Personaggi Storici Viaggio nella storia

Antonio Ligabue: il pittore naïf per eccellenza.

Articolo a cura di Raffaelina Di Palma

Con l’espressione art naïf, (arte ingenua), si intende indicare una forma d’arte che non ha un istantaneo legame con il mondo della cultura, sia esso accademico o innovativo e non si introduce neppure in un costume di tipo artigianale, spesso associata al dilettantismo e alla “pittura” dei bambini o persino ai malati di mente.

La storia della pittura naïf inizia con l’esposizione al Salon des Indépendentas del 1886 delle opere  di Henry Rousseau, soprannominato il Doganiere, che ha occupato e occupa un posto importante per quanto riguarda questa forma d’arte. È nota la sua amicizia con Alfred Jarry, Guillaume Apollinaire, Pablo Picasso e il pittore cubista Robert Delaunay. L’arte di Rousseau originò un’impressione intensa in questi artisti, anche se la sua scoperta era posta sullo stesso piano e suscitava la stessa magia delle arti delle popolazioni primitive (non a caso i pittori naïf sono chiamati anche neo-primitivi o primitivi del 20° sec.).

Questa premessa introduce l’articolo su Antonio Ligabue: il pittore naïf, per eccellenza.

Venne iscritto all’anagrafe con il cognome materno. Qualche anno dopo la madre sposò Bonfiglio Laccabue il quale riconobbe Antonio dandogli il proprio cognome. Ma il pittore, diventato adulto, lo cambiò in Ligabue, per l’odio che nutriva verso il patrigno che considerava colpevole della morte di sua madre.

L’odissea di Antonio Ligabue (non è esagerato usare questa espressione) ha inizio il 18 dicembre 1899 a Zurigo e si conclude il 27 maggio 1965 a Gualtieri (Reggio Emilia) dove era giunto nell’agosto del 1919 segnato da una infanzia difficile e da un talento innato per il disegno. 

Una vicenda umana contrassegnata da sventure, sradicamenti, isolamento, fame e privazioni.

In Italia, Orneore Metelli, un calzolaio di Terni che dipinge quadri di natura popolare, è uno dei primi naïf a essere scoperto. Il pittore autodidatta più noto è, però, Antonio Ligabue, il quale inizia  dipingendo cartelloni per spettacoli circensi. 

Lavora in solitudine interrotto dai frequenti ricoveri in manicomio a causa delle sue crisi nervose.

Dipinge autoritratti, scene di campagna e animali della giungla: la ferocia delle belve, la scelta di questi temi lo avvicina a Rousseau, ma la forza con cui sviluppa la sua pittura e la sua realtà allucinata lo rendono più simile a Vincent Van Gogh.

Tante sono le “stramberie” del pittore Antonio Ligabue, la sua tristezza, la sua melanconia (depressione) come un velo di nebbia che svapora sulla campagna emiliana, si contrappone con il suo scorrazzare con la moto rossa (una Guzzi), con i quadri replicati numerose volte, a cominciare dall’autoritratto riprodotto continuamente da quell’ego tradito, traboccante, calpestato e furioso, sofferente e amoroso, amalgamato alla natura e ai colori accesi delle piume dei suoi pavoni. Le sue belve impetuose, nelle quali si identifica mentre le dipinge, ne imita le movenze e i suoni, catturandone l’essenza. Molti dei suoi disegni li cede per un piatto di minestra.

Dai suoi quadri trasuda il rimpianto per le architetture alpine dai tetti spioventi a sfidare le nevi, va in giro come un eroe padano, uno dei “balenghi” (strano, balordo) della pianura, patito delle moto, del loro rombo e quando è disperato, triste e senza una donna sale sulla moto e va a sfidare la nebbia dei sentieri di campagna perché lo scoppiettio della testata calda della Guzzi è l’unica consolazione contro il gelo dell’inverno e l’avversione indecifrabile del mondo.

A soli nove mesi di vita Antonio Ligabue viene affidato a una coppia di svizzeri tedeschi con difficoltà economiche come la sua famiglia d’origine e costretta dalla precarietà del lavoro a spostamenti continui. Questa situazione non aiuta il ragazzo affetto da rachitismo e dal gozzo, malattie che compromettono il suo sviluppo fisico, mentale e psichico. Cambia diverse scuole, dove non riesce ad inserirsi sia per le difficoltà di assimilazione sia per le anomalie comportamentali. Nel 1917, in seguito ad una violenta crisi nervosa venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Fu il primo dei tanti ricoveri. Dimesso dall’ospedale torna dai genitori adottivi, ma ci rimane pochissimo perché inizia a condurre una vita da girovago, senza meta facendo, per sopravvivere, lavori saltuari nelle campagne.

Vive così fino al 1919, quando per l’ennesima volta viene denunciato dalla madre adottiva. Antonio viene espulso dalla Svizzera come soggetto violento e pericoloso. Viene mandato in Italia a Gualtieri (Reggio Emilia) perché è il luogo d’origine del patrigno e dove, dopo un primo tentativo di fuga, ci rimane tutta la vita.

Nel 1920 viene scoperto dal pittore Marino Mazzacurati e grazie a lui, la sua passione per la pittura si trasforma in un vero e proprio lavoro. Sperimenta nuove tecniche e l’utilizzo dei colori a olio. 

Viene chiamato il pittore degli animali dei quali ama dire: “Io so come sono fatti anche dentro.”

Alcuni critici sostengono che la sua sia una pittura violenta, sia per i temi che per i colori: una pittura visionaria, effige dell’angoscia che si agita nella sua mente e nella sua anima, che continuò per tutta la sua esistenza. La vicenda umana e artistica di Antonio, tra manicomi, ricoveri coatti, fughe fulminee, zuffe e isolamento sociale, ci ha lasciato una chiave di lettura della sua arte e una tecnica così raffinata, che merita un esame molto più approfondito: nelle sue opere c’è l’accuratezza con cui dipinge la savana pur non conoscendola, le particolarità quasi fotografiche nel dipingere una tigre. Il suo è un tentativo di tradurre in arte il misterioso universo personale che ha sempre sentito dentro di sé, come una seconda pelle, stimolandolo con mille suggestioni.

Dopo la sua morte avviene una insolita disgiunzione: la critica accademica diventa sempre più tiepida, ma cresce con progressione rapida la curiosità popolare nei suoi confronti: sia per la sua persona che per la sua arte.

Quando ci si avvicina a un artista come Antonio Ligabue si resta coinvolti emotivamente e il rischio di essere retorici è grande, si può sconfinare facilmente in una verbosità sterile.

La sua arte è contraddistinta dalla forza del mondo contadino dal quale ha origine e dall’istinto della sua pazzia. Questa solitudine, questo accanimento, questo legame profondo con la vita, che sente profondamente, comunque, lo fa rincorrere il destino per tutelare la propria libertà, ma tutto questo lo isola e lo emargina.

Le sue stranezze presto spaventarono i paesani che lo soprannominarono “Toni al matt” (Antonio il matto)

Fagotto ispido di paglia, che vaga nella selva, con una divisa logora e sformata, con un viso sparuto: così lo descrive Marino Mazzacurati quando lo incontra la prima volta. La sua leggenda ruota intorno a queste sue diversità non accettate dagli altri, scontate con l’isolamento e tormentate da incubi.

La sua follia è quel suo essere impulsivo e spontaneo nella vita, come nel suo essere pittore.

Per lui l’arte diventò tutto, anche riabilitazione esistenziale. 

Curiosità

L’artista ha realizzato più di 120 autoritratti.


La sua motoretta era sempre con lui, non era solo un mezzo di trasporto, ne era particolarmente affezionato perché rappresentava il suo riscatto morale.


Flavio Bucci lo interpretò nel celebre film sulla sua vita, prodotto dalla Rai.


Non solo pittore, amava anche sperimentare altre tecniche, tra cui la scultura.


Per dipingere meglio i soggetti studiava sui libri i diversi animali, andava spesso al mattatoio per esaminarne le carni.

Che ne pensi di questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.