Recensione a cura di Laura Pitzalis
Questo saggio di Francesca Cappelletti edito Mondadori mi ha letteralmente affascinato nonostante la mia poca inclinazione per il genere saggistico. È un libro particolare e importante che ci parla di ritratti e, attraverso l’arte, ci racconta delle storie intrecciando insieme conoscenza storica, ricerca degli svolgimenti sociali e politici con una importante valutazione della disparità di genere. La sua è un’analisi attenta, meticolosa, indagatrice. Una sorta di ritratto nel ritratto.
“Le Belle”, chi sono? Per comprenderlo bisogna spostarci con l’immaginazione in una stanza del Palazzo Chigi di Ariccia, la “stanza delle belle”, appunto.
“Le Belle” era la definizione che si dava alla fine del ‘600 a una serie di ritratti di donne contemporanee molto importanti, tutte delle stesse dimensioni che coprivano quasi le pareti di una stanza, eseguiti da un unico artista, Jacob Ferdinand Voet, artista olandese, noto a Roma come “Ferdinando dei ritratti”. Punto di riferimento imprescindibile per i ritratti femminili dell’aristocrazia romana a metà del Seicento, a un certo punto nel 1678 Ferdinando viene cacciato da Roma, probabilmente per un rapporto un pochino troppo confidenziale che aveva instaurato con alcune delle sue modelle e perché la sua bottega probabilmente non era solo il luogo dove dame e cavalieri s’incontravano per acquistare i dipinti.
Le protagoniste della serie sono le donne di Roma più in vista dell’epoca, tutte rappresentanti delle famiglie aristocratiche romane come per esempio le sorelle Mancini, Maria e Ortensia, nipoti del cardinale Giulio Mazzarino, che avevano passato la loro vita fra intrighi diplomatici e amorosi nelle le corti francesi e quelle italiane.
“… tratta di Maria Mancini e delle sue sorelle, in particolare Ortensia, nipoti del cardinale. Sottovalutandone il carattere e l’indipendenza di spirito, lo zio tentò di inserirle nelle sue manovre politiche e in una complessa strategia familiare e politica. Costituiranno invece per lui un costante impegno nel recupero di situazioni spesso catastrofiche in cui la loro bellezza e la loro leggerezza, forse da interpretare come un’inconsapevole aspirazione alla libertà, le conducono di volta in volta.”
Parlando di ritratti la Cappelletti fa un excursus proprio sulla sua origine, riprendendo un racconto di Plinio il Vecchio nella sua opera Naturalis Historia:
“La notte prima del viaggio del suo amato, la ragazza avrebbe avvicinato la fiamma al volto di lui proiettandone i contorni sul muro, e li avrebbe ripassati per fissare l’immagine, poi trasformata in un modello di argilla dal padre. L’episodio segna la nascita del ritratto e, elemento da non trascurare, del disegno e della sua potenza rappresentativa.”
Quindi il ritratto ha una fortissimo legame con la memoria, ritrarre significa far “vivere” più a lungo la persona ritratta. La pittura, l’arte figurativa con la scultura, sono arti in grado di sconfiggere il tempo e la natura: se l’essere umano muore, la sua immagine, e di conseguenza tutto quello che le sue azioni hanno rappresentato, continua a vivere grazie all’opera d’arte.
Un altro legame importante del ritratto e della pittura è con l’amore che la Cappelletti per tutto il libro sottolinea come un tema importante. Non manca in tal senso un riferimento al mito di Pigmalione, che realizza un ritratto così somigliante di una fanciulla da innamorarsene, e al racconto di Plinio sulla analoga vicenda del pittore Apelle al quale fu chiesto da Alessandro il Grande di ritrarre la sua amata, la bellissima schiava Campaspe, e durante l’esecuzione del ritratto i due s’innamorarono.
Il tema del ritratto, spiega l’autrice, è sempre legato al tema dell’amata o dell’amato. Sappiamo che la maggior parte dei ritratti del Rinascimento, anche quelli non di serie, avessero un carattere di destinazione matrimoniale o fossero ritratti di fidanzamento, quindi, è sempre un po’ difficile scindere questo aspetto dell’amore da quello dell’esecuzione del ritratto, dalle finalità almeno dell’esecuzione del ritratto.
Collegato alla modalità rappresentativa del ritratto, anche il concetto di “rassomiglianza” dell’opera con il soggetto rappresentato e di “riconoscibilità”. Essenziali, infatti, erano gli oggetti e tutto quello che c’era intorno alla persona protagonista del ritratto perché ne definisce il suo ruolo, la sua vita, la sua educazione, la sua posizione sociale. Un musicista veniva ritratto con il suo strumento; principi, papi e cardinali con le loro vesti regali, accompagnate da gestualità e atteggiamenti che ne esprimevano il potere.
Se ritorniamo ai ritratti delle “Belle” di Palazzo Chigi, possiamo notare che in questi dipinti non vi è nulla di tutto ciò, ognuna di loro sembra avere a disposizione, per raccontarsi, solo il proprio volto, non sono rappresentate né ambientazione né oggetti. Sono tutte quante raffigurate senza le mani cioè in un formato che esclude l’esecuzione di molta parte del corpo, con dei vestiti che erano molto importanti e lussuosi, con dei gioielli e una pettinatura “a boccoli”, sicuramente alla moda dell’epoca perché sono quasi tutte pettinate nello stesso modo.
Forse guardando queste Belle le potreste trovare, come me, non così bellissime, ovviamente perché il concetto di bellezza cambia nel tempo. Inoltre, sottolinea la Cappelletti, gli artisti non riproducevano solo l’effimero della donna ma ne coglievano l’anima, la raccontavano, donando loro quel “quid” che affascinava. Ma non solo. Le Belle probabilmente anche in questo caso si riferivano a un concetto più ampio, donne che erano diventate famose e certamente alcune per la loro bellezza ma anche per la possibilità di rappresentare il potere che ne aveva connotato la presenza nella fitta “trama di strategie che portava all’affermazione di una famiglia sulla scena della corte, attraverso matrimoni, alleanze, concessioni di favori, e che ha fatto parlare recentemente di nepotismo al femminile”.
Questa serie delle “Belle”, anzi più correttamente quello che resta di questa serie dopo varie traversie, sta ancora nel Palazzo Chigi di Ariccia. È quella che creò la moda delle varie serie delle belle che poi tutte le famiglie romane più importanti, e non solo romane, acquisirono con degli inserimenti.
Ma questa serie non è la prima, ha numerosi precedenti in quanto già verso la fine del Cinquecento, nelle collezioni più importanti, da quella dei Farnese e del cardinale Pietro Aldobrandini fino a quella dei Borghese, si potevano trovare ritratti femminili collocati in altrettante stanze, le cosiddette “Stanze delle Veneri”, della cui esistenza come nucleo collezionistico possiamo trovare negli inventari dell’epoca perché nessuna è arrivata a noi come “serie”.
In questi camerini delle Veneri i ritratti delle più belle donne del ‘500 vengono accostati alle favole mitologiche: non solo un tributo a Venere come dea dell’amore, ma anche alle protagoniste dei miti raccontati da Ovidio.
Erano stanze privatissime dove le dame, non si sa quanto in maniera consenziente, venivano ritratte tra il mitologico e l’erotico, con pochi abiti o del tutto nude.
Dimostrativo di ciò, un dipinto su tutti: “La pesca del corallo” di Jacopo Zucchi, presente nella collezione romana di Ferdinando de’Medici.
Al centro del dipinto nei panni di Anfitrite, sposa del dio del mare Poseidone, è raffigurata Clelia Farnese, donna in vista all’epoca per essere molto bella ma anche molto potente e perché figlia naturale del cardinale Alessandro Farnese. E la sua bellezza a volte è una condanna: in quanto figlia del “Gran Cardinale” le era proibito affacciarsi alla finestra e in certi periodi, quando il padre era in odore di soglio pontificio, veniva addirittura allontanata da Roma perché un po’ scomoda.
È facile riconoscere in questo dipinto il viso e persino l’acconciatura di Clelia comparandoli con il suo celebre ritratto di Palazzo Barberini ad opera sempre di Jacopo Zucchi.
Una riflessione che Francesca Cappelletti fa nel suo saggio è sui cambiamenti del ritratto femminile, sul ruolo di alcune donne e sulla capacità di queste di costruirsi attraverso un ritratto una identità con la quale presentarsi e venire accettate dalla società. E chi più delle pittrici che facevano un mestiere tipicamente maschile avevano questa necessità? La Cappelletti ne ricorda due Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi che hanno costruito la loro identità in maniera molto diversa come si può riscontrare da questi due autoritratti.
Lavinia Fontana si è ritratta con uno sguardo, rivolto verso chi è davanti al quadro, che sembra dire “io sono quella che vedi”. Estremamente elegante, compita, raffinata, sta suonando la spinetta, perché suonare uno strumento, uno strumento che oltretutto implicava un lavoro intellettuale, un lavoro di lettura, ne sottolinea la cultura e il livello sociale della famiglia.
Artemisia Gentileschi in questo autoritratto si identifica come Pittura, lei stessa è la pittura e si presenta esattamente con le caratteristiche che Cesare Ripa nel suo trattato “Iconologia” delinea per la rappresentazione della pittura, per cui è perfettamente riconoscibile.
La storia di Artemisia è molto nota ma il fatto che la sua affermazione come pittrice in Europa l’avesse messa a riparo non solo dai pettegolezzi ma anche dagli insulti sulla sua vita privata, il fatto che fosse una donna con una situazione personale sentimentale instabile e problematica fa riflettere su quanto Artemisia abbia dato rilievo al suo talento e al suo ruolo per conseguire la fama al posto della vergogna. E in questo autoritratto si vede tutta la forza e la passione che mette nel dipingere, nel fare il suo mestiere.
L’essenza di questo saggio è chiarissima, si parla sì di ritratti ma non è un libro sulla ritrattistica.
Un libro ricco di arte, storia, di vita di personaggi femminili alle quali l’autrice dedica pagine suggestive, storiografiche e di non banale letteratura. E lo fa partendo dalle immagini per poi addentrarsi ad accennare la vita e le azioni di alcuni di questi personaggi, non una intera vita ma solo quei cenni di vita legati a al momento che l’immagine rende più evidente. E in questo modo Francesca Cappelletti ci invita a riflettere
“sulle metamorfosi del ritratto femminile, ma anche sul ruolo di alcune donne, sulla loro capacità di mettere in scena se stesse, di creare un personaggio in grado di autorappresentarsi e di generare forme di ritratto”.
Meraviglioso!
PRO
Un libro che non parla solo di storia dell’arte parla di donne ritratte che hanno fatto la storia come Clelia Farnese, la regina Cristina di Svezia, (regina senza regno è lei stessa esempio d’identità instabile, donna che affascina tutti per la sua cultura. Ma essere uniche a volte vuol dire anche essere molto sole), Maria e Olimpia Mancini, Olimpia Maidalchini e Olimpia Aldobrandini, (protagoniste del regno di Innocenzo X avevano determinato le sorti non solo del proprio casato ma addirittura del pontificato), di donne artiste come Lavinia Fontana o Artemisia Gentileschi e delle loro battaglie per affermarsi tra maldicenze, processi, prevaricazioni.
CONTRO
Ho messo più tempo a cercare e confrontare i numerosi dipinti citati che non a leggere il libro. Ma ne è valsa la pena.
Sinossi
Nella seconda metà del Seicento, nei più importanti palazzi nobiliari, intere stanze erano destinate a ospitare i ritratti delle «donne famose» del tempo, quasi a catalogarle. Dame contemporanee, influenti personaggi di corte o bellezze leggendarie la cui fama si diffondeva velocemente fra i circoli dell’aristocrazia europea. Mogli di principi o future madri di cardinali, anelli fondamentali di alleanze politiche e pedine insostituibili di complesse strategie familiari. Personaggi celebri per la loro bellezza, spesso all’origine di passioni incoercibili e di eventi drammatici. Queste tele, note come «le Belle», popolavano le maggiori collezioni italiane ed europee. Una moda che aveva precedenti illustri e che Francesca Cappelletti racconta con appassionata ammirazione e competenza in queste pagine. Un affascinante viaggio che ci accompagna nelle camere dedicate ai ritratti femminili della cinquecentesca collezione Farnese, o in quella del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, passando per le «Stanze delle Veneri», allestimenti fra il mitologico e il licenzioso in cui erano esposti capolavori della pittura rinascimentale raffiguranti le dee e le eroine delle favole antiche, in un tributo non solo a Venere, dea dell’amore, ma anche alle grazie delle protagoniste, spesso sfortunate, dei miti ovidiani.