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Il salottino TSD: intervista a Ben Pastor

Nel mese di luglio la nostra lettura condivisa ha visto protagonista il romanzo “La fossa dei lupi” di Ben Pastor. TSD ha pensato di chiedere ai partecipanti di proporre alcune domande all’autrice che ha gentilmente accettato di rispondere. A voi l’intervista!

L’autrice

Ben Pastor nasce a Roma nel 1950. Si trasferisce negli Stati Uniti dopo la laurea in lettere con indirizzo archeologico presso l’università La Sapienza di Roma. Docente, saggista e scrittrice, vanta numerose opere di successo tra cui “La fossa dei lupi”, “I misteri di Praga”, “La morte delle sirene”, giusto per citarne alcuni.

L’INTERVISTA

Che tipo di lettrice è Ben Pastor? Ha un genere che predilige in particolare?

In realtà non leggo spesso nel genere. A parte la saggistica, benché prediliga romanzi non ambientati nella società contemporanea (è già abbastanza stancante viverci dentro), non mi interessa la scrittura strettamente di genere, in quanto ha troppi limiti. Lo so bene, perché sia pure con un piede solo, la frequento come scrittrice. I rischi maggiori? Faciloneria, sciattezza sintattica e spesso grammaticale, personaggi bidimensionali, poca o nulla penetrazione psicologica. Preferisco leggere prosa di nerbo, non scevra da idealismo e un senso epico della vita, e soprattutto – soprattutto – che non sia autobiografica. Rifuggo da qualsiasi romanzo che parli di chi scrive, poiché ho l’impressione che con la scusa di “aiutare gli altri a capire i loro traumi” in realtà ci si eserciti in una semplice e ripetitiva captatio benevolentiae. È la mia triste storia, e perciò deve piacervi a ogni costo, altrimenti siete insensibili. Per questo e altri motivi mi affido a Eudora Welty, Karen Blixen, Edith Wharton, Yukio Mishima, Dino Buzzati, William Faulkner, Vitaliano Brancati, Ernst Wiechert, e tanti altri.

Lei ha creato due personaggi protagonisti di due serie di romanzi, una ambientata durante la II guerra mondiale e l’altra durante il IV secolo d.C. Come sono nati questi personaggi? Dove “vi siete incontrati”?

Ben detto, c’è sempre un incontro. Il mio personaggio della Seconda guerra mondiale, Martin Bora, è nato dalle mie ricerche sulla resistenza al nazismo all’interno dell’esercito e soprattutto del controspionaggio tedesco. Se il modello di Bora è lo sfortunato attentatore del 20 luglio 1944, Stauffenberg, altri tratti del suo carattere derivano dall’aver frequentato, anche per ragioni di interviste a reduci e a vittime di quel conflitto, la generazione degli anni Trenta e Quaranta. Si è trattato poi di elaborare il tutto in un personaggio credibile, appartenente a un certo censo e a una certa educazione mitteleuropea, che si confrontasse con i tremendi dilemmi morali dell’epoca mentre apparentemente sta “soltanto” investigando dei crimini. Quanto a Sparziano, inviato imperiale cresciuto sotto Diocleziano, dei due è forse quello che si avvicina di più a raccontare un mondo in evoluzione e devoluzione che conosciamo anche noi tanti secoli più tardi. Nato povero nelle province danubiane, acculturato e salito di gradi militare già in giovane età, è il prodotto della società mobile tardoromana, molto simile per alcuni versi a quella americana di fine XX secolo. Il mondo in cui investiga è un mondo che conosciamo: movimenti di popoli, spesso difficile convivenza fra gruppi differenti fra loro, conflitti di religione, inflazione, economia che scricchiola, scontri armati ai confini… La Seconda guerra mondiale ci ha dato la realtà in cui viviamo. Il tardoantico ci offre esempi dei rischi e delle opportunità di un periodo caotico. Ottimi (e utili) sfondi narrativi!

Nei suoi romanzi, lei spazia in epoche storiche molto lontane tra loro. Quanto tempo la impegnano le ricerche storiche alle base dei suoi romanzi?

Provengo dal contesto accademico americano, all’interno del quale ho sviluppato il mio metodo di raccolta delle fonti e accurata ricerca, accompagnato però dalla sensibilità di oltreoceano per un linguaggio colto ma comprensibile, al contrario di tanta erudizione europea oscura e compiaciuta della propria oscurità. Sono addestrata a scartabellare, navigare, osservare, usare la conoscenza delle lingue straniere per accedere a ricerche altrimenti non accessibili. Sono fornita di pazienza e curiosità. Grazie a tutto questo, non esito a usare più della metà del tempo di produzione di un romanzo nella ricostruzione accurata di ambienti, linguaggio, modi di relazionarsi socialmente, credenze e fallacie, per evitare di mettere un mero costume addosso a protagonisti troppo contemporanei e politicamente corretti per essere efficaci. Un simile criterio mi ha permesso di spaziare dall’antico al Seicento manzoniano fino al XX secolo. A mio avviso, e come consiglio non richiesto, dal punto di vista metodologico e ricostruttivo abbiamo tutti molto da imparare dalla ottima cinematografia storica russa e da quella asiatica, soprattutto cinese e giapponese.

Senza dubbio scrivere un seguito dei Promessi sposi è una bella sfida. Cosa l’ha spinta a intraprendere questo percorso?

Questa domanda,sulla sfida rappresentata da una continuazione del capolavoro manzoniano, ci interroga su quale ruolo abbia questo nella cultura odierna. Alcuni vorrebbero eliminare I promessi sposi dalle letture scolastiche, perché non più rilevante o troppo eurocentrico. Leggo lamentele da parte dei turisti a Lecco che hanno trovato Villa Manzoni chiusa per lavori e poca o nessuna segnaletica dei luoghi descritti nel romanzo. Forse non è poi così azzardato rivolgersi a un caposaldo della letteratura italiana. Mi sono avvicinata al testo con antico affetto e rispetto immutato, volendo soprattutto riavvicinare il pubblico a qualcosa di dimenticato, trascurato oppure gelosamente conservato negli anni. Possono ancora appassionarci l’Innominato, il prete di campagna, i due fidanzati, e i vari cattivi del romanzo? Io dico di sì, anche grazie a qualche caratterizzazione aggiuntiva, ai cognomi autentici, alla riappropriazione delle identità di Marianna de Leyva e Gian Paolo Osio… Il gioco, poiché si tratta di un colto gioco, valeva certo la candela.

“La fossa dei lupi” è un titolo azzeccatissimo. Ce ne vuole parlare?

Questa domanda tocca un aspetto non indifferente nella stesura di un romanzo. Il titolo, infatti, deve al contempo attrarre, incuriosire e in qualche modo riassumere il significato esplicito o implicito del testo. Ho scelto La fossa dei lupi per qualche valido motivo. La metafora della trappola – l’agguato mortale, gli intoppi che Olivares incontra durante l’indagine, le false verità – si rifà ad una realtà dell’Europa seicentesca, in cui il lupo, più diffuso dell’orso in parte già sterminato (lo facciamo ancora oggi, vergognosamente), costituiva il pericolo maggiore per le greggi e i gruppi umani marginali. Creatura oggi riconosciuta come non particolarmente aggressiva se non spinta dalla fame, in quei tempi grami si avventurava fino alla soglia delle capanne, e non si contavano i pastorelli e le bambine che come Cappuccetto Rosso nel testo originale di Perrault finivano sbranate dal branco. Ma il lupo, in natura come nella mia narrativa, mantiene la sua feroce dignità di animale selvatico. Se riesce a sfuggire alla trappola, è mitico e irriducibile.

Mi è piaciuta molto la figura del luogotenente di giustizia Diego Sarria de Olivares e ho avuto, leggendo il romanzo, l’impressione che l’idea del sequel dei Promessi Sposi sia nata proprio da lui. È così?

Sì. In effetti il personaggio di Olivares, già apparso in due novelle ambientate nello stesso periodo, è stato se non il motivo, il mezzo che mi ha incoraggiato a prendere per le corna il grande toro manzoniano. Nasce grazie all’esemplare modo in cui Don Lisànder tracciava i caratteri secondari della sua prosa, dai bravi ai monatti all’indimenticabile madre di Cecilia. Ho voluto guardare dietro l’angolo e cercare di capire chi inseguiva Renzo dopo i disordini di piazza. La Giustizia milanese, proba e severa, affidata a lombardi dai rispettosi amministratori spagnoli, ha generato un protagonista come Diego Antonio, Arconati per parte di madre e imparentato col fiore del Milanesado. Ho visto Renzo, Lucia, l’Innominato, Don Abbondio e il cast manzoniano attraverso i suoi occhi di giovane uomo di legge, ottimista e religioso, mezzo spagnolo quel tanto che serve a fargli combattere una credibile battaglia interiore fra lo spirito e la carne, e il sogno delle favolose terre lontane. Al suo seguito, ho potuto ricreare strade, vicoli e chiese scomparse di Milano, al punto che il sito web della Città ha amabilmente inserito stralci del romanzo nella sua disamina della topografia cittadina. Mai usare i protagonisti altrui per un sequel! Olivares arriva in punta di stivali alla porta dei Tramaglino, sale le scale verso lo studiolo di Don Abbondio, e con lui chi legge rivisita quei personaggi così cari (o così poco apprezzati) che hanno fondato la nostra letteratura moderna.

Ho notato un uso magistrale dei vocaboli, inserendoli perfettamente nel contesto dell’epoca che ha narrato. Come si è documentata in questo senso?

Grazie per il complimento insito nella sua domanda. Ho lavorato molto al linguaggio, difatti, essendomi preposta un metodo filologico di ricostruzione narrativa pur permettendomi scappatelle stilistiche postmoderne da figlia dei miei tempi che non possono esulare dagli insegnamenti di Jacques Lacan e da Fredric Jameson. Le fonti primarie – lettere private, documenti cittadini, gride governative, prosa e poesia contemporanea italiana e spagnola – mi hanno fornito le variazioni grafiche e grammaticali, le espressioni, i proverbi e i vezzi di un italiano ancora in evoluzione, localmente influenzato da lombardismi e spagnolismi. Ne La fossa dei lupi Renzo “parla più lombardo” di quanto non faccia ne I promessi sposi, debitamente risciacquati in Arno. Insulti e osservazioni che suonano strani e anche buffi alle nostre orecchie sono così di proposito, per aggiungere sapidità al testo sulla scia di quello che l’impareggiabile Manzoni ci ha lasciato in eredità. Tanto lavoro, ma devo ammettere, anche tanto divertimento.

Quale personaggio dei Promessi Sposi è il suo preferito?

In proposito, mi permetto di scegliere due personaggi manzoniani, uno assai centrale, l’altro più che secondario. Don Abbondio, vile, vaso di coccio fra quelli di ferro, è un carattere che ho cominciato ad apprezzare negli anni. Neanche io ho più la “furia di un uomo di vent’anni” propria del giovane Renzo! Il curato si barcamena in un mondo difficile, fra il martello dei prepotenti e l’incudine dei potenti. I signorotti lo minacciano, il cardinal Borromeo esige fermezza. Ma il cardinale è un principe della chiesa, oltre che un nobile che vive nel suo palazzo protetto da sbirri della Curia; Don Rodrigo, e ancor più l’Innominato prima della conversione, sono poco lontani, e impongono il loro volere con la forza delle armi. Cosa può fare un ometto mite e rancoroso – oggi si direbbe passivo-aggressivo – di fronte a queste intimidazioni? Fa quel che può per aiutare sé stesso mentre cerca di salvare capra e cavoli, senza riuscirci. Dopo la liberazione di Lucia è duramente redarguito dal Borromeo e punito con una salita in montagna a dorso d’asino. Sancho Panza senza sfrontatezza, non impara mai. E non si fida fino in fondo del pentimento dell’Innominato. L’altro personaggio è un cattivo in seconda fila: Don Attilio. Non so perché, forse fu grazie al magistrale teleromanzo di Bolchi del 1967, che lo ritraeva biondo e astuto, mi ha ricordato crescendo i consiglieri fraudolenti che Dante mette in gola all’inferno. Oppure, dal punto di vista filmico, i saggi barbuti e spregiudicati dell’antica Cina che appaiono nella monumentale Guerra dei Tre Regni (96 puntate sottotitolate in inglese su YouTube). Esempi interessantissimi, Attilio e i saggi, della duplicità umana e della strategia pragmatica divorziate dalla moralità comune.

L’autrice conta numerose opere prodotte, vi lasciamo di seguito alcuni titoli.

LUMEN

Cracovia, ottobre 1939. Maria Kazimierza, madre superiora del monastero di Nostra Signora delle Sette Pene, viene trovata uccisa da un colpo di pistola nel chiostro del convento. La badessa è in odore di santità, le mani sono segnate dalle stimmate e le vengono attribuiti dei miracoli. Un’indagine spinosa attraverso cui conosciamo Martin von Bora, il giovane e aristocratico capitano diviso tra l’obbedienza a Hitler e il senso personale di giustizia coltivato da un’educazione umanistica. Una ingegnosa combinazione tra romanzo poliziesco e romanzo storico.


LA SINAGOGA DEGLI ZINGARI

Agosto 1942-marzo 1943. Martin von Bora, uomo tormentato e diviso, ufficiale tedesco dominato da un senso dell’onore che lo imprigiona, è sul fronte di Stalingrado. Riceve l’ordine dal comandante supremo, generale Paulus, di indagare, in quanto agente esperto del controspionaggio, sulla scomparsa nella steppa (incidente, assassinio?) dei coniugi romeni Nicolae Tincu e Bianca Costin, venuti in visita privata al quartier generale delle forze tedesche. L’ordine è strano sotto tutti i punti di vista, in un momento come quello; e i so-spetti si infittiscono presto, quando scopre che i due romeni sono tutt’altro che ospiti banali, ma importanti scienziati che hanno collaborato con Enrico Fermi ed Ettore Majorana. L’indagine si trascina per mesi, nel caos infernale dell’assedio. Bora trova l’aiuto, e forse la vicinanza umana, di un maggiore italiano, Amerigo Galvani, con il quale intravede nel delitto una complicata catena che lega e confonde guerra, interessi privati, spionaggio di alleati e di nemici. Ma tutto affoga in un teatro di ferocia che a Martin appare ogni giorno che passa più catastrofico e rivelatore. E lascia in lui, molto più che una delusione, un senso di nulla. Le tante avventure del detective dell’Abwehr Martin von Bora, un aristocratico spirito d’artista chiuso dentro la divisa della Wehrmacht, un uomo giusto costretto da un perverso giuramento di fedeltà, corrono dalla Guerra di Spagna alla fine della Resistenza, e spaziano dall’Aragona all’Unione Sovietica. Romanzo dopo romanzo, vanno narrando, in chiave poliziesca, con un’esattezza che conosce gli umori dei comandanti così come le smorfie dei cecchini, la Seconda guerra mondiale, vissuta da un altro, estremamente solitario, punto di vista. Gialli con all’interno un lacerante quesito storico-morale.


LA MORTE DELLE SIRENE

306 d.C. L’Impero romano sta attraversando uno dei suoi periodi più bui, e nel passaggio dalla Prima alla Seconda Tetrarchia la lotta per la successione è a dir poco feroce. Determinato a mantenere l’ordine, l’imperatore Galerio affida al suo ufficiale Elio Sparziano una delicata missione diplomatica: consegnare un plico al giovane e ambizioso Massenzio, che si trova a Roma, in cui quest’ultimo viene apparentemente invitato a non comportarsi da usurpatore e a rispettare l’attuale, fragile equilibrio di potere. In attesa di essere ricevuto da Massenzio, Sparziano si ferma alle pendici del Vesuvio, a Surrentum, ritenuta l’antica dimora delle sirene, creature mitiche, messaggere di sventura e incantatrici d’uomini. Qui si dedica alle sue attività parallele di storico, bibliofilo e recensore dei migliori bordelli dell’impero, quando un ricco mercante del posto, tale Pelagio Teodoro, viene trovato assassinato nella sua villa. Mentre cerca di districarsi tra moventi e false piste, Sparziano ha un incontro inaspettato, che rovescia le sorti della sua missione. Mosso come una pedina di uno scacchiere più grande, l’ufficiale riceve un ordine che non può rifiutare e che metterà a repentaglio la sua stessa vita. Una nuova, appassionante avventura a tinte gialle per lo straordinario Elio Sparziano. Una storia in cui gelosia e ambizione, sete di ricchezza e di potere, segreti di famiglia e intrighi politici sono le note di un canto ammaliatore che, come quello delle sirene, conduce inesorabilmente alla rovina.


I MISTERI DI PRAGA

Praga, Impero austro-ungarico, inizio giugno 1914. Solomon Meisl è un medico ebreo che esercita a Josefstadt, il cuore storico, magico ed esoterico della città. Tenace, intuitivo, paziente, il dottor Meisl affianca alla sua professione quella di detective privato. Così, un giorno d’estate, ecco bussare alla porta del suo studio Karel Heida, un giovane ufficiale dei Lancieri incaricato di fare luce sull’omicidio di una principessa russa. Un caso inspiegabile, a cui fanno seguito altri efferati delitti, dai contorni quasi sovrannaturali. Deciso ad affiancare il tenente Heida nelle sue indagini (e avvalendosi dei consigli di un amico scrittore di nome Franz Kakfa…), Meisl si butta a capofitto nella Praga più occulta e incantata, memore del ghetto ebraico e del Golem, tra nobildonne seducenti, rabbini-alchimisti, cantanti d’opera, cabarettisti yiddish, assassini seriali e terroristi nell’ombra. Alla fine ogni delitto avrà la sua spiegazione, il suo movente, il suo colpevole. Ma intanto, a Sarajevo, il 28 giugno…

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