Articolo a cura di Raffaelina Di Palma
I moti rivoluzionari sardi, sono noti come Sarda Rivoluzione o anche come Vespri Sardi.
Il triennio, che dal 1793 al 1796, segnò il periodo di ribellione all’autorità sabauda, in Sardegna, ebbe come punto chiave il 28 aprile 1794, una vera rivolta patriottica, cui partecipò tutto il popolo, contro il dominio di un re straniero. Quel giorno è passato alla storia come Sa Die de s’aciapa (il giorno della cattura) noto oggi come sa die de sa Sardigna (il giorno della Sardegna) diventata festa nazionale della regione.
L’indipendentismo sardo, forma radicale del sardismo, (in sardo: sardismu, in catalano: sardisme), è una corrente sociale, che difende la riaffermazione della propria sovranità, culturale e politica, ma non come fine ultimo della sua attività.
Quando nel 1793 l’esercito francese cercò di invadere la Sardegna per poter controllare il Mediterraneo Occidentale, la Francia repubblicana era allora considerata una potenza in ascesa. Nel 1720, dopo secoli di dominio catalano-spagnolo e a uno breve di riconquista, il Regno di Sardegna entrò nell’orbita italiana venendo ceduto a Casa Savoia in accordo al Trattato di Londra del 1718, quale esito della guerra della Quadruplice Alleanza. I Savoia, che avrebbero preferito la Sicilia, non furono particolarmente entusiasti dello scambio. Il governo Sabaudo (che aveva sede a Torino), in vista della paventata invasione francese non era in grado o non era intenzionato a difenderla, indusse i sardi a costituire un esercito di volontari, (per difendere la loro terra e i piemontesi), arruolati dai paesi e dalle città i quali vennero sovvenzionati da donazioni volontarie delle persone più in vista della società sarda, tra questi il vescovo di Cagliari e il magistrato della Reale Udienza Giovanni Maria Angioy.
Quel fil rouge, che sembrava indissolubile, tra il 28 aprile del 1794 (la cacciata del Piemonte) e il 20 dicembre del 1847 (la Fusione perfetta), si spezzò. Tra attese, proiezioni di idee che non trovarono corrispondenza nella realtà e il venir meno a un dovere giuridico e morale vedrà fallire la rivolta antifeudale: il governo autonomo diventerà una visione onirica.
La vittoria dell’esercito organizzato dai sardi davanti a una delle forze europee più potenti fu l’influsso determinante su una linea di condotta di cui già esistevano le premesse.
La classe dirigente sarda e i popolani, in cambio del sostegno dato in difesa della loro terra e dei piemontesi, rivendicava il riconoscimento dei propri diritti, ponendo fortemente e legittimamente, l’aspirazione all’auto governo.
Il re Vittorio Emanuele III di Savoia volle premiare i sudditi di quella vittoria, ma nelle ricompense, però, furono favoriti i piemontesi non i sardi. In particolare i volontari, che avevano partecipato alla difesa della Sardegna non avevano ricevuto i compensi sperati e questo fu un altro motivo di irrequietezza che si ripercosse nei villaggi da cui provenivano.
Fu in quell’intricata situazione di quella temperie, che moventi e avvenimenti concorsero alla caratterizzazione di quel momento storico, che entrò in scena Giovanni Maria Angioy.
Apprezzato e affermato magistrato del tribunale della Reale Udienza, quando parlava in pubblico intorno a lui si creava il silenzio, riusciva a catturare l’attenzione generale. Fu chiaro che in un momento così delicato e difficile, fosse necessaria una figura come lui, capace di parlare alle masse.
Ma la sua fu una tragica e sfortunata missione: una rivoluzione tradita. La sconfitta, il suo esilio e la morte a Parigi, venne vanificata nel sangue da parte della corte sabauda, che frantumò la sacrosanta aspirazione di un governo indipendente.
Sulle tracce del federalismo sardo: da Angioy a Gramsci a Lussu
È risaputo che dopo la Fusione Perfetta scese sul potere sabaudo il più letale paludamento di centralismo, che durò e si intensificò durante il fascismo, fino alla Repubblica e alla Costituzione.
Il Regnum Sardiniae (Regno di Sardegna) non era un modello di autogoverno, ma sussistevano gli Stamenti (parlamenti cetuati), la Reale Udienza, l’apice dell’organo giurisdizionale sardo con compiti talvolta anche politici, erano in vigore le leggi sarde, la Carta de Logu in primis, per quanto superate, esistevano i trattati nazionali, non manipolabili dal re e le indiscutibili leggi basilari, che davano sicurezza a questo ordine. Su questi contenuti Angioy realizzò la sua idea di recupero del Regnum, della statualità sarda (essere nella sfera di competenza dello stato), ma la sua sconfitta portò in pochi decenni alla sparizione di quel potere come valore a sé stante e iniziò un lungo periodo oscuro di accorpamento.
Fu incredibile l’impeto, meno di un secolo dopo, l’idea federalista dei combattenti sardi della Grande Guerra: non ci sono salti nella storia dell’epoca, ma qualche germoglio doveva aver messo nuove radici, senza inaridirsi completamente. A onor del vero agli albori del sardismo veniva attribuita l’autonomia, il termine federalismo non era ancora nel linguaggio sardista, tanto è vero che al Primo Congresso dei combattenti sardi del maggio 1918, non venne menzionato, si parlava infatti di autonomia a tutti gli enti locali, con la limitazione dell’autorità politica al solo controllo.
Dopo le imprese straordinarie angioyane, l’idea federalista prese piede in Sardegna attraverso due esponenti di spicco: Giovanni Battista Tuveri e Giorgio Asproni. Sul grande movimento antifeudale cadde, oltre la repressione sproporzionata e terroristica dei Savoia, quella dei ceti sardi che godevano di privilegi, con lo scopo di mantenere, in quel rapido cambiamento i benefici, guadagni e poteri e, come se non bastasse, anche la “damnatio memoriae” imposta dai vincitori. Ancora oggi, domina al centro di Cagliari, un enorme e assurdo monumento a Carlo Felice e solo una via secondaria dedicata a Giovanni Maria Angioy!
Emilio Lussu, a proposito dei moti antifeudali culminati nella primavera del 1796, sottolineava; “Di questo movimento, che terminò nella rivolta contro i feudatari e al quale, il movimento autonomista sardo del dopo-guerra si riallaccia direttamente, come il movimento socialista francese si riallaccia alla grande rivoluzione, si è quasi persa memoria per tutto l’Ottocento.” Questo sentimento nazionale fu di vitale importanza per le origini del movimento sardista: a cui aderirono tutti quelli che ambivano a un trattamento sociale egualitario e di partecipazione autonoma alla trasformazione dello Stato Italiano: lo Stato di tutti.
Senza perdere ciò che di primaria importanza aveva vissuto profondamente con la sua terra d’origine, anche Antonio Gramsci, come Emilio Lussu, ebbe la forza di uscire dalle ristrettezze di una sardità chiusa, passando al difficile percorso intellettuale per capire gli ingranaggi che avevano generato e permettevano il mantenimento della dipendenza dell’isola sarda da forze esterne.
Una tradizione forte, di notevole vigore, solidità e resistenza, “la federalista sarda”, che tuttavia non riuscì a imporsi in Assemblea Costituente e nella Consulta regionale sarda.
“«Lo Statuto che ci diedero – commentò sarcastico Lussu – somigliava a quello che i sardi avevano sognato per anni, come un gatto somigli a un leone: l’unica cosa che hanno in comune è che tutti e due appartengono alla famiglia dei felini».”
Già. Ma forse è proprio qui, in questa forma dal profondo contenuto, che si può trovare una nuova chiave per un moderno pensiero e per una ripartenza; potrebbe riannodare quel fil rouge…
La Sardegna è una terra dal lungo e ricco passato, ma paradossalmente senza storia. Il plurimillenario corso della sua civiltà è costellato da gesta simboliche, di uomini e donne, ma difficilmente sono stati capiti e accolti nei testi didattici italiani. Questa mitica terra ricca di eroi perdenti, con radici profonde, ma ben impresse nella realtà, si scontra con il silenzio assoluto della storiografia nazionale, pur tanto prodiga nei confronti dei vari Cola di Rienzo e Masaniello.
Anche il cinema e la letteratura sono state avare con il Pantheon degli eroi sardi, fatta eccezione per Eleonora d’Arborea, l’unica ad aver sollevato la polvere dell’anonimato oltre i confini isolani. Preparando questo articolo mi si è aperto un mondo: ho scoperto il senso di forte appartenenza del popolo sardo: sotto ogni latitudine, sa di essere unico, senza confini. Con una secolare cultura che pochi altri luoghi hanno.
Curiosità
Esistono alcune parole che usiamo quotidianamente convinti che se le sentissero un romano o un milanese le capirebbero facilmente, ma non è così. I sardi parlano bene l’italiano perché sono due lingue completamente diverse.
In Sardegna si parlano dialetti “inusuali” oltre al sardo. Ci sono alcune città che parlano dialetti che poco hanno a che fare con il sardo. Ci riferiamo al catalano di Alghero, al tabarchino dell’isola di Carloforte e Sant’Antioco e al corso, nell’isola de La Maddalena. I motivi di questi intrecci di dialetti sono da ricondurre alla storia: Alghero ha avuto una dominazione catalana che risale al XIV secolo e il suo centro storico mostra ancora tutto il fascino del suo passato; a Carloforte e Sant’Antioco si parla il tabarchino che è un dialetto genovese contaminato, in quanto nel 1542, arrivarono nell’isola di San Pietro dei coloni per la pesca del corallo e dei tonni.
“Già lo faccio”. Sentendo questa espressione si pensa subito che il tempo verbale in effetti sia sbagliato. L’utilizzo del “già” davanti a un verbo, è usato dai sardi come rafforzativo per rassicurare qualcuno che chiede di fare qualcosa.
È noto che i sardi sono molto sintetici e riservati. Non è un caso che uno dei loro modi verbali preferiti sia il gerundio, utilizzato spesso impropriamente. “Cosa stai facendo?” “Eh, andando.” Per i non sardi non esiste l’utilizzo del gerundio senza il suo verbo ausiliare, che generalmente è stare. “Sto andando.”