Epoca Vittoriana Usi e costumi

L’epoca vittoriana e il rapporto con la morte: la fotografia post mortem

Se oggi ci capitasse di vedere una fotografia che ritrae il corpo di una persona morta, magari truccata, ben vestita e, perché no? attorniata dai propri familiari, sicuramente ci causerebbe un senso di repulsione e la catalogheremo come un qualcosa di raccapricciante, di macabro.

Eppure, nella nostra storia c’è stato un periodo in cui le foto post mortem furono particolarmente in voga, un esempio di come intorno alla morte, in ogni epoca e in ogni cultura, l’uomo ha inventato soluzioni per tenere viva la memoria del defunto e superare il dolore del lutto. Un tempo, infatti, la morte è stata la “Sorella morte”, accettata come parte integrante di un ciclo che oggi abbiamo in un certo senso fermato con la tecnologia e il progresso, eliminandola dai nostri pensieri.

Se volete seguirmi in questo particolarissimo viaggio capirete il perché giudicare le cause e le motivazioni di questo tipo di rituale funebre sarebbe senz’altro sbagliato e che le spiegazioni di carattere sociale sono diverse e molto complesse. E, sono sicura, vedrete che non la troverete così assurda e orribile.

L’origine della fotografia post mortem e la loro ascesa

Tra il 1837 e 1901 la fotografia post mortem è stata una delle pratiche più iconiche dell’epoca vittoriana, un’usanza che, al di là dell’aspetto che potrebbe sembrare di dubbio gusto, nasconde un mondo di sentimenti e affetti che suscita commozione. Queste, infatti, offrono la possibilità d’immortalare il morto attraverso pose ed artifici che lo facciano sembrare ancora vivo.

Per la prima volta si aveva un vero e proprio oggetto-ricordo che poteva essere esposto insieme a oggetti più tradizionali come le ciocche di capelli o come la gioielleria da lutto.

L’esigenza di avere un ricordo del caro defunto, tuttavia, non era peculiare dell’epoca vittoriana. Già in età romana si creavano delle maschere mediante un calco del viso del defunto e nel Rinascimento gli si ritraevano in un dipinto sul letto di morte, un lusso abbastanza costoso riservato solamente alle classi più agiate, i nobili e il clero.

Nel XIX secolo l’avvento della dagherrotipia fu essenziale per l’evoluzione iconografica del “memento mori”. Il dagherrotipo, un’immagine piccola e altamente dettagliata su argento lucido, aveva un costo più basso, anche se ancora alto, rispetto a un ritratto commissionato ad un artista, facendo sì che la foto post mortem si diffondesse pure nelle classi medie. Dal 1840 fu così diffusa da diventare una delle più grandi fonti di guadagno per i fotografi del tempo: le persone erano disposte a pagare più per un dagherrotipo che ricordasse la morte di una persona cara, piuttosto che per un matrimonio o una nascita. Il motivo era semplice, la morte era onnipresente e la società aveva bisogno di un modo per affrontare le paure contemporanee. Non a caso è in questo periodo, fine del Settecento e per tutto il regno della Regina Vittoria, che si vede affermare la letteratura gotica. E a qualcosa di “gotico” richiama la fotografia ritrattistica dell’epoca che ha un unico comune denominatore: nessun viso sorridente. Questo era dovuto sia per la difficoltà di mantenere stabilmente un’espressione sorridente per il tempo abbastanza lungo necessario alla posa sia perché non faceva parte del gusto del periodo manifestare letizia e il volto nella foto era serio, spesso pensieroso e compassato.

Negli anni ‘50 dell’Ottocento furono introdotte nella fotografia procedure meno costose, come l’uso di metallo sottile, vetro o carta invece del costoso strato in argento, cosicché ritrarre la morte divenne sempre più di uso popolare. Molte più persone potevano avere un ricordo del caro defunto e servirsene per smorzare l’intensità del dolore, per molti era l’unica foto che avevano e che potevano permettersi.

Strano per noi, abituati a vivere in una società nella quale la fotografia è onnipresente e assodata, immaginare una realtà nella quale una persona poteva benissimo essere fotografata una sola volta in tutta la sua vita e da morta.

La fotografia post mortem, quindi, la potremo equiparare ad una sorta di “mummificazione visuale” che fissando il morto in un’immagine gli garantisce un’apparente conservazione preservandolo, in questa condizione simile al sonno, dalla futura decomposizione. Questo ci riconduce alla più antica e radicata pratica di tanatometamorfosi dell’antico Egitto che aveva però obbiettivi diversi: la mummificazione per gli antichi aveva lo scopo di garantire un sereno viaggio nell’aldilà e non quello di preservare l’immagine e il ricordo del morto come invece accadeva in epoca vittoriana.

Perché le foto post mortem furono così diffuse in epoca vittoriana?

Se ci pensiamo bene, a quei tempi la mortalità era davvero elevata, la morte onnipresente. Siamo, infatti, in piena rivoluzione industriale che porta masse di popolazione, spinte dalla promessa di un lavoro e del miglioramento della qualità di vita, a spostarsi dalle campagne alle città per lavorare come operai nelle fabbriche, bambini compresi. Le condizioni di lavoro, però, sono pessime così come quelle igieniche: a metà del XIX secolo, Londra era, apparentemente, una vivace città commerciale in fase di crescita demografica ma alquanto malsana. Basta citare il fatto che i rifiuti venivano riversati nel Tamigi creando situazioni come “The great stink”, “la grande puzza”. Queste situazioni portarono alla diffusione incontrollata di malattie come il colera, tifo, difterite e, tramite la prostituzione, malattie veneree come la sifilide. Senza contare le varie malattie respiratorie causate dal forte inquinamento atmosferico dovuto dalle fabbriche in ascesa. E neppure la borghesia ne era esentata, perché la morte non guarda in faccia a nessuno e di nuovo, come nella “danza macabra medioevale”, fa da livellatore sociale.

L’evoluzione e i falsi miti nelle foto post mortem

Dopo l’avvento della fotografia la gente iniziò a farsi fotografare assieme ai defunti e gli studi fotografici dell’epoca si organizzarono di conseguenza, organizzando le pose delle foto post mortem sia a casa del defunto, sia presso il loro studio. L’obiettivo dei fotografi era quello di creare una sorta di rappresentazione in vita tramite il corpo defunto per produrre un ricordo indelebile dei loro cari.

Le prime foto post mortem raffiguravano solamente il viso o il busto del defunto e raramente includevano la bara.

Poi si passò a uno stile più naturale definito “the last sleep”, “l’ultimo sonno: il morto veniva ritratto steso sul letto o sul divano, posizione che lo faceva sembrare dormiente, mentre il make-up gli conferiva un’espressione serena.

Spesso la scena era enfatizzata da simboli come croci, fiori e libri di preghiere. Questi simboli rimandano all’immagine dello spirito che lascia il corpo al momento del trapasso.

Interessanti sono le “cartes de visite”, cioè delle foto ritratto che consentivano di stampare più copie da un unico negativo permettendo che le immagini fossero inviate a parenti in ricordo dei defunti.

Molto spesso insieme al defunto posavano i familiari diventando una sorta di ritratto di famiglia e per alcuni era l’unica foto che ritraesse la famiglia al completo. A volte si univano il prete, il fotografo e il suo aiutante con la sua ingombrante attrezzatura da lavoro. In questo caso si assiste ad una messa in scena della morte che richiama la scenografia teatrale e che aveva lo scopo di commemorare il momento dell’addio quando il morto era ancora in casa e il lutto era recente.

Sempre rimanendo in ambito teatrale, c’è uno stile di fotografia post mortem definito “vivo tra i vivi” perché il morto era in posa tra i congiunti. Seduto sulla sedia e con gli occhi aperti la finzione era talmente bene inscenata che era difficile riconoscerlo. Non c’erano simboli che richiamavano la pratica funebre o all’idea della separazione dell’anima dal corpo, in questo stile di foto è difficile individuare il defunto soprattutto quando si tratta di bambini ritratti tra giocattoli.

È interessante esaminare l’abilità e le soluzioni creative messe in atto dal fotografo come i bastoncini di legno che tenevano aperti gli occhi. A volte le pupille erano disegnate direttamente sulla stampa finale dell’immagine, una sorta di fotoritocco ante litteram.

Per molto tempo è circolato il mito secondo cui nelle foto post mortem i cadaveri venissero messi in piedi tramite piedistalli e cavalletti. Non era così. Sebbene i corpi venissero bloccati in pose che suggerissero un’idea di vita, per esempio come se stessero dormendo o semplicemente seduti su una sedia, non venivano mai messi in piedi. I piedistalli e cavalletti servivano sì d’appoggio alle persone che venivano ritratte, ma a quelle vive in modo che non si muovessero durante il lungo tempo di posa, un micromovimento poteva rovinare lo scatto.

Le foto post mortem di stampo vittoriano caddero in disuso attorno al 1940, limitandosi solamente a mostrare il soggetto in una bara e tralasciando la componente realistica della foto. Questo tipo di fotografia è ancora praticata in alcune regioni del mondo e più in generale tra i fedeli delle chiese europee orientali.

Le foto post mortem dei bambini

Un discorso a parte bisogna fare per quanto riguarda le foto post mortem dei bambini.
Il tasso di mortalità infantile in quest’epoca era talmente elevato che spesso i genitori, partendo dall’idea che avrebbero perso il loro figlio, non gli davano subito un nome, per non affezionarsi troppo e poi soffrire.

Con l’avvento della fotografia le immagini del neonato da solo o in braccio ai genitori si moltiplicarono: era un modo per essere certi di avere un’immagine del piccolo nel caso non arrivasse all’età adulta.

Se la famiglia non aveva fatto in tempo ad immortalare i figli, il fotografo provvedeva a fornire loro immagini che avessero una parvenza di vita. Moltissime, in effetti, sono le foto post mortem di bambini che venivano ritratti come se fossero ancora vivi perché vestiti con gli abiti da festa, con gli occhi aperti o colorati col fotoritocco, con giochi incollati alle manine ma anche foto di gruppo con altri fratelli vivi.

Vista la grande richiesta di questo genere fotografico, i fotografi si organizzarono in mille modi con artifici e ritocchi da far invidia ai nostri più recenti photoshop, il più usato dei quali era quello per tenere in posizione eretta il piccolo corpicino: a reggerlo era una persona adulta, di solito la mamma, che era stata precedentemente ricoperta da un pesante drappo di tessuto per coprirne la sagoma. Veniva poi utilizzata una speciale carta fotografica decorata che incorniciava il ritratto del piccolo.

Ma si sa, il diavolo fa le pentole e non i coperchi e non sempre il “trucco” riusciva. In diverse foto si poteva intravedere la figura celata e queste immagini contribuirono al diffondersi delle storie di bambini fantasmi o bambini strappati alla vita da spiriti maligni. Non solo, il rimaneggiamento delle foto è stato uno dei grandi protagonisti nella diffusione di quello che è lo spiritismo dell’epoca vittoriana, dando la possibilità a diversi medium truffatori di ingannare e abbindolare i propri clienti.

La foto post mortem: funebre non macabra.

Innanzitutto, bisogna fare una premessa per capire la differenza tra macabro e funebre nell’accezione di luttuoso, perché è in questa differenza che si può contraddire uno dei più grandi pregiudizi in merito all’età vittoriana ritenuta incline al raccapricciante.

Il macabro nasce dalla percezione della morte come di un evento straordinario che spezza la normalità della vita. Noi oggi la morte l’abbiamo rifiutata proprio in virtù della tendenza a guardare al passato con la lente deformante del nostro presente che, appunto, rigetta la morte. Tutto quello che la tratta come parlare di morte, scrivere di morte, rappresentare la morte, per noi significa un’attrazione morbosa nei suoi confronti, per noi è macabro.

Al contrario, il rapporto che i vittoriani avevano con la morte era diverso da quello odierno, la morte non si allontanava dal quotidiano, faceva parte della vita. L’accettavano seppur dolorosa e la celebravano attraverso una ritualità funebre che noi oggi abbiamo in parte perso. Per loro morire faceva parte del vivere, per loro era semplicemente funebre.

La foto post mortem, per noi così strana, bizzarra, era da loro pienamente accettata e coerente agli usi della cultura vittoriana. Ogni epoca ha cercato di conservare il ricordo dei propri defunti e con l’avvento della fotografia era nato il bisogno non solo di avere memoria dell’evento, ma anche di custodirla, rendendo la fotografia una sorta di moderno “memento mori”.

Perciò, per quanto le foto post mortem vittoriane possano risultare al giorno d’oggi incredibili e spettrali, debbono essere degne di massimo rispetto in quanto rappresentano un modo di restituire ai propri cari defunti una dignità del sonno e della pace e rendere loro l’ultimo saluto. Perché nulla può consolare la perdita di una persona cara ma ci sono molti modi per attenuare il dolore e mantenere vivo il ricordo è uno dei modi che l’umanità ha selezionato come efficace.

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