Bentrovati nello spazio interviste di TSD.
Oggi, abbiamo il piacere di avere con noi Vladimiro Bottone che ringraziamo per aver accettato il nostro invito.
Presentiamolo ai nostri lettori.
Vladimiro Bottone, nato a Napoli nel 1957, vive e lavora a Torino. Ha pubblicato i romanzi L’ospite della vita (1999, selezionato al Premio Strega 2000), Rebis (2002), giunto alla seconda edizione, e Mozart in viaggio per Napoli (2003), Gli immortali (2008) e la collezione di racconti La principessa di Atlantide (2006). Gli ultimi suoi libri, che formano un dittico storico, sono Vicaria (Rizzoli 2015, poi BEAT 2017) e Il giardino degli inglesi (2017). Collabora a L’Indice dei libri del mese e al Corriere della Sera. Dal settembre del 2015 ad oggi pubblica, ogni domenica, un racconto sul Corriere del Mezzogiorno, dorso napoletano del Corsera.
Che genere di scrittore è Vladimiro Bottone?
L’autoritratto è un genere di rara difficoltà. Diciamo questo: sono uno scrittore che crede nella forma romanzo e nella forma racconto. Esse sono vive, con delle potenzialità se non inesauribili, certamente non esaurite. Credo che il romanzo sia una forma di conoscenza insuperabile, un organismo complesso dalle infinite risorse e dalle infinite difficoltà. La mia vita di autore è votata alle due forme che prima ricordavo. In tal senso ritengo di aver fatto tutto ciò che mi era possibile. Non si può chiedere di più ad un essere umano, categoria nella quale, tutto sommato, includerei anche i romanzieri (sia pure con qualche cauta riserva).
Visto che ogni buon scrittore è anche un lettore, quale genere predilige leggere?
Sinceramente nutro qualche diffidenza con una partizione della letteratura per generi. La mia opinione, in questo senso, è che tanto più un romanzo è riuscito, tanto meno rilevante diviene la sua appartenenza ad un genere. Il genere, per così dire, sfuma agli occhi del lettore e il testo si stempera nel gran mare della letteratura (dove amiamo tanto nuotare).
In “Vicarìa” e “Il giardino degli inglesi” la protagonista è una Napoli del XIX secolo, nella sua sfaccettatura più noir. Cosa l’ha spinta a raccontarla?
Era un mondo in cui riuscivo a muovermi con un certo agio. Vedevo le scene, ascoltavo i dialoghi, percepivo le sonorità e gli odori. Era un habitat ideale per la mia immaginazione. Lì dentro potevo spostarmi come se fossi una macchina da presa o un microfono direzionale. Più di tanto non saprei dire. I motivi di tutto ciò trascendono la mia capacità di comprensione.
(Potete leggere la recensione al libro Vicaria, a questo link)
Nelle due indagini del Commissario Gioacchino Fiorilli si muovono personaggi incredibili che lasciano il segno nel lettore. Come si diceva nella recensione a Vicarìa, lei ha la capacità di rendere i protagonisti dei suoi romanzi identificabili e riconoscibili. Ce n’è uno a cui è più affezionato?
Domenico De Consoli è il Male nella sua veste più pericolosa, quella seducente, e nella sua veste più moderna, vale a dire quella nichilista, che non ammette né riconosce limiti alla propria sfrenata volontà di potenza. De Consoli è un monito. De Consoli è il personaggio la cui creazione mi ha fatto sentire più utile al mio prossimo. Dunque è il personaggio che ho amato di più. Aggiungo che, in fondo, tendo ad amarli più o meno tutti i miei personaggi. Odio solo le figure che non vengono fuori con la tridimensionalità che vorrei. In quei casi, però, biasimo essenzialmente una mia incapacità. Il colpevole non è mai il maggiordomo bensì, sempre, l’autore.
In questi romanzi il lettore conosce le brutture e le nefandezze commesse all’interno del Serraglio, il Real Albergo dei Poveri progettato nel XVIII Secolo per accogliere le masse di poveri del Regno. Che cosa ci può dire a riguardo, sulla base delle ricerche che ha affrontato per la stesura del libro?
Preferisco dire, se posso, ciò che il Serraglio ha rappresentato e rappresenta per me. Il Serraglio è stato un edificio inquietante. Venirvi richiuso aleggiava, come punizione suprema, nelle minacce rivolte ai figli dalle madri napoletane (mi riferisco alla mia generazione, sostanzialmente). Il che dimostra quanto quell’edificio-simbolo fosse radicato nell’immaginario della città come un fantasma e una cicatrice e un monito. Una questione irrisolta, un sintomo tutt’oggi non superato di un passato che non passa.
Se è possibile svelarlo, è previsto un nuovo libro con protagonista il Commissario Fiorilli?
Mai dire mai. Tuttavia tendo sempre di più ad occuparmi di contemporaneità, senza più il filtro storico. È una mia necessità personale; penso di doverla assecondare per un bel po’ di tempo. Salvo ripensamenti, sempre possibili.
Che rapporto ha Vladimiro Bottone con i social e la promozione di sé stessi in questo nuovo mondo virtuale?
Sono uno spiraglio sul mondo, sui mutamenti della mentalità. Da questo punto di vista li trovo irrinunciabili. Per quanto riguarda gli aspetti promozionali del mio lavoro, li trovo utili. Consentono un dialogo non mediato con i lettori. E i lettori sono gli interpreti/esecutori della partitura libro. Dunque…