Narrativa recensioni

Il visconte che amava i gelsi di Renata Asquer

Recensione a cura di Laura Pitzalis

Un romanzo di poco più di un centinaio di pagine ambientato in Sardegna in un periodo tra la fine del’700 e i primi decenni dell’800, periodo storico molto travagliato e doloroso per il popolo sardo, ma anche poco conosciuto perché solo a volte citato nei libri di storia.

Il protagonista è il visconte Francesco Maria Asquer di Flumini, l’io narrante del romanzo, è lui che racconta la sua vita trascorsa tra battaglie, grandi ideali, amori e passione per la natura. E lo fa in una lunga lettera, quasi un memoriale, un testamento spirituale indirizzata al figlio maggiore.

In questo momento inizia a calare la sera, mi trovo nel mio studio e alla luce flebile della lampada a olio mi accingo a scrivere la prima delle pagine che dovranno comporre questa testimonianza, una sorta di diario più spirituale che biografico.”

Una rievocazione del passato, delle sue “tre vite”: la prima di giovane valoroso capitano militare e rappresentante politico degli Stamenti, (rami del Parlamento sardi), poi attivista in prima persona della Sarda Rivoluzione e prigioniero dei corsari turchi; la seconda di felice marito e padre; la terza della trasformazione in un tranquillo allevatore di bachi da seta, una metamorfosi, simile a quella dei bruchi, che sarà la sua rinascita.

Da un passato di aspirazione alla gloria, con l’illusione di un destino di eroismo, ecco che sono diventato poi un tranquillo allevatore di bachi da seta […] Col tempo però iniziavo a sentirmi più libero, come se uscissi anch’io a mo’ di bruco da un involucro che m’imprigionava, trasformandomi a poco a poco in un’altra persona …”

La parte più corposa e dinamica del romanzo è, senza dubbio, quella che ha come scenario la “Sarda Rivoluzione” dove Francesco Maria rievoca uno dei periodi più tumultuosi della storia della Sardegna, periodo rivoluzionario a cui partecipa in prima persona.

A questo punto vorrei aprire una parentesi storica per chiarire la situazione che regnava in Sardegna in quel periodo e lo faccio inserendo citazioni  del “memoriale” di Francesco Asquer  per rendere più realistico il contributo emozionale che va dall’ odio al coraggio, dall’esaltazione alla delusione, dall’orgoglio patriottico alla resilienza del popolo sardo.

La dominazione piemontese in Sardegna iniziò tra il 1718 e il 1720, quando Vittorio Amedeo II, Duca di Savoia, ricevette il Regno di Sardegna in cambio del Regno di Sicilia. Il trattamento che questi riservarono ai sardi, cancellando diritti da loro acquisiti con il precedente governo spagnolo come la partecipazione alla vita politica e alle attività in ambito amministrativo, generò un tale malcontento tra la popolazione da diffondere in tutta l’isola sentimenti rivoluzionari che ebbero il culmine nel triennio 1793-96 con la cosiddetta “Sarda Rivoluzione”.

Certamente eravamo tutti legati da una stessa mentalità rivoluzionaria che ci spingeva a lottare contro l’assolutismo sabaudo, la crudeltà delle loro condanne precedute da aberranti sistemi di tortura da antica inquisizione spagnola. In particolare, ci diventarono insopportabili le annose ingiustizie sociali perpetrate da molti feudatari a danno delle popolazioni delle campagne …”

Ma ciò che più di tutto rafforzò la consapevolezza dei Sardi della situazione inaccettabile in cui vivevano fu la decisa difesa opposta ai francesi quando, nel 1793, attaccarono la Sardegna lungo due linee, il Cagliaritano e l’arcipelago de La Maddalena. Resistenza organizzata dai nobili ed ecclesiastici sardi che a loro spese arruolarono e armarono miliziani e popolani al contrario di quella debole ed esitante dei capi militari piemontesi, incerti se arrendersi o no. Fu, quindi, grazie al popolo sardo che il piano di conquista francese fallì per cui, pensando di essere ricompensati dai piemontesi per la loro lealtà, inoltrarono al re Vittorio Amedeo II una petizione, “Le cinque domande”, chiedendo che venissero ripristinati i diritti che aveva abolito.

“… Fui scelto allora come capo di una delegazione stamentaria allo scopo di chiedere la firma da parte della Corona, da sottoscrivere alle famose “Cinque domande”. Vale a dire le nostre cinque richieste volte a riconoscere i diritti basilari del popolo sardo […] Purtroppo, il sovrano non aveva avuto neppure il coraggio e la lealtà di riceverci, dato che poi, al rientro a Cagliari, fu il Viceré il portavoce del suo rifiuto. La sfortunata spedizione con tutte le conseguenze al seguito aveva segnato l’inizio delle aperte ostilità …”

Il rifiuto del re e l’inizio di un’azione repressiva su larga scala del governo piemontese con l’arresto dei presunti capi rivoluzionari, 28 aprile 1794, accesero la miccia che scatenò la sommossa popolare, passata alla storia come “sa die de s’acciappa”, cioè il giorno della cattura: 514 funzionari piemontesi, insieme al viceré Vincenzo Balbiano furono rastrellati dai Cagliaritani, stanati negli uffici, nelle case e per le strade e condotti al porto di Cagliari per essere imbarcati e lasciare così definitivamente la Sardegna.

Intanto anche nel nord Sardegna le popolazioni del Logudoro e del sassarese erano in fermento per abolire il sistema feudale e avere condizioni più eque di lavoro. Alla fine del 1795, un esercito antifeudale di tremila contadini e braccianti (ma vi erano anche possidenti, sacerdoti, donne) guidato da Francesco Cilocco e Gioacchino Mundula assedia e si impossessa di Sassari.

Fu così che Giovanni Maria Angioy, nominato “Alternos” (rappresentante del viceré) e inviato a Sassari con pieni poteri civili, giudiziari e militari, tocca con mano l’esasperazione delle rivendicazioni, diventa partecipe del movimento popolare antifeudale che avrebbe dovuto sedare, decidendo di effettuare una marcia antifeudale e rivendicativa su Cagliari, 2 giugno 1796. Purtroppo, la marcia si arrestò a Oristano con il fallimento della spedizione e l’abbandono da parte dei suoi partigiani. Il 9 giugno il viceré, con l’emanazione di un proclama, privava il rivoluzionario sardo della carica di Alternos e poneva una taglia sulla sua testa.

All’Angioy non rimase che ripiegare su Sassari per poi lasciare la Sardegna e iniziare la lunga e travagliata esperienza dell’esilio che lo portò in Francia dove morì.

Una volta fuggiti da Cagliari e rifugiati a Parigi, gli esuli non smisero comunque di sognare una Sardegna indipendente, libera dai Savoia e sotto la protezione dei Francesi.   È appunto a tale proposito che, ripensando alla persona che ero allora, idealista e infervorata dagli stessi valori appartenenti all’amico giudice, da un bel po’ mi sto chiedendo se non abbia fallito nelle mie aspirazioni. O addirittura abbia peccato di codardia nel difendermi dalle accuse di elemento pericoloso per il governo, nello scrollarmi di dosso vigliaccamente le mie responsabilità. In ogni modo sono certo di non aver abbandonato, né mai rinnegato i miei ideali …

Fallì così la Sarda Rivoluzione, lasciando l’isola sotto la dominazione sabauda, ma non morì.

Nel 1812,(“Annus horribilis” per i sardi che diventerà proverbiale come “Su famini de s’annu doxi”, la fame dell’anno dodici), carestia, crisi economica ed epidemie contribuiscono a innescare la miccia di quella che fu l’ultima ribellione dei sardi contro il governo Piemontese.

Il piano dei rivoluzionari, che si riunivano in un podere in località Palabanda da cui il nome “la rivolta di Palabanda”, consisteva nell’organizzare un’insurrezione nella notte tra il 30 e 31 ottobre 1812. Ma la notizia della cospirazione arrivò al re Vittorio Emanuele I, che si trovava a Cagliari in quanto il Piemonte era occupato dai francesi, che allertò i militari ai suoi ordini facendo arrestare quasi tutti i protagonisti della rivolta.

La cosiddetta congiura repubblicana di Palabanda fallì prima ancora di iniziare […] La verità circa quella sera fatale del 30 ottobre 1812 comunque non venne mai a galla e numerosi misteri rimasero irrisolti. Di sicuro, una parte di responsabilità si può addebitare agli immancabili intrighi di corte, alle immancabili fughe di notizie, ai tradimenti di persone rimaste ignote […] Quando oramai la faccenda si concluse con la reclusione di molti dei patrioti sottoposti a tortura, incarcerati e infine condannati a morte, io stesso venni interrogato a lungo. Alla fine per fortuna ancora una volta riuscii a salvarmi, grazie alla mia presenza abbastanza marginale nel gruppo e soprattutto all’eroica fedeltà di alcuni amici che mai vollero dichiarare il mio coinvolgimento sopportando indicibili sofferenze fisiche …”

Un romanzo storico ma anche di formazione reso “vivo” dalla scelta di Renata Asquer di scegliere come tecnica narrativa la prima persona. Il protagonista, in questo modo, racconta eventi successi tempo prima e le rivede alla luce dell’esperienze maturate con il passare del tempo. Non solo. L’autrice costruisce il romanzo filtrando le vicende attraverso il “tempo misto”, passato, presente, futuro con una duplice prospettiva: il Francesco Maria Asquer protagonista e il vecchio Francesco Maria Asquer narratore che riflette sulle proprie vicende passate.

Nel romanzo Francesco Maria inizia a scrivere la sua lunga lettera seguendo non una cronologia ordinata ma il libero flusso dei ricordi, cosa che all’inizio, personalmente, mi ha un po’ disorientato. Renata Asquer ha in questo modo sviluppato la narrazione su diversi piani: quello presente, il Francesco Maria che scrive e giudica, e il passato recente e remoto, il “vissuto” di Francesco Maria, proiettandosi anche nel futuro. Tutto questo con uno stile narrativo fluido che scorre veloce fino ad un finale che ci sorprenderà.

PRO

Sicuramente il fatto di aver dato risalto a un periodo storico poco conosciuto ma molto importante per il popolo sardo anche se dal finale amaro. E ai suoi grandi protagonisti come Giovanni Maria Angioj, Gerolamo Pitzolo che a molti, purtroppo, qui in Sardegna richiamano solo il nome di alcune vie cittadine …

CONTRO

Forse per alcune citazioni in sardo e per alcuni nomi istituzionali, come Alternos, Stamenti, si sarebbe dovuto, magari con una nota, spiegare il significato per quelli non addentro alla storia sarda.

SINOSSI

Protagonista di una stagione di rivolgimenti politici a cavallo tra la fine del Settecento e il principio del XIX secolo, il visconte Francesco Asquer di Flumini, giunto quasi alla fine dei suoi giorni, decide di lasciare una lunga lettera al figlio maggiore, da leggere come un testamento spirituale. La sua esistenza, fatta di politica, amori appassionati, conduzione dei propri affari viene di volta in volta contrassegnata dai grandi e piccoli avvenimenti della storia, dalla Rivoluzione francese all’epidemia di vaiolo che devasta la Sardegna, dalla rivolta di Palabanda alla carestia del 1812. Sospettato di giacobinismo, inviso a certi ambienti di corte, Francesco Asquer coltiva anche una viscerale passione per la campagna e per i gelsi, introducendo nella sua attività di bachicoltore tecniche innovative e moderne. E sarà proprio in questo piccolo universo dominato dalla natura che il visconte cercherà di raccogliere le proprie idee per trasmettere alle generazioni future il senso di una esistenza spesa al servizio della patria e della famiglia.

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