Cari lettori di Thriller storici e dintorni, vi portiamo in un luogo che oggi è abbandonato o comunque di difficile accesso se non interdetto, ma che in passato è stato teatro di grandi fatti storici e dove sono passati personaggi che con la Storia hanno avuto a che fare.
Andiamo in Sud America e precisamente nella Guyana Francese.
Ci addentriamo nell’Île du Diable, che insieme a Île Royale, Île Saint-Joseph compongono l’arcipelago Îles du Salut.
Tutto l’arcipelago fu l’esempio del fallimento coloniale francese: utilizzato come colonia agraria, divenne una tomba per migliaia di persone: nel giro di due anni dall’insediamento oltre 10.000 dei 12.000 coloni morirono di febbre gialla, dissenteria e altre malattie tropicali; le forti correnti marine impedivano od ostacolavano i collegamenti con il continente, rendendo così impossibile il rifornire l’isola di medicinali.
L’isola del Diavolo
L’Isola del Diavolo è la più piccola tra queste tre, impossibile da visitare – la si può sorvolare solo in elicottero e accontentarsi di vederla dall’alto – ma mantiene inalterata la sua sinistra fama.
Il nome di Isola del Diavolo venne dato nel 1763 dal governatore francese che si ispirò alle dicerie degli indigeni che credevano fosse abitata da uno spirito maligno. L’altissimo tasso di mortalità che si registrò in questa colonia francese (contrariamente al nome stesso dell’Arcipelago che, a quanto pare, di salutare non aveva proprio nulla!) rafforzò la diceria o la leggenda o l’idea che l’isola fosse maledetta. E secondo gli storici fu anche per questo che nel 1852 Napoleone III decise di trasformare l’isola in luogo di esilio, ed è rimasta tale fino al 1938.
Divenne luogo di sofferenza e di morte per oppositori politici, assassini, rivoltosi, spie e persone scomode che ben sapevano che una volta raggiunta l’isola le probabilità di uscirne vive erano pressoché nulle.
Il 30 maggio 1854 venne approvata una legge secondo la quale i detenuti dovevano restare nella Guyana Francese, dopo il loro rilascio, per un tempo uguale a quello passato ai lavori forzati; per coloro che avevano scontato pene superiori agli otto anni, la legge prevedeva che vi sarebbero dovuti rimanere per il resto della loro vita.
A questi prigionieri veniva assegnato un terreno in cui insediarsi. Con il tempo, i detenuti vennero divisi in diverse categorie a seconda del reato commesso o della pena da scontare.
Nel 1885 la legge venne ulteriormente inasprita: anche i condannati recidivi, pur se per reati minori, venivano spediti all’Isola del Diavolo. Nella prigione venne mandato anche un piccolo gruppo di donne, detenute in altre carceri, con l’intenzione che si sposassero con gli uomini liberati e costretti a restare in Guyana Francese. La pratica si rivelò piuttosto fallimentare e venne interrotta a partire dal 1907.
Il penitenziario aveva diverse strutture, ma al contrario di ciò che si potrebbe pensare, non necessitava di molte guardie: l’isola era un’intricata foresta piena di animali letali come ragni, piranha, formiche e serpenti; se poi qualche fortunato fosse riuscito a raggiungere la costa veniva ucciso dagli indigeni locali o divorato in acqua dagli squali che ancora oggi si affollano lungo le coste.
Dall’Isola del Diavolo (nome con cui poi si è identificato l’intero arcipelago) la fuga era praticamente impossibile e lo dimostrarono i soli 2.000 sopravvissuti su 80.000 prigionieri condannati ai lavori forzati dal governo francese. Un motto molto usato dai direttori e le guardie della intera colonia era:
Abbiamo due guardiani: la giungla e il mare; se non sarete mangiati dagli squali o le formiche non spolperanno le vostre ossa presto verrete a mendicare di tornare in cella!
Ma non è che in carcere si stesse meglio: i condannati erano sottoposti a torture e costrizioni inumane; dovevano restare nudi e le uniche cose che potevano indossare erano le scarpe e un cappello, immersi nell’acqua fino alla vita, con l’obbligo di tagliare ogni giorno un metro cubo di legno duro; se non ci riuscivano avrebbero ricevuto come cibo solo un tozzo di pane secco. Chi si ribellava o contestava le regole veniva trasferito sull’isola di Saint-Joseph, soprannominata dai detenuti “mangeuse d’homme”, la mangiatrice di uomini, dove veniva rinchiuso in celle di isolamento buie, senza finestre, non potevano parlare, nemmeno con le guardie che passavano loro il cibo attraverso piccoli pertugi, e sepolti vivi dentro celle prive di finestre, e dalla spesse porte di ferro, dove era destinato a morire di fame o per la pazzia. Ma c’era anche di peggio: per i criminali più problematici o quelli che riuscivano ad eludere la sorveglianza e scappare nella foresta (sempre che fossero nuovamente catturati vivi) c’erano le “Fosse dell’Orso”, ovvero dei pozzi di cemento chiusi da una griglia di ferro, dove i prigionieri venivano lasciati in balia del sole cocente, delle tempeste e soprattutto dei pipistrelli vampiro. Molti prigionieri, con le gambe incatenate ad una sbarra di ferro, sono stati lasciati nelle fetide celle dell’isola di Saint-Joseph fino alla morte.
Chi veniva incarcerato sull’isola di Saint-Joseph era cosciente che la sua vita stava volgendo al termine.
Nel 1938 il governo francese smise di mandare prigionieri al carcere dell’Isola del Diavolo, e nel 1952 la prigione chiuse definitivamente. La maggior parte di coloro che vi erano ancora detenuti scelsero di tornare in Europa, mentre una piccola minoranza decise di rimanere nella Guyana Francese.
Île du Diable, era talmente inaccessibile che per raggiungerla veniva utilizzato un sistema di corde e carrucole.
L’isola era riservata ai prigionieri politici; tra i tanti il più conosciuto è probabilmente Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di alto tradimento, che trascorse cinque anni (1895-1899) all’Isola del Diavolo in totale isolamento.
E in questo si insinua il dubbio che tale tipo di pena fosse la prima espressione di una politica altamente razzista (Dreyfus, lo ricordiamo, era ebreo, e le prove portate a sua colpevolezza chiaramente falsificate). Esiliare per sempre le persone indesiderabili era evidentemente lo scopo “eugenetico” del sistema giuridico francese.
Altri due detenuti, in tempi diversi, sono realmente riusciti a compiere un’impresa che metaforicamente si potrebbe definire un viaggio dall’inferno al paradiso: dall’Isola del Diavolo alla Città degli Angeli.
Charles De Rudio, René Belbenoit e Papillon
Charles De Rudio fu un nobile italiano, che negli anni del Risorgimento, si unì alla carboneria e partecipò ad un complotto per assassinare Napoleone III. Dopo essere stati scoperti, i quattro congiurati furono condannati a morte, ma per De Rudio e un altro cospiratore la pena fu commutata in ergastolo; nel 1858 fu deportato, insieme ad altri 200 detenuti, nella colonia penale della Cayenne.
Dopo aver trascorso un po’ di tempo ai lavori forzati sulla terraferma, De Rudio fu mandato all’Île Royale, da cui riuscì ad evadere nel 1859, al secondo tentativo. Insieme ad altri detenuti, De Rudio riuscì ad impossessarsi della barca di alcuni pescatori, e dopo molte peripezie arrivò nella Guyana britannica. L’impresa aveva dell’incredibile: i fuggiaschi avevano navigato su un piccolo battello per quasi mille miglia, senza nulla da mangiare né da bere. Considerati come prigionieri politici, furono bene accolti dagli Inglesi. In seguito De Rudio si trasferì negli Stati Uniti, dove si arruolò nell’esercito, continuando a vivere numerose avventure
René Beblbonoit, invece, è ricordato per aver scritto anche un libro sulle sue esperienze nella colonia penale, “Ghigliottina Secca”, che quando uscì, nel 1938, non solo divenne un best-seller, ma fu anche il primo seme che fece crescere l’indignazione del mondo nei confronti del regime carcerario della Cayenne.
Alla fine della 1° guerra mondiale, dopo aver combattuto con onore nell’esercito francese, Belbenoit fu arrestato per furto, e condannato a otto anni di lavori forzati nella Guyana. All’epoca era in vigore la cosiddetta legge del doppiaggio: alla fine della pena ogni detenuto, prima di tornare in Francia, doveva trascorrere un uguale numero di anni sul territorio della Guyana, ma se la condanna superava gli otto anni, era obbligato a rimanervi per tutta la vita.
Belbenoit arrivò nella Guyana francese il 23 giugno 1923, era il detenuto numero 46.635: tanti ne erano fino ad allora arrivati dal 1852, anno di apertura della colonia penale. Le sofferenze patite da Belbenoit durante gli anni trascorsi in Guyana sono raccapriccianti, ma nonostante le malattie, la fame, le torture, lui non si arrese mai: riuscì a scrivere delle memorie che vendette, mentre era ancora detenuto, ad una coppia di giornalisti americani arrivati a visitare la colonia, Robert e Blair Niles. Sulla base di queste memorie, la Niles scrisse una storia romanzata “Condemned to Devil’s Island”, che poi ispirò il film del 1929.
Dopo svariati tentativi di evasione, mai riusciti, Belbenoit, nel 1930, arrivò alla fine della sua condanna, ma non poteva comunque lasciare la Guyana Francese. Grazie alla benevolenza del governatore, ebbe il permesso di allontanarsi per un anno, allo scopo di dimostrare di potersi guadagnare da vivere onestamente, e ottenere la libertà permanente. Dopo aver trascorso un anno a Panama, lavorando come giardiniere, Belbenoit scoprì che il governatore era cambiato, e sarebbe dovuto tornare in Guyana per sempre. Decise di partire comunque per la Francia, per ottenere giustizia, ma al suo arrivo fu arrestato e rispedito alla colonia penale. Era il 7 ottobre 1932.
Dopo aver trascorso due anni in isolamento, gli fu consentito di tornare sulla terraferma come “detenuto libero”. Insieme ad altri cinque compagni di sventura, Belbenoit riuscì ad acquistare una canoa, con la quale presero il mare, diretti verso Trinidad. Dopo 14 giorni di navigazione, e quasi 700 miglia percorse, gli uomini ormai disperati raggiunsero l’isola, ma non la la salvezza: gli Stati Uniti erano la meta finale. Tutti i suoi compagni furono catturati, solo Belbenoit, dopo incredibili avventure, tra cui una permanenza di sette mesi con gli indiani Kuna, alla fine, attraversando Costa Rica, Nicaragua, Honduras, El Salvador, riuscì ad imbarcarsi clandestinamente su una nave da carico che lo fece arrivare a Los Angeles. Era l’11 giugno 1937.
Ma se questi nomi forse non vi dicono nulla, qualcosa in più di sicuro vi dirà il nome Papillon (per via di una farfalla tatuata sul petto), al secolo Henri Carriere, condannato nel 1931 ai lavori forzati per un omicidio, del quale si proclamò sempre innocente, fu imprigionato nel bagno penale della Guyana Francese, dalla quale tentò numerose fughe dai risvolti drammatici. Carriere passò 13 anni sull’Isola del Diavolo e prima di riuscirci provò ben 9 volte la fuga (la prima dopo appena – si fa per dire – 42 giorni dopo essere arrivato sull’isola del Diavolo), sempre stroncata sul nascere. La volta buona fu durante una giornata di lavoro per raccogliere le noci di cocco per la colonia: l’uomo si gettò in un torrente e raggiunse la costa, poi con un sacco riempito con noci di cocco si gettò dalla scogliera e usò il contenuto per tenersi a galla mentre si lasciava trascinare dalle onde. Venne recuperato da un mercantile che lo portò in America e da lì fece perdere le sue tracce fino a quando la colonia penale non fu chiusa.
Se volete qualche riferimento letterario in cui visitare l’Isola del diavolo, vi lasciamo qualche titolo tra i più famosi
Il cimitero di Praga, Umberto Eco, 2010;
Il ventre di Parigi, Émile Zola, 1873;
L’ufficiale e la spia, Robert Harris, 2013