“Amore non è soggetto al Tempo” scrive William Shakespeare.
Noi di TSD, invece, vi vogliamo proporre un viaggio nel tempo dell’amore! Nel Tempo, nella Storia, nella letteratura e nel mito.
Farvi viaggiare negli amori senza Tempo, ma che sono entrati nella Storia, nell’immaginario, nel Tempo.
E allora iniziamo: il treno di TSD inizia il suo viaggio, e la prima fermata è ad Atlanta.
Lo sguardo pieno di vita e il carattere ribelle lei; affascinante, ironico, intelligente, padrone di sè e delle proprie idee anticonvenzionali, lui.
Lei ha sangue irlandese, è capricciosa, manipolatrice e arrivista; lui viene da Charleston, è una pecora nera, non è ricevuto da nessuna famiglia che abbia una buona reputazione in tutto il Sud Carolina.
Il loro primo incontro avviene alle Dodici Querce. Insieme, rappresentano una delle icone dell’amore in letteratura prima, sul grande schermo poi: sono Rossella O’Hara e Rhett Butler protagonisti di Via col vento, di Margaret Mitchell (ripubblicato di recente in una splendida edizione Neri Pozza).Rossella O’Hara insegue ciò che potrebbe essere un amore ideale (l’amore di Ashley), ma forse insegue solo il suo posto nel mondo. Si rende conto di essere spigolosa, di avere degli obiettivi ben chiari, ma il suo vero carattere viene spesso alla luce sotto mentite spoglie o grazie ad una sbornia lacrimogena.
Di Rhett Butler abbiamo qualche informazione in più dal libro, anziché dal film: dopo essere stato rinnegato dalla sua famiglia, è diventato un giocatore di professione, ha partecipato alla corsa all’oro, in California. Sembra avere un buon rapporto con la madre e un rapporto decente col fratello e la cognata, ma il contrasto col padre non si è mai risolto. È un uomo di mondo, sa come comportarsi in società e ha una buona cultura. Il suo pregio più importante è la sua realistica visione della vita e dell’umana natura. Rhett è disincantato: ama Rossella per la sua tenace voglia di vivere e di sopravvivere; la capisce, conosce i suoi sentimenti e la sua meschinità; capisce che è fatta della stessa sua pasta e la amerà proprio per i suoi difetti.
L’uomo più affine a Rossella è proprio Rhett, perché sono uguali
gentaglia tutti e due, egoisti e scaltri, ma capaci di guardare le cose in faccia e di chiamarle con il loro nome.
Due persone che seguono un desiderio d’amore uguale ma diverso: entrambi lo idealizzano, lo perseguono e vengono perseguitati a loro volta. Perché se Rhett si convince che prima o poi riuscirà a far uscire dalla testa di Rossella l’idea ossessiva di Ashley, lei spera che un giorno Mr. Wilkes si svegli dal torpore in cui è avvolto e dichiari finalmente quell’amore che sembra tanto celato. E qui sta la differenza: Rhett è accecato da un amore vero, mentre Rossella è tramortita da quella che non è più di un’illusione, perché in cuor suo sa di amare davvero Rhett ma, forse, vivere un amore reale, vero e concreto è la sua paura più grande, quella che la rende così fragile da seguire qualcosa che non esiste.
Altro amore, altro perno intorno al quale ruota un’altra grande opera della letteratura: Anna Karenina e il conte Vronskij coppia protagonista del romanzo Anna Karenina del russo Lev Tolstoj. Un amore più passionale, una passione extraconiugale, di quelle che scuotono mente e corpo; un amore e che vive in opposizione, a contrasto della società, le convenzioni di un’epoca che, forse, non è poi così diversa dall’oggi. Un amore che vive sotto continue minacce: da quelle di Karenin, che a un certo punto vorrebbe impedire ad Anna di vedere il figlio e rifiuta il divorzio, a quelle di una società ipocrita che condanna la relazione extraconiugale a un gelosia che diventa sempre più lacerante e che spingerà Anna al suicidio, in una delle scene madri della letteratura europea: alla stazione di Mosca, la donna si getta infatti sotto un treno:
Laggiù! Proprio in mezzo! Castigherò lui e mi libererò da tutti e da me stessa.
Anna, tuttavia, non è una dissoluta, ma una persona che, per amore, va al di là della propria morale. Piena d’angoscia, di sensi di colpa e di ossessioni, Anna condanna se stessa nel momento stesso in cui si innamora e in qualche modo si perde.
Il suo contraltare è il Conte Vronskij che di fronte a una scelta – da una parte la giovane Kitty, bionda, eterea, virginale bellezza che ha occhi solo per lui, dall’altra Anna una donna che, se non vecchia può essere sicuramente definita matura, vissuta – dicevamo, di fronte a una scelta, non ha il benché minimo dubbio, nemmeno la più piccola esitazione.
Il tempo di uno sguardo e sceglie Anna.
La seduzione fra Anna e Vronskij è un gioco di sguardi. Una donna fra tante in una stazione affollata. Eppure lui la vede. Potrebbe finire qui ma l’uomo
provò la necessità di guardarla ancora una volta: non perché ella fosse molto bella, non per quell’eleganza e quella grazia modesta che si vedevano in tutta la sua persona, ma perché nell’espressione del volto leggiadro, quand’ella gli era passata vicino, c’era qualcosa di particolarmente carezzevole e tenero.
E qui avviene un fatto straordinario: nella folla lei sente lo sguardo di lui e si volta:
Gli scintillanti occhi grigi, che sembravan neri per le ciglia folte, si fermarono amichevolmente, con attenzione sul volto di lui come se ella lo riconoscesse.
Ecco, l’incontro è avvenuto, “occhi negli occhi”.
Da questo gioco, da uno sguardo, deriva ciò che tutti sappiamo, ma mentre Anna si tormenta e lacera nell’indecisione, Vronskij fin dal primo istante – da quel solo famoso sguardo – non ha il benché minimo dubbio: appartiene alla sua bella adultera, e andrà dove lei vorrà, farà quel che lei gli dirà, sarà quello che lei vorrà che lui sia.
Se Anna avesse chiesto la separazione dal marito Aleksei Karenin lui l’avrebbe sposata ma a questo amore, come sapete, non è concesso un lieto fine.
Ma se fin qui, in letteratura, sembrerebbe che siano gli uomini a provare gli amori più decisi, forti, volitivi, senza incertezze (o forse era la società dell’epoca, il contesto che rendeva loro più semplice questa scelta, più libera e facile la loro determinazione?), la Storia, quella vera, quella che si trova in tutti i libri di Storia, ci racconta altro, ci tramanda altri amori, altrettanto forti, ma a volte strumentalizzati e piegati alla e dalla Storia stessa.
Giovanna di Trastamara, o Giovanna di Aragona e Castiglia, e Filippo I d’Asburgo, ai più noti come Giovanna la Pazza e Filippo il Bello.
Giovanna di Castiglia nasce a Toledo nel 1479 da Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, regnanti di Spagna. I genitori sono severi e non le danno le attenzioni di cui ha bisogno, e Giovanna è una ragazzina silenziosa, perennemente malinconica, bella ma poco adatta alla vita di corte.
A diciassette anni, per via di alcuni accordi politici, viene data in sposa a Filippo d’Asburgo detto “il Bello”: è il 1496. Giovanna trova in quel matrimonio non solo un grande amore, ma anche una fuga dalla madre Isabella, pretenziosa ed autoritaria.
Filippo la seduce, le fa provare brividi che lei non credeva potessero esistere, le racconta storie e per un po’ la convince a mangiare dal momento che soffre di bulimia ed anoressia.
Ma già a distanza di qualche mese dalla celebrazione delle nozze, inizia il declino: Filippo perde l’iniziale interesse nei confronti della neo sposa. Comincia, infatti, a tradirla ripetutamente persino con le domestiche di corte, frequenta osterie, ama e porta addosso il profumo delle cortigiane. Non può stupire quindi che Giovanna si lasciasse andare a violente crisi di gelosia. Queste però finivano per infastidire e allontanare ancora di più Filippo.
E se Filippo con il suo amore, la sua passione l’aveva fatta fiorire, al tempo stesso la fa sfiorire. Filippo la tradisce, Giovanna urla, sbraita scrivendo poesie, straccia i fogli e poi piange, piange fino al punto d’esser definita “loca”, “pazza”; l’amore si trasforma in follia, forse in ossessione, in possessione; la futura sovrana di Spagna si chiude nel silenzio, torna a digiunare, insulta il suo sposo: quell’unico solo e forse primo vero amore che l’aveva salvata ora la porta sull’orlo delll’abisso.
E quando nel 1506 Filippo muore, lascia sua moglie in preda alla disperazione. Una disperazione che è, però, ancora amore. Da sposa in fiore, a moglie e donna gelosa, a vedova inconsolabile. Ma sempre perdutamente innamorata del suo Filippo, al punto da impedire che il marito fosse subito seppellito. Lo fece imbalsamare per tenerlo sempre vicino, se lo portò con sé ovunque, persino nel lungo viaggio verso la sua prigionia.
E se passiamo dalla Storia al mito, e andiamo nell’antica Grecia troviamo ancora un altro amore, un amore su cui si è a lungo dibattuto, a lungo si è scritto, a lungo è stato osteggiato o definito (per convenienza?) solo amicizia.
In Grecia, nel mito, troviamo Achille e Patroclo. Un amore omosessuale (ma davvero al concetto di amore, al sentimento è possibile appiccicare etichette di sesso?) che nell’antica Grecia non era solo lecito, ma una pratica molto comune e largamente apprezzata dalla società di quel tempo.
Come si era avanti (e aperti) quando si era indietro (nel tempo).
Omero descrive amicizie maschili di intensità affettiva così forte da far inevitabilmente pensare a legami ben diversi da una semplice solidarietà fra compagni d’arme: l’Iliade è piena di eroi che hanno un amante maschile e non fa difetto la figura del protagonista ellenico, Achille, teneramente innamorato del suo Patroclo.
I due personaggi sono, caratterialmente, molto diversi tra di loro. Achille è irruento, impetuoso, aggressivo e sanguigno, Patroclo invece è dolce e buono.
Il primo indizio che abbiamo del loro rapporto amoroso, ci arriva dalla madre di Achille. Nelle pagine dell’Iliade, dopo la morte dell’amato Patroclo, Achille è disperato. La madre Teti con dolcezza e partecipazione cerca di distogliere il figlio dal lutto dell’amato. La dea rimprovera dolcemente il figlio per il fatto di aver prolungato troppo la sua relazione affettiva con Patroclo
devi continuare a vivere dimenticando Patroclo e prendendo moglie, com’è giusto che sia.
Una tacita conferma del carattere amoroso del rapporto. Teti, però, non accusa il rapporto in sè, ma invita il figlio ad accettare quella che, per i greci, era una regola naturale: bisogna porre fine alla fase omosessuale di eromenes: (adolescente che aveva una relazione d’amore con un uomo adulto) e assumere il ruolo virile di capo famiglia.
Raggiunta la maggiore età, infatti bisognava prender moglie per metter su famiglia. Non dunque una condanna, né un rimprovero, della dea al rapporto del figlio con il suo amante più anziano, bensì al fatto che Achille era talmente innamorato del suo Patroclo da aver prolungato troppo questo legame affettivo; tanto da non aver ancora preso moglie.
Finisce qui il nostro viaggio negli amori della Storia e della letteratura, un percorso lungo e inesauribile di cui vi abbiamo mostrato, senza alcuna presunzione di essere esaustivi, alcune facce di un unico dado chiamata Amore.
Che sia Storia, letteratura o mito, l’amore ha sempre raccontato, e continuerà a farlo, storie senza Tempo. A noi che viviamo il nostro tempo non resta altro che vivere i nostri amori, le nostre passioni amorose, consci che, di fronte a queste, la Storia si ripeterà sempre uguale, perché l’amore è esso stesso Storia senza tempo né luogo.
E chissà, probabilmente anche la Storia è essa stessa amore senza tempo.
Modena, 1899. Il secolo romantico delle rivoluzioni e delle scoperte sta per lasciare spazio a un’epoca nuova, ma la città festeggia come sempre il santo patrono fra chioschi da fiera e profumi antichi di vino e salumi. Stretto al petto della madre, il neonato Enzo sonnecchia in quell’atmosfera da incanto. All’improvviso, un gran trambusto, delle urla, una fiumana di persone in fuga: dietro di loro un veicolo stupefacente, un borbottante carro che avanza senza cavalli. La prima automobile mai vista a Modena. Alla guida c’è Fredo, il padre di Enzo.
bravissima a giocare tra realtà e finzione, Barbara Frale ci porta a un tempo passato, ne riprende il filo, lo sbroglia, lo analizza con grande obiettività e ci regala un romanzo, specchio fedele di cose davvero sofferte e vissute, assolutamente da leggere
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