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Il salottino TSD: intervista a Paolo Casadio

Oggi il salottino di TSD riapre le sue porte e ospita l’autore Paolo Casadio incontrato virtualmente dalla nostra lettrice Mara Altomare che ha preparato questa intervista.

l’autore

Paolo Casadio nasce a Ravenna nel 1955.

Nel 2014 esordisce con il romanzo La quarta estate, edito da Piemme, ambientato nel sanatorio per orfani affetti da scrofolosi di Marina di Ravenna nell’estate del 1943: appunto quarta estate di guerra.

Nel 2018 esce, sempre per Piemme, Il bambino del treno: un romanzo che si svolge dal 1935 al 1945 nella stazione di Fornello, sperduta località appenninica del Mugello collocata sulla linea ferroviaria Faenza-Firenze.

Nel 2021, per i tipi di Manni Editori, pubblica Fiordicotone, la storia del difficile ritorno nell’Italia del 1945 di una giovane ebrea lughese sopravvissuta al campo di sterminio.

Nel 2024, sempre per Manni Editori, esce Giotto Coraggio, ambientato sul lago di Garda (e perciò nella Repubblica Sociale) dal settembre ’43 all’aprile ’45: è la seconda parte de La quarta estate.

I Racconti del brigadiere Venturoli, editi da Pa.Gi.Ne su ebook, si svolgono nella frazione di Piangipane negli anni ’50: brevi e incruente inchieste, caratterizzate da una marcata presenza di espressioni dialettali italianizzate e personaggi sanguigni come i romagnoli sapevano essere.

Suoi racconti appaiono nelle raccolte Parole del fango, Case del popolo, Per le altrui scale, Prossima fermata Fornello, Scrittori nelle case degli scrittori.

l’intervista

I tuoi romanzi descrivono il periodo storico della seconda guerra mondiale, a cui si capisce che hai dedicato molto studio e attenzione: quando è iniziato questo interesse e come è nata l’idea di scegliere questi anni per darne ambientazione?

Definisco i miei romanzi la “quadrilogia della guerra”, poiché con essi ripercorro la nostra storia recente dal 1935 al 1945, ovvero il lungo periodo che va dalla guerra coloniale alla conclusione del secondo conflitto mondiale. L’interesse verso la Storia nasce, non casualmente, alla fine degli anni ’90: un desiderio personale, una curiosità di approfondire una fase storica che, a mio parere, ha prodotto incrostazioni e depositi silenti nella società italiana, scarsamente affrontati ed elaborati con necessario senso critico. Una vera e propria rimozione, sovente con i contorni dell’autoassolvimento verso le nostre responsabilità.

I risultati di tale rimozione oggi sono sotto gli occhi di tutti. Il desiderio è poi divenuto approfondimento, ricerca spesso condotta attraverso i quotidiani dell’epoca: nonostante la censura generale, restano un formidabile strumento di conoscenza degli innumerevoli aspetti dell’Italia di allora.

Il lago di Garda, teatro della nascita della repubblica di Salò, è il cuore dell’ambientazione di “Giotto coraggio”. Pur non essendo il tuo luogo di origine, ci puoi raccontare in che misura conosci questo posto, quanto ti appartiene?

La mia affezione verso il Garda credo si colga in tutte le pagine di Giotto Coraggio ed è un voluto omaggio nei confronti di questa terra meravigliosa. Ho sposato una gardesana trapiantata in Romagna, e grazie a lei sin dal 1984 ho scoperto il lago, frequentato la sua famiglia madernese, respirato le comunità di paesini come Gardone, Bogliaco, Gargnano, ma anche del suo entroterra meno conosciuto. Ne ho studiato la storia per appropriarmene, come mi capita quando m’innamoro di un luogo sino ad adottarlo, aggiungerlo alle mie terre intime, tant’è che sin dal mio romanzo d’esordio – La quarta estata – presi le mosse proprio dal lago con l’idea di ritornarvi e scriverne.

In “Giotto coraggio” leggiamo dialoghi ed espressioni in vari dialetti e lingue, dal romagnolo, al bresciano al piemontese, e poi l’italiano, il francese e il tedesco. Quanto è stato impegnativo scrivere utilizzando un registro linguistico cosi vario? Ci sono stati dei passaggi in cui hai temuto di non essere compreso del tutto dal lettore?

Affascinato, ero affascinato dalla possibilità di creare un amalgama di varie lingue, idiomi e dialetti, e non ho fatto molta fatica a svilupparne dialoghi e intrecci lessicali. Col romagnolo di Giotto, poi, mi sono divertito – dovrei dire “spatacato” – poiché da tempo raccolgo questi coloriti modi di dire rappresentati dalle parole dialettali italianizzate. Una ricchezza espressiva prodigiosa, non presente in nessun dizionario, da recuperare e preservare nella sua unicità.

Qualche problema s’è posto nei dialoghi in lingua tedesca, ma l’esperienza di Agnese Manni, mia editor, mi ha indicato la miglior strada per proporne la traduzione senza appesantire il testo con rimandi a note a piè di pagina.

Andrea, già incontrata ne “La quarta estate”, è una donna molto coraggiosa e moderna, che compie delle scelte professionali, ideologiche e umane sorprendenti per l’epoca in cui vive: un medico donna che vuole adottare un bambino orfano, da sola. C’è qualcuno a cui ti sei ispirato per creare questo personaggio?

Non penso sia un segreto – ne accenno nelle mie presentazioni – che tutte le figure femminili su cui si sviluppano i miei romanzi sono un omaggio a mia madre e motivo di suo ricordo. Perché? Perché mia madre, persona dolcissima e ahimé fragilissima, ha avuto una vita breve e difficile, avvelenata da quella malattia oscura che è la depressione maggiore. Dall’età di dodici anni le sue vicende sono state la mia vita, ne hanno tracciato lo sviluppo, la familiarità con la sofferenza e il dolore.

Ho pensato così di creare donne forti come avrei voluto che lei fosse, ma anche perché sono convinto che da quegli anni, dall’opportunità offerta dalla Storia di affermare la parità dei diritti femminili attraverso il riscatto della Resistenza e delle resistenze personali, sia nata la forza d’oggi delle donne. Forza che fa paura ai maschi, almeno a giudicare dal ricorso purtroppo sempre più frequente alla violenza estrema.

Tra i protagonisti dei tuoi romanzi incontriamo dei bambini straordinari, che coinvolgono profondamente l’attenzione e il cuore di chi legge. Quali messaggi speri che siano arrivati ai lettori attraverso questi bambini?

Bambini e animali, aggiungo. Creature pulite, in grado di vedere e interpretare il mondo che li circonda con gli occhi della meraviglia e della spontaneità. Come siamo stati tutti, in quella fase magica della vita che è l’infanzia con i suoi semplici capisaldi. Quando chiedevano a Jerry Lewis come creasse i suoi personaggi, lui rispondeva “Non sono io, ma il bambino che è in me”. Ecco, cerco di non dimenticarmi del bambino che è in me e, scrivendone, vorrei che i lettori rammentassero il bambino che ciascuno serba in sé ma non ne ascolta più la voce.

In “Giotto coraggio” c’è una cravatta viola che ci rimane impressa: Giotto la indossa un giorno in cui nella sua vita avviene un fatto importante che lascia il segno per sempre. Nella tua vita di scrittore, ricordi un giorno in cui anche tu hai “indossato la cravatta” e tutto è cambiato per sempre?

Nel mio caso si chiama “capparella”, ed è un semplice mantello col colletto di pelo di coniglio, di antiche e povere tradizioni romagnole, che mi è stato posto sulle spalle quando sono stato nominato “tribuno di Romagna”. Una soddisfazione immensa, guadagnata unicamente con lo scrivere romanzi e gli elzeviri per il Resto del Carlino.

Quale è stata la gratificazione professionale o il premio che ricordi con maggior entusiasmo?

La vincita del premio Massarosa Giuria Popolare, nel 2016, con La quarta estate. Fu un finale al cardiopalmo, vinta per un solo voto sul romanzo d’esordio di Mirko Zilahy. Lì, esordiente a sessant’anni, compresi come lo scrivere avrebbe dettato la mia vita futura: quello scrivere che avevo sempre rimandato se non tradito.

Se hai già in mente un nuovo romanzo per il futuro, ci possiamo aspettare di restare nell’epoca degli anni ’40 e magari ancora in compagnia di Giotto, o nei tuoi progetti ci sono cambiamenti di rotta e diverse epoche da approfondire?

Quando, alcuni anni fa, è scomparso mio padre, mi sono trovato a dover sgombrare in tempi ristretti le sue cose. Erano tante, perché aveva la sindrome del rigattiere e non buttava nulla. Per fortuna: ho trovato più di un centinaio di lettere che i miei genitori si scambiarono tra Lazio e Romagna, prima di sposarsi, negli anni dal ’47 al ‘54. Costruivano il loro futuro, ignorando che il destino o il caso avrebbero disposto diversamente. Ecco, m’è venuta voglia di scrivere delle loro vite, della loro storia che attraversa, dal 1932 al 1997, la storia di questo Paese. Storia che traccio, in minima parte, nella famiglia senza nome presente nel romanzo “Fiordicotone”: erano i miei nonni materni.

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