Articolo a cura di Valeriana Maspero
Napoleone e la Corona ferrea
Nel 1796 Napoleone era entrato nel nord Italia e sbaragliando in tre giorni esercito sabaudo ed austriaci aveva stabilito il dominio francese. Pochi anni dopo aveva battuto la terza coalizione di Austria, Russia e Inghilterra, diventando padrone di mezza Europa. Nel 1805 si autoincoronò imperatore dei francesi in Notre-Dame e nello stesso modo volle instaurare una monarchia personale in Italia, facendosi incoronare re a Milano. Per l’occasione non ebbe alcun dubbio: sul suo capo doveva posarsi la leggendaria corona ferrea. Era una scelta politicamente e culturalmente strategica che accontentava tutti: i conservatori e i cattolici ritenevano la corona una reliquia perché conteneva un chiodo della passione di Cristo, per i progressisti e i laici era l’antica insegna del regno d’Italia fin dai tempi di Berengario. In particolare gli antiaustriaci desideravano che venisse infine tolta dalle grinfie degli Asburgo che l’avevano usata per la loro iconografia.
Napoleone del resto aveva una predilezione particolare per le reliquie apotropaiche. Nel 1804, dopo che il Senato di Francia gli aveva offerto l’impero, era andato in pellegrinaggio alla tomba di Carlo Magno, il fondatore del sacro romano impero franco-germanico, e il vescovo della cappella palatina di Aquisgrana, monsignor Berdolet, gli aveva donato il cosiddetto Talismano di Carlo Magno, una pietra azzurra contenente un frammento ligneo, creduto della croce di Cristo, che il re franco aveva avuto in dono da Bisanzio (incastonata in un prezioso ciondolo, è conservata ancora oggi nella cattedrale di Reims). Normale che volesse la corona del ferro custodita a Monza che si diceva contenesse un chiodo della passione di Cristo.
I rapporti di Napoleone con Monza avevano conosciuto alti e bassi. Gli alti erano stati il restauro della villa del Mirabellino e la creazione del parco cintato più grande d’Europa, i bassi la devastazione della villa arciducale e la rapina del tesoro del duomo (ori, argenti, corone, opere d’arte e soprattutto antichi preziosissimi codici della biblioteca capitolare – tra cui l’originale della Bibbia di Alcuino – spediti in Francia come bottino di guerra). Nel 1796 era stata tentata anche la requisizione della corona ferrea, ma i canonici del duomo si erano inalberati decisamente:
Poiché il cerchio di ferro di questa corona è formato da uno dei chiodi utilizzati per appendere Cristo alla croce, si tratta, cittadino commissario, di una delle principali reliquie della nostra religione, tenuta nella più grande venerazione […] e perciò, se si decidesse di portarla via, l’atto sarebbe reputato ostile e addirittura oltraggioso per la nostra religione. (in G. Zerbi, 1878)
Il commissario francese segnalò il fatto e il cimelio rimase a Monza. Ma nel 1805 Napoleone lo reclamò per la cerimonia di Milano: voleva la corona che era stata sul capo di Carlo Magno, come dichiarò al Senato di Francia quando la delegazione italiana guidata dal Melzi d’Eril gli offrì formalmente il titolo reale.
Noi poseremo sulla nostra testa questa corona ferrea degli antichi Lombardi per ritemprarla, rafforzarla e perché essa non abbia mai a scalfirsi nel corso delle tempeste.
Sapendo delle sue ridotte dimensioni – nei secoli essa ha perso tre delle sue piastre – fece eseguire dal suo gioielliere parigino una copia a otto piastre in modo che calzasse perfettamente sulla sua testa. Con questa comparve poi in tutti i ritratti ufficiali, nelle sculture, sulle monete, e posando per la statua neoclassica del Canova dichiarò:
Desidero che voi, artisti d’Italia, mi celebriate re incoronato come il nuovo Carlo Magno che, riunendo l’Italia e destinato in futuro a riconquistare anche i territori tedeschi, ripristinerà il grande impero romano.
Questo era infatti il suo intento storico. A ulteriore dimostrazione di quanto l’empereur tenesse all’oggetto, sta ancora il fatto che fondò un ordine cavalleresco denominato Ordre de la Couronne de fer, il cui motto era la frase che pronunciò durante la cerimonia: Dieu me l’ a donnée, gare à qui y touchera.
Napoleone e l’imperatrice Giuseppina erano arrivati a Milano l’8 maggio. La cerimonia, fissata per il 23, venne spostata al 26 per ritardi nella sistemazione del duomo. Scelta fortunata per il tempo, che, nuvolosissimo il 23, era sereno e splendido tre giorni dopo. La corona era giunta a Milano scortata da un corteo delle autorità monzesi – sindaco, arciprete, alabardieri d’onore – e tre colpi di cannone risuonarono quando entrò da Porta Venezia.
Memorie di una millenaria
La cerimonia la faccio raccontare da Lei nel mio romanzo ‘Memorie di una millenaria’. La mia narrazione è comunque molto fedele alla realtà, perché l’ho presa da una fonte di prima mano: quella del cerimoniere monzese che vi assistette.
“Quella domenica 26 maggio, a Milano, la piazza del duomo era piena di gente fin dall’alba.
L’interno era stato addobbato dallo scenografo della Scala. Le mastodontiche colonne erano tappezzate di festoni di seta cremisi con le frange dorate. Tra quelle della navata centrale campeggiavano gli stendardi con lo stemma del regno d’Italia.
A destra dell’altare, un baldacchino copriva il palco imperiale, la cui parete di fondo – dietro il trono di legno dorato che attendeva l’empereur – era un drappo di velluto blu trapuntato con borchie a forma di stelle. Sotto i poderosi archi gotici erano state erette le sei tribune destinate ai regnanti invitati alla cerimonia, gli stessi che facevano parte di una coalizione militare contro di lui: Alessandro di Russia, Francesco d’Asburgo, Giorgio d’Inghilterra, i reali svedesi, Ferdinando di Borbone. Era rimasta vuota quella di Carlo di Spagna, che non era intervenuto perché le sue casse erano a corto di soldi.
Napoléon, colui che era riuscito a diventare imperatore cavalcando una rivoluzione di sanculotti, imponeva con una violenza sontuosa l’ingresso del figlio di un oscuro sergente di Ajaccio – cioè lui – in quella nobile cerchia. Il corteo delle autorità cominciò a sfilare per l’ingresso nel duomo alle dieci. Alle undici fece la sua entrata l’imperatrice Joséphine.
Tutta compresa nel suo ruolo, l’ex venere creola camminava lentamente, governando con maestria lo strascico lungo una ventina metri retto da decine di damigelle. Voltava la testa minuta e volitiva una volta a destra e una volta a sinistra, sorridendo, sotto gli occhi malevoli delle regine, delle duchesse e delle principesse di mezza Europa. Tessuti preziosi, velluti e broccati, assorbivano le eco dei loro commenti velenosi. Dopo mezzora entrò l’arcivescovo di Milano – il papa era assente, e non per caso – e si alzò il brusio prodotto da tutti i milanesi – che stavano raccontando agli ospiti stranieri come quel gentile monsignor Caprara pochi giorni prima avesse inventato di sana pianta un san Napoleone perché l’imperatore avesse il suo onomastico.
Si rifece silenzio solo quando, sotto un baldacchino rosso, scortata da una doppia fila di diaconi, venni introdotta io, la famosa corona di ferro. A mezzogiorno in punto il coro intonò il Veni Creator e il cerimoniere annunciò l’ingresso dell’altro protagonista della cerimonia. Lui. Lo precedeva il bel figliastro Beauharnais che portava la spada dell’Armata d’Italia; il Talleyrand, zoppicando con eleganza, reggeva il globo del potere; Fouché con una maschera imperturbabile sulla faccia alzava la bronzea mano di giustizia; il vescovo Berdolet aveva in mano la corona imperiale di Notre Dame; il fratello Giuseppe e i mariti delle sorelle portavano chi l’anello regale, chi lo scettro, chi lo stemma di Francia.
Lui indossava abiti sontuosi e tacchi alti per mascherare la bassa statura. La giacca di velluto blu, intessuta di gigli borbonici e aquile dei Capetingi in oro, aperta davanti, lasciava vedere la tracolla rossa con le decorazioni di guerra e la cravatta di pizzo bianco, una cascata di merletti. La fascia sul girovita sorreggeva il fodero della spada, su cui poggiava la mano destra nel guanto bianco con la enne coronata di alloro dorato. Infine un lungo, maestoso manto blu trapuntato di gigli bianchi e foderato in raso avorio ricamato in oro gli ingigantiva le spalle con un grande risvolto a cappa. Avanzava senza guardare nessuno, perso nella contemplazione del suo trionfo.
Ma, sbarazzino e teatrale come sempre davanti alla grande nobiltà, fece in modo di arrivare al trono dorato giusto alla fine del Veni creator. Poi iniziò il lungo pontificale, che culminò nel momento dell’incoronazione, quando gli accompagnatori francesi con gli onori si avvicinarono al trono dorato sotto il baldacchino e Napoléon […] scese dal palco per dirigersi all’altare.
Là lo attendevamo l’arcivescovo e io, la corona che nessuno gli aveva offerto e che lui si prendeva a dispetto di tutti: devo confessare che la sua audacia, l’ardimento, la temerarietà, la spavalderia e il suo gran fegato mi affascinavano. Caprara mi tolse con delicatezza e circospezione dal cuscino rosso e mi porse a lui. Credo che l’arcivescovo fosse un po’ incerto sul cerimoniale da seguire. Lui invece mi prese tra le mani con decisione, con un’aria soddisfatta, e restò a fissarmi in silenzio.
Finalmente ero sua. Si emozionò, ricordando i sogni di gloria che faceva da ragazzo, pensando agli imperatori di Bisanzio, ai re barbari, ai Sachsen, ai Franken, agli Schwaben, agli Habsburg che mi avevano avuto. Alla luce delle mille candele, il mio corpo d’oro mandava bagliori dalle borchie a forma di rosa bizantina e dalle gemme che occhieggiavano dagli antichi castoni; gli smalti barbarici di Teoderico e Volvinio scintillavano nei loro vitrei verdi, i turchesi trasparenti, gli avori candidi dei decori floreali. Ero splendida. Lui sfiorò con il pollice il mio cerchio interno di ferro miracoloso: gli diedi un brivido.
Allora mi alzò d’istinto con le braccia tese verso l’alto e mi tenne sospesa sopra il suo capo, come per tenermi a distanza: non voleva essere dominato da me, ma nello stesso tempo lo attraevo follemente. Aveva deciso di non appoggiarmi sulla sua testa per paura che lo prendessi prigioniero per sempre. E poi ero minuscola e calzandomi temeva di apparire ridicolo, così mi riabbassò rapidamente. Ma nel tragitto incontrai il suo viso e lui non poté fare a meno di avvicinarmi alla bocca. Sentii che voleva baciarmi. Esitò a lungo. Alla fine non osò toccarmi con le labbra.
Aveva però preparato per quel momento una frase ad effetto. Ci aveva pensato tutta la mattina, mentre i valletti lo vestivano per la solennità, ricordando la maledizione di Teodelinda. Nel silenzio allora echeggiò la sua sentenza: ‘Dieu me l’a donnée!.. Gare à qui y touchera’». Ecco, andò press’a poco così.
Vorrei però chiarire l’esatta traduzione della famosa frase, che non è, come nella versione popolare diventata proverbiale: Dio me l’ha data e guai a chi la tocca, ma più precisamente: Dio me l’ha data e guai a chi l’agguanterà da qui. Napoleone voleva cioè alludere alla maledizione di Teodelinda – riportata da Paolo Diacono nella Historia Langobardorum – secondo cui la regina longobarda aveva minacciato di pena eterna chiunque avesse manomesso il suo tesoro. Intendeva cioè rassicurare gli italiani che la corona non sarebbe stata toccata, associandosi a Teodelinda ed ergendosene a difensore.
Tuttavia non restò fedele alla sua promessa: all’inizio della campagna di Austerlitz, invitava infatti il viceré Eugenio Beauharnais a star pronto a […] avere in pugno la corona ferrea e sottrarla senza che nessuno se ne accorga. Di nuovo il guardasigilli del Regno Melzi d’Eril si rifiutò: ho dovuto convincermi dell’impossibilità di farlo [. ..] non sarebbe facile sottrarla nemmeno con la forza. Sappiamo qual è la superstizione del popolo di Monza riguardo a questo cimelio, che considera come una reliquia preziosa, e il suo attaccamento potrebbe causare seri disordini. Ma negli anni seguenti la maledizione di Teodelinda sembrava aver cominciato a perseguitare l’imperatore: il divorzio da Giuseppina, l’insuccesso dell’embargo contro l’Inghilterra, il folle attacco contro la Russia di Alessandro I risoltosi nel disastro della ritirata da Mosca, la coalizione europea guidata dal suocero kaiser austriaco e la sconfitta di Lipsia, la prima abdicazione, i cento giorni dopo l’Elba, infine Waterloo. Napoleone si consegnò agli inglesi dopo aver abdicato in favore del figlio, l’Aiglon dal sangue asburgico, e forse sperando di riuscire ad arrivare in America, si lasciò deportare su un’isola in mezzo all’Atlantico. E la corona ferrea? Napoleone aveva continuato a firmare decreti dell’Ordre de la couronne fino all’ultima abdicazione. E alla morte, avvenuta misteriosamente nell’esilio di Sant’Elena, sulla bara in partenza per il ritorno in Francia, insieme all’insegna della Legion d’Onore, fu deposta anche la sua.
La corona ferrea narra la sua millenaria storia, da quando venne forgiata per l’elmo da parata dell’imperatore Costantino ai giorni nostri, raccontando le vite segrete dei potenti con cui è venuta in contatto, come Carlo Magno, il Barbarossa, Carlo V, Elisabetta di Baviera, Napoleone e Hitler. Oltre mille anni di storia dell’Occidente passati in rassegna dal regale manufatto.
Editore : Libraccio Editore (10 ottobre 2016)
Lingua : Italiano
Copertina flessibile : 407 pagine
ISBN-10 : 8897748864
ISBN-13 : 978-8897748861
Link d’acquito: Memorie di una millenaria