Recensione di Matteo Palli
L’antico Egitto è sempre stato un mondo molto intrigante e capace di appassionare non solo gli storici. La fortuna è legata probabilmente alle tantissime fonti e i manufatti arrivati ai giorni nostri che ci hanno permesso di cercare di capire un universo meraviglioso. Senza ovviamente parlare dei monumenti bellissimi ancora esistenti e ottimamente conservati.
Fatta questa banale premessa occorre distinguere però tra chi (come me) è un appassionato e curioso lettore di tale periodo storico e chi (come l’autore di questo romanzo) conosce molto bene tale mondo e ha la capacità di renderci partecipi delle sue conoscenze.
Quanto detto emerge fin dalle prime pagine…
Riccardo Sciuto sa di cosa parla e abbina le nozioni dello storico di razza alle capacità del romanziere.
In alcuni passaggi il racconto assume quasi un ruolo secondario rispetto a quanto ci vuole illustrare di quel fantastico e misterioso mondo. Forse troppo in alcuni passaggi? Per me no. Non l’ho trovato pesante e credo che la ricostruzione attenta e colta di luoghi, tradizioni, usanze, fino al modo di pensare dei protagonisti, arricchisca il testo (al pari delle tante note inserite che ho letto con piacere scoprendo cose a me precedentemente sconosciute). Posso pensare però che qualche lettore più ferrato possa gradire meno le divagazioni presenti, che per qualche secondo allontano dalla storia. Particolare cura è data alla imponente sacralità dell’antico Egitto, curata in modo maniacale dall’autore, con le storie o meglio le leggende che si intersecano sovente nel racconto.
“Al termine del banchetto, fece portare una cassa preziosissima, in legno d’ebano incrostata di oro, argento, elettro, pietre preziose e perle, dicendo che ne avrebbe fatto dono a colui che fosse riuscito ad entrarci dentro, in quanto chi vi fosse riuscito sarebbe stato colui in possesso delle misure perfette. In realtà la cassa era stata modellata a misura di Osiride. Tutti gli dèi tentarono di aggiudicarsi il ricco premio, ma nessuno riusciva ad entrarci perfettamente, vuoi perché troppo alto o troppo basso, troppo grasso o troppo magro. Da ultimo tentò Osiride, che entrò perfettamente nella cassa. In quel momento fecero irruzione i congiurati, che abbassarono il coperchio, saldandolo con chiodi e piombo e buttarono la cassa, ormai rivelatasi nella sua reale natura di bara, nel fiume, facendo annegare Osiride.”
La prosa è scorrevole e il libro non stanca mai.
La storia ha il taglio del thriller con il brillante protagonista Rekhmiré che si trova a indagare su alcuni eventi, in virtù del suo ruolo di amministratore della giustizia. Inutile dire che si imbatterà in qualcosa di importante e che si dovrà scontrare con personaggi profondamente malvagi e corrotti.
“Occorre sempre un altro uomo, che sappia mettere a nudo il meglio o il peggio di cui ognuno è capace, estraendolo dal profondo dell’animo. Ecco Pepitamon non è certo un maestro che impartisce buoni insegnamenti. Assomiglia al malvagio serpente Apopi e gode nel lusingare i suoi ospiti e nel metterli in condizione di perdere ogni tipo di freno e compiere azioni vergognose che, se non avessero avuto così accessibile occasione, non avrebbero mai compiuto in condizioni normali. “
Cosa è che spinge l’animo del giovane?
La sua voglia di giustizia e soprattutto di verità, diventano gli elementi trainanti della storia, forse anche in modo maggiore rispetto agli eventi che si susseguono.
E dietro la risposta a tale domanda, si cela secondo me l’anima del libro.
Rekhmiré è un personaggio moderno in un mondo arcaico. Non si ferma davanti alle apparenze, alle esasperate tradizioni, alle usanze anche barbare. Non gli interessa scomodare i poteri forti o farsi nemici importanti. Non è un amministratore della giustizia attento a cercare la soluzione più semplice e soprattutto la meno rischiosa, lui è un cercatore di giustizia, condannato quindi a scontrarsi con un mondo lento che lo vorrebbe immobile osservatore e non spregiudicato protagonista.
“Capisco che, anche per effetto della giovane età, il tuo spirito è imbevuto da principi di giustizia superiore ed eterna, ma rifletti bene, se ridicolizzi le attività compiute da coloro che esercitano l’autorità, mini dalle fondamenta l’autorità stessa. Il popolo bue ha bisogno di poche regole chiare e precise e soprattutto che non venga mai messa in discussione l’infallibilità di coloro che per nascita sono posti al vertice della piramide sociale.”
Affascinanti anche i personaggi che lo affiancano come il fedele assistente Paor e la giovane ancella Meryt. dotata di smisurata voglia di emanciparsi, di imparare a leggere per poter capire, conoscere ed evolversi rispetto al ruolo per lei designato.
Ho apprezzato molto la parte finale del romanzo quando l’autore si spoglia della leggerezza che aveva donato al racconto e affronta in modo profondo il tema della giustizia con analisi molto attuali capaci di elevare lo spessore del testo e regalare motivi di riflessione a tutto quanto appena letto. Contrappone norme rigide dettate unicamente per evitare l’anarchia e poter governare con fermezza, al buon senso del nostro protagonista, animato da ben più nobili (e moderni) dettami di giustizia ideale. Rekhmiré è totalmente fuori dal suo tempo, evoluto e spinto da ideali superiori. Questo è il suo grande pregio, ma potrebbe essere la sua condanna… Giustizia quindi non come elemento di libertà e di onestà, ma come imprescindibile clava per combattere il caos!
“Potrei dilungarmi per ore ad enumerare tutte le volte in cui alla necessaria, stretta, osservanza delle leggi, hai anteposto personali ed ardite interpretazioni su quello che, a tuo piacimento, sarebbe stato giusto e su quello che non lo sarebbe stato. Ma le tue malefatte possono essere racchiuse in un semplice e conciso concetto. Nell’esercizio dei poteri che ti sono stati attribuiti, al rispetto della concreta autorità del faraone, alla stretta ed indispensabile applicazione delle sue leggi, dettate per il corretto e ordinato svolgimento della vita in questa terra, hai sostituito la cieca obbedienza ad un ente supremo, il rispetto di concetti astratti immaginati in funzione un mondo ideale, ma non certo adatti ad affrontare la materiale quotidianità.”
Tra le tante cose apprese con questa colta lettura anche la circostanza cheRekhmiré, sia un personaggio realmente esistito e che le sue spoglie mortali, riposino ormai da tempo immemorabile nella tomba con sigla TT100 nella Valle dei Nobili a Luxor.
Concludendo posso dire di essermi divertito, di aver seguito con piacere lo scorrere delle pagine. Quando leggendo un thriller hai la voglia di arrivare in fondo e di conoscere la verità, credo che l’autore abbia ampiamente fatto il suo dovere.
“Io sono colui che è Amon all’alba, Ra a mezzodì e Temu al tramonto!“
Complimenti quindi a Riccardo Sciuto, esperto conoscitore del mondo egizio e abile narratore.
PRO
L’ambientazione affascinante, la scorrevolezza del testo, la ricchezza di informazioni e dettagli sul mondo Egizio, la conclusiva analisi sul significato della giustizia.
CONTRO
Forse non è originalissima la contrapposizione buoni/cattivi e la ricchezza di informazioni e dettagli sul mondo Egizio, sopra elencati come un pro, potrebbero forse apparire eccessivi per qualcuno.
Trama
Perché un povero guardiano di asini è stato condannato a morte per la violazione di una tomba anche se non vi sono prove certe della sua colpevolezza? E perché tre giovanissime inservienti del tempio di Osiride sono misteriosamente scomparse? Rekhmiré il giovane ed inesperto funzionario inviato dal Visir ad amministrare giustizia nel lontano distretto di Abido si trova a dover affrontare una serie di enigmi malgrado il rapporto conflittuale che fin da subito lo vede contrapposto alle due principali cariche del distretto di Abido, Pepitamon il governatore e Khety il gran sacerdote del tempio. Guidato da un profondo senso di giustizia, Rekhmirè non solo riesce a risolvere gli enigmi con una serie di incalzanti deduzioni, ma riesce a scoprire il tenebroso intrigo che ne è alla base.