Recensione a cura di Ivana Tomasetti
Una storia che racconta il dolore e lo fa sedimento per vivere, senza risolverlo. Bambino è il nome di un uomo, dall’aspetto di un ragazzo, che va alla ricerca di sua madre, una ricerca al di fuori della realtà che lo circonda, dalla quale si sente tradito. Una verità che gli spetterebbe di diritto, ma che non gli sarà mai rivelata.
Un giudizio malevolo contro chi lo ha cresciuto, diventa crudeltà gratuita verso i propri simili, mentre indossa una camicia nera. La storia di un combattente che si appoggia ai forti e ai violenti, diventa come loro, seguendo una logica perversa che non lo appagherà. Un uomo cinico, senza sentimenti che tortura gli animali, che resta nella solitudine, facendosene un vanto, disprezzando gli altri, mentre discende la scala dell’abiezione umana. Come possiamo condividere scelte così radicali? Con il pretesto della ricerca della madre, vive i contrasti delle terre di confine, costrette a italianizzarsi dal governo fascista: sloveni e croati non hanno vita facile nella Trieste dell’epoca.
Il personaggio continua la sua evoluzione, il suo entusiasmo e la sua forza saranno pian piano dilaniati da ciò che accade, nel corso della guerra. Si è convinto di essere quello che non è, pian piano se ne rende conto. In questo, Mattia diventa più vicino a noi, anche nel finale, forse prevedibile.
La narrazione si dipana su due piani paralleli che sviluppano uno il passato e l’altro il presente, come a dire che la vita si riscatta con l’accettazione del suo finale. È questa caparbietà, questo orgoglio che rendono il personaggio attuale pur nella sua cattiveria, Mattia accetta situazioni che egli stesso deplora per sfuggire alla fame e assurdamente è attaccato al padre che non vuole rivelargli l’identità della madre. Anche questa figura ha dei risvolti non sempre coerenti, ci domandiamo il motivo di tanta ostinazione, nel non rispondere alle domande del figlio.
“– Dimmi chi è mia madre, – gli ho chiesto. – Ho piú di vent’anni ormai, è giusto che sappia la verità.
– Tua madre è la donna che è morta in quella camera.
– Bugiardo! – ho gridato tirando un pugno sul comò.
Mi ha allungato uno schiaffo in pieno volto.”
Ogni personaggio vive nella sua realtà di poche parole, facendo scudo con il proprio silenzio alla fatica di vivere. Con gli “amici” fascisti il protagonista condivide scorribande e sopraffazioni, arrivando a essere temuto dai suoi stessi compagni.
Le donne hanno un posto fuggente, se si esclude la madre immaginaria, descritta nei dettagli di un sogno. Non vi è alcuna empatia tra i personaggi, né legami particolari, neppure con il padre, che resta però la figura di riferimento, nonostante tutto. Il sentimento che prorompe è la rabbia, rabbia di non sapere, rabbia contro il mondo, in uno stato adolescenziale che sarà superato solo dopo la guerra, a significare che solo l’esperienza sulla pelle può cambiare l’opinione degli uomini e farli maturare. Nonostante ciò, possiamo essere vicini al protagonista che indoviniamo fragile nella sua pochezza e nella sua sfortuna.
Un ritmo serrato tiene viva l’attenzione del lettore sulle pagine, la vicenda si sviluppa inanellando i fatti nel loro svolgersi storico, una volta conosciuto il carattere del protagonista, possiamo immaginare quali saranno le sue scelte.
L’ambiente è la città di Trieste con la sua bellezza austroungarica che si avvia a sopportare i cambiamenti. Forse l’amore per la città è il moto dell’anima di Mattia che nonostante il pericolo, non se ne vuole allontanare per un lungo periodo, come il padre consiglierebbe. Il fascino delle piazze, del mare e dei ricordi, l’incendio fascista del Narodni-dom, contro la presenza slava in città, la realtà delle foibe non possono essere dimenticati.
“Il vento spargeva faville nell’aria e dopo il suo soffio più niente aveva forma. Ho assistito a quello spettacolo interminabile e quando le fiamme hanno iniziato ad assopirsi mi sono sentito pronto a qualsiasi cosa pur di non farmi scappare l’onnipotenza che mi era entrata nelle ossa.”
Manca in questo romanzo la lotta personale, la riflessione vera e autentica di un uomo che affronta la sua resilienza e che cerca di emergere dalla sconfitta che gli ha imposto la vita.
La forza dell’originalità sta nell’aver raccontato una storia dal punto di vista del potente che si trasforma in perdente, il fascista non del tutto convinto, che assume il suo ruolo interpretandolo nel miglior modo, come un attore provetto, restando però un passo indietro rispetto all’autentica convinzione. Questo sarà il seme di un possibile riscatto.
“Chiedeva di continuo che gli parlassi dell’Albania, della guerra, di come stavo. Io lo facevo per distrarmi dall’odio che mi montava dentro. Nonostante la fame e il freddo patiti, nonostante l’eco delle granate nella testa, volevo soltanto prendere le scale e andare a cercare Giorgio Tonetti o sorprendere in qualche vicolo gli squadristi più giovani per spaccargli il muso e pestarli con le scarpe chiodate. Lasciarli a terra a furia di botte.”
Un linguaggio aspro e crudo, una narrazione, ricca di frasi taglienti, che fanno scorrere velocemente i fatti. L’uso della prima persona, all’inizio fresca e infantile, rende più vive le situazioni, anche se i fatti prevalgono rispetto alle riflessioni e il giudizio su di essi resta lontano.
Marco Balzano, nato a Milano nel 1978, ha vinto il premio Campiello nel 2015, è l’autore di Io resto qui, una storia ambientata in Alto Adige.
PRO
La vicenda ci spinge a interrogarci su quali bassezze il carattere umano possa raggiungere, se la compassione per i suoi simili resta lontana. Perché la storia non si ripeta.
CONTRO
Qualche personaggio non del tutto coerente. La ricerca di una madre non giustifica, parer mio, un comportamento spietato contro cittadini inermi.
Trama
Siamo a Trieste, la guerra è appena finita. Un uomo beve un caffè al bancone del bar. Qualcuno lo chiama, lui si gira, ma sente già la canna di una pistola puntata contro la schiena. Tutti lo conoscono come «Bambino»: è stato la camicia nera più spietata della città. «Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del più forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata». Una storia veloce quanto un proiettile che attraversa guerre, confini, tradimenti. Mattia nasce a Trieste nel 1900. La sua infanzia irrequieta, forse, è già un presagio: un fratello che parte per l’America, un amico che presto lo abbandona. Quando scopre che la donna che lo ha cresciuto non è la sua vera madre, dentro di lui qualcosa si spezza e nel petto divampa un fuoco freddo che non saprà mai domare. L’ingresso tra le file degli squadristi è una conseguenza quasi naturale. Nonostante il soprannome che gli hanno affibbiato per il suo viso da fanciullo, «Bambino», Mattia ostenta una ferocia da boia. Ma prima ancora dell’ideologia, prima della violenza e della brutalità antislava, il motivo per cui indossa la camicia nera e batte palmo a palmo le terre contese è la speranza di ritrovare quella madre senza nome né volto. Suo padre, un vecchio orologiaio, è l’unico a conoscere la verità ma la tiene sigillata in un silenzio blindato quanto una cassaforte. Nella frontiera d’Italia più dilaniata, la vita di Bambino scivola su un piano inclinato: ogni giorno una nuova spedizione, un nuovo assalto, una nuova rapina. E poi, tutto d’un fiato, lo scoppio della guerra, i nazisti in città, l’occupazione jugoslava di Trieste, le foibe. Un’esistenza vissuta da cane sciolto, scandita da un implacabile conto alla rovescia.