emozioni, i suoi desideri, le paure, i sogni.
Emoziona, davvero molto, la vita di Maurice Wilson, la sua personalità creativa, curiosa, guerriera, fortunata, alla continua spasmodica ricerca, intemperante davanti agli ostacoli, capace di intenerirsi di fronte alla natura primordiale, esaltato nelle sue imprese uniche, resiliente. Un uomo che ama la vita, che si spinge oltre i suoi limiti, refrattario alle regole, ma che si sa sottoporre a una regola di vita estenuante, fatta di digiuno, meditazione e duro allenamento. Un uomo che ha una fede portentosa, che lo sorregge e non lo abbandona mai, una croce sul petto che porta con sé sulle nevi perenni e inviolate e che viene seppellita con lui.
Sullo sfondo la Prima Guerra Mondiale con le sue distruzioni, con le carneficine di giovani nelle trincee, le vite crocefisse, smembrate, gli animi infranti in corpi che hanno superato la violenza, ma non sanno digerire l’orrore e la disumanità, si ammalano di un male che viene confuso, da una scienza ignorante e da un mondo guerriero, per viltà. Maurice si salva miracolosamente dalle battaglie più cruente della storia della Prima Guerra Mondiale, e vede morire i suoi Amici, i ragazzi che sono partiti con lui, vicini di casa, conoscenti, compagni, con i quali ha condiviso la giovane vita fino ad allora vissuta.
Kitchener e i generali credevano che gli uomini sarebbero stati più disposti ad arruolarsi se avessero combattuto accanto a persone che conoscevano, colleghi di lavoro o gente che viveva nella loro zona. Quelle unità di volontari divennero note come i battaglioni di Amici. Come tattica di reclutamento fu I battaglioni erano formati da gruppi di uomini che avevano in comune il datore di lavoro (il Battaglione Tranvieri di Glasgow) o un’appartenenza (i Battaglioni Irlandesi di Tyneside) o addirittura una passione (i Battaglioni Sportivi). Perlopiù, tuttavia, raggruppavano uomini della stessa zona. La sola città di Manchester riuscì a formare nove battaglioni di Amici. Ufficialmente erano il Sedicesimo e il Diciottesimo reggimento West Yorkshire del principe del Galles. La maggior parte delle persone li chiamava Primo e Secondo Amici di Bradford.
Da questa esperienza devastante, di dolore e di feroce perdita, lui, che la fortuna ha salvato, trae una forza immane, un coraggio senza uguali, un’aspirazione a imprese memorabili che si sovrappongano e zittiscano i ricordi, gli incubi della guerra.
La sua prodigiosa caparbietà, che niente piega, mi ha fatto ricordare quegli uomini e quelle donne, il cui corpo ha subito le mutilazioni per guerre, incidenti, malattie o per destino ereditario, ma non hanno rinunciato al sogno di correre, di superarsi, di vincere i Giochi Paralimpici. Niente ha fermato la loro determinazione, niente, neanche le menomazioni, il dolore, la paura, la sofferenza e la perdita, proprio come Maurice che non ha mai permesso a qualsivoglia ostacolo, di precludergli il passaggio verso la realizzazione del suo sogno.
Eppure, quando il sole sorse dopo la battaglia, Maurice Wilson si trovava chissà come ancora in piedi sul suolo fiammingo senza un graffio. Era stato coraggioso, ma anche – doveva essersene reso conto – molto fortunato. Quel momento segnò la fine della sua prima vita e l’inizio di un’altra.
Il lettore lo segue sul campo di battaglia, tra le sue donne, la sua vita mondana e sulle vette inviolate, sui ghiacciai, tra gli anfratti, sotto la neve che copre e ovatta, si ristora al fuoco confortante e legge i suoi pensieri proprio come se stesse leggendo il suo diario o, come poteva fare la sua amata Enid, quando leggeva le sue missive: dentro la storia.
Il narratore, che è l’autore stesso, si rivolge a tratti al lettore direttamente e lo inoltra, nella realtà, nelle vicende, nella vita interiore del protagonista e lo rende partecipe di quello che lui doveva vivere, percepire, essere.
Rivelazioni sulla personalità poliedrica di Maurice, misteri inesplorati e non risolti avvolgono la figura di questo aviatore e scalatore in una coltre leggendaria. Se questo era lo scopo dell’autore, ci è riuscito perfettamente.
Trama
1934, Darjeeling, India. Un uomo lascia la sua camera d’albergo, furtivo. A prima vista, sembra un monaco tibetano un po’ eccentrico, con il suo cappello di pelo bhutanese, gli scarponi chiodati e un ombrello in mano, ma se qualcuno sollevasse i suoi occhiali scuri, vedrebbe un paio d’occhi verdi e una pelle chiarissima. Dove sta andando, Maurice Wilson, così conciato?
Veterano della Prima guerra mondiale nell’esercito inglese, ha cercato – invano – di medicare le sue ferite con una vita nomade e sentimentalmente agitata. Finché non l’ha folgorato il sogno dell’estrema avventura: volare da Londra ai piedi dell’Everest con un biplano di nuova progettazione, Moth, la falena, e poi di lì raggiungere la cima più alta del pianeta, al tempo inconquistata. Poco importa che Wilson non abbia mai scalato una montagna, né mai pilotato un aereo. E nemmeno che la diplomazia internazionale guardi con puro terrore al suo progetto, e che il governo tibetano non gli abbia dato il permesso di atterrare, le autorità britanniche l’abbiano diffidato dal decollare, quelle nepalesi gli vietino di varcare il confine e in India gli sia stato sequestrato l’aeroplano. Wilson avrebbe piegato il suo corpo e la sua mente alle necessità dell’impresa. Avrebbe sconfitto o aggirato ogni ostacolo fisico, pratico e burocratico si fosse frapposto alla realizzazione del suo sogno. E avrebbe camminato, per quei 480 chilometri che lo dividevano dall’Everest, per poi salire in vetta. Da solo e per primo.
Ed Caesar ricostruisce con passione, attraverso documenti di prima mano, una storia sepolta da quasi un secolo – ma che aveva ispirato anche Reinhold Messner nella sua prima ascesa in solitaria del 1980: l’ossessione dell’Everest, condivisa da generazioni di alpinisti, è l’anima di un personaggio intrepido, folle, magnetico, che, oltre ogni limite razionale, cerca più della vetta, la bellezza, la verità, se stesso.
Editore: Solferino (1luglio 2021)
Traduzione di: Alberto Cristofori
ISBN: 987-88-282-0691-0
Link di acquisto cartaceo: La falena e la montagna. Una storia di Everest, amore e guerra
Link di acquisto ebook: La falena e la montagna. Una storia di Everest, amore e guerra