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Historic travel reporter – Il museo Gypsotheca Antonio Canova di Possagno

Prosegue la rubrica estiva alla scoperta delle meraviglie del nostro Paese. Oggi Laura Pitzalis ci porta a conoscere il Museo Gypsotheca Antonio Canova di Possagno.

Articolo a cura di Laura Pitzalis

Amo viaggiare, adoro la vacanza on the road perché ogni passo che faccio mi sento emotivamente e piacevolmente sopraffatta da qualcosa di bello, desiderato, vissuto, goduto fino a fondo. Sono appena rientrata da un’esperienza vissuta nel nord Italia piena di sensazioni, emozioni, storie che in più di un’occasione mi hanno lasciata senza parole, come Possagno, un piccolo paese alle falde del massiccio del Grappa, che gode di fama internazionale non solo per aver dato i natali al grande Antonio Canova ma anche perché conserva una collezione d’arte unica al mondo di fondamentale importanza.

Per volere del fratellastro dello scultore, il vescovo Giovanni Battista Sartori, molti beni del Canova furono donati proprio al luogo natio, tra cui la casa dove nacque che conserva ancora la sua originalità ed espone oggi gli arredi originali e i dipinti dello scultore, sicuramente il luogo più adeguato a ritrovare affetti e simboli molto personali di Antonio Canova.

Ed è proprio qui che, addentrandomi in quelle sale, calpestando lo stesso pavimento calpestato dal Canova e grazie ad una guida che con la sua competenza lo ha reso reale tra di noi, ho scoperto non solo il Canova Artista le cui opere erano richieste da papi, regnanti, artisti e collezionisti, ma anche il Canova Uomo, persona mite e di profonda rettitudine morale che amava i semplici riti della quotidianità ma allo stesso tempo era capace di esporsi, dialogare e, ancor di più, tener testa ai grandi del mondo.

Una vita costellata di incredibili successi ma anche di insicurezze, che ancora oggi rendono la sua storia degna di essere esplorata e condivisa.

ANTONIO CANOVA ARTISTA

Figlio dello scalpellino Pietro Canova e di Angela Zardo, nacque il 1° novembre 1757 a Possagno. Il padre morì all’età di ventisei anni, quando Canova non ne aveva ancora compiuti quattro. La madre dopo poco tempo si risposò con Francesco Sartori e si trasferì a Crespano. Il piccolo Antonio, per espressa volontà del nonno paterno Pasino, rimase a vivere con lui. Pasino Canova era un uomo ruvido, abile scalpellino, capo mastro e scultore di discreta fama, che lo portò con sé nei luoghi di lavoro, non risparmiandogli mai la fatica del lavoro ma che per primo ne riconosce il raro talento. Antonio, infatti, già in giovane età dimostrò una naturale inclinazione per la scultura ed eseguiva piccole opere con l’argilla di Possagno. Ebbe un rapporto bellissimo con il nonno che gli fece da padre ma rimase in buonissimi rapporti anche con la nuova famiglia della madre soprattutto con il fratellastro, Giovanni Battista Sartori, che lo scultore considerò sempre come un fratello, sostenendone gli studi in seminario e accogliendolo poi nella propria casa romana. E lui lo seguì nei suoi nei suoi numerosi viaggi a Parigi, a Vienna e a Londra solo per citare gli esempi più prestigiosi: il Canova aveva il Sartori al suo fianco quando si recò a Londra nel 1815 a vedere i marmi ad opera di Lord Elgin, come pure a Parigi nel 1815 per il recupero del bottino di guerra napoleonico, formato da centinaia di capolavori d’arte italiani trafugati. Ne divenne il segretario amministrandone il patrimonio, catalogando le sue opere, curandone le pubblicazioni. Un rapporto molto stretto quello tra i due fratelli tanto che Canova lo nominò, alla sua morte, erede universale.

Ma torniamo al piccolo Antonio con un racconto frutto della fantasia dei posteri che hanno contribuito a tramandare la leggenda dell’artista.

Ha solo sette anni quando, calzoni corti e mano nella mano del nonno, varca la soglia dell’imponente villa del senatore veneziano Giovanni Falier, dove Pasino lavora come scultore per abbellirne il giardino. La situazione economica non è buona  e Antonio è costretto a lavorare come aiuto cuoco, nonostante la sua giovane età. È qui che il piccolo Canova, durante una cena di rappresentanza nella villa, sale alla ribalta delle cronache dando prova della sua abilità di scultore: scolpì un incredibile Leone di San Marco con tanto di ali spiegate in un panetto di burro, lasciando meravigliati tutti i commensali.

Il Falier intuita la capacità artistica del ragazzo lo avviò allo studio ed alla formazione professionale facendolo accogliere presso lo studio dello scultore Giuseppe Bernardi detto Torretti nella vicina Pagnano d’Asolo. Nell’autunno del 1768 Torretti fece ritorno nella sua bottega veneziana e il giovane Canova, all’età di soli 11 anni, lo seguì. Ma il nonno capì ben presto che al nipote serviva oltre che la pratica anche lo studio e vendette un piccolo terreno, il cui ricavato permise a Canova di lavorare solo metà giornata, dedicando l’altra metà all’istruzione frequentando l’Accademia di pittura e scultura a San Marco e studiando i calchi in gesso delle sculture antiche presenti nella collezione di Filippo Farsetti, esposta integralmente fino al 1800 nel palazzo veneziano, iniziando così il suo approccio all’arte classica.

Dopo aver lasciato lo studio del Torretti, avviò una propria bottega ed eseguì le prime opere che lo resero famoso: Orfeo ed Euridice (1776) e Dedalo e Icaro (1779) .

Vorrei soffermarmi un attimo su quest’ultima opera: il tema è quello mitologico, rappresenta Dedalo intento a sistemare al figlio Icaro le ali di cera che gli avrebbero permesso di fuggire dal labirinto in cui entrambi erano stati imprigionati. Se facciamo un po’ d’attenzione al viso di Dedalo, ci rendiamo conto che siamo al cospetto di una persona anziana, più un nonno che un padre. Canova con quest’opera ha voluto onorare una persona che ha sempre creduto nel suo talento, che ha sacrificato i suoi pochi beni nella sua formazione permettendogli di diventare il più grande scultore neoclassico, conosciuto e apprezzato a livello internazionale: nonno Pasino. Non solo, con i suoi primi guadagni ricomprò il terreno che il nonno aveva venduto per lui.

Nel 1779 intraprese un soggiorno di studio a Roma dove tornò definitivamente nel 1781, aprendo il suo laboratorio di scultura e iniziando una strepitosa carriera producendo le sue opere più belle e lavorando per sovrani, principi, papi ed imperatori di tutto il mondo.

ANTONIO CANOVA UOMO

Partito da Possagno senza istruzione né cultura, Canova divenne un uomo colto, parlava più lingue, amava i classici, che si faceva leggere mentre lavorava e apprezzava molto la musica.

Grande viaggiatore e raffinatissimo personaggio politico, seppe gestire diplomaticamente i suoi rapporti con imperatori, sovrani, ricchi collezionisti, non esitando di confrontarsi con i potenti dell’Europa “illuminata”.

Nel 1802 il pontefice lo nominò Ispettore generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa, carica che era stata di Raffaello e a cui Canova dedicherà tempo e risorse personali, curando l’allestimento delle antichità nel nuovo Museo Chiaramonti (dal 1806) e sollecitando una legge che impedisse l’esportazione di opere d’arte senza autorizzazione.

A lui fu affidata da papa Pio VII il gravoso compito della restituzione delle opere trafugate da Napoleone e trasferite a Parigi dopo il 1797. A lui va il merito di aver riportato in Italia nel 1815 i più grandi capolavori, frutto della genialità dell’arte italiana. Pio VII, per questa sua grande opera in difesa dell’arte italiana, gli conferì il titolo di Marchese d’Ischia, con un vitalizio di tremila scudi che egli volle elargire a sostegno delle accademie d’arte.

Sicuro di sé e delle proprie intenzioni, non accettò mai compromessi, rifiutò la richiesta moralistica di scolpire statue vestite e mentre le maggiori corti europee se lo contendono offrendogli cariche e commissioni, rifiuta il vitalizio offerto da Francesco II d’Austria in cambio della residenza veneziana così come non ottemperò l’offerta di Napoleone imperatore che esigeva la sua presenza a Parigi.

Il suo carattere rimase solidamente e onestamente sincero e libero, sempre.

Assai sottile l’intuizione, attribuita a Stendhal, che lo definisce “un operaio semplice di spirito che aveva ricevuto dal cielo un’anima bella e del genio

Era tra i cento personaggi più ricchi di Roma ma nello stesso tempo era generosissimo: mandava soldi alla famiglia a Possagno, sosteneva i giovani artisti che arrivavano a Roma in cerca di fortuna e donava tutte le onorificenze che rifiutava all’Accademia delle belle arti.

Nel corso della sua vita, inoltre, fece molte opere di beneficenza nei confronti dei possagnesi: con il denaro ricavato dalla vendita dell’opera le Tre Grazie istituì delle doti che permisero a molte giovani con difficoltà economiche di sposarsi; ancora, finanziò la costruzione di scuole a Possagno e nei paesi limitrofi.

Decise di finanziare completamente la costruzione della nuova chiesa parrocchiale di Possagno in sostituzione alla vecchia che mostrava segni di danneggiamento, chiedendo il sostegno dei possagnesi nel fornire i materiali necessari, quali calce, sassi e sabbione. Questi si dimostrarono entusiasti di partecipare fornendo quanto richiesto e rendendosi disponibili a lavorare di sera e durante i giorni festivi.

Lo scultore è raggiante quando l’11 luglio del 1819 alla presenza di tutti i cittadini viene posata la prima pietra del Tempio di Possagno del Canova. L’artista purtroppo non potrà  vedere mai il suo progetto realizzato perché venne a mancare il 13 ottobre del 1922 a Venezia. Sarà il fratellastro a portare a termine e a consacrare il Tempio dieci anni dopo, nel 1832, quel Giovanni Battista Sartori che ne condivide la tomba e il tempo dell’eternità così come accompagnò fedelmente in vita l’amato fratello.

LA GIPSOTHECA

È a Canova che spetta la capacità di aver assegnato un nuovo ruolo alla scultura, confrontandosi e superando gli antichi, è con lui che si assiste a una vera e propria razionalizzazione del processo della scultura in marmo, con la tecnica della “forma in gesso ad argilla persa”.

La scultura di marmo è una tra le forme artistiche più complesse, prevedendo la sua realizzazione una lavorazione di tipo sottrattivo: l’artista deve intervenire con scalpelli e martelli sul blocco di pietra, prima sbozzando a grandi linee i volumi, poi intervenendo con ceselli utili alla definizione dei particolari. Grande attenzione deve essere prestata a non togliere più di quanto necessario per non compromettere il pregio dell’opera, come importantissima è la scelta del marmo perché non si verifichino crepe e spaccature all’altezza delle venature.

Le statue canoviane, invece, non nascono dalla lavorazione diretta e intuitiva del marmo ma dopo un metodico e precisissimo studio, che consiste i quattro passaggi: disegno preparatorio, bozzetto in argilla, opera in gesso, opera definitiva in marmo di Carrara.

Il modello in gesso, in particolare , si realizzava con una colata di gesso molto sottile dal caratteristico colore rossastro, chiamato camicia, in un modello d’argilla. Sopra lo strato asciutto della camicia veniva gettato abbondante gesso, che una volta solidificato si spaccava a metà (attraverso delle tracce collocate precedentemente) e si svuotava dall’argilla contenuta nelle due parti che, naturalmente, andava persa. Le due estremità cave venivano riunite e veniva fatto un buco in cima alla scultura da cui si faceva colare del gesso liquido. Quando il gesso liquido, contenuto all’interno, si asciugava completamente si poteva iniziare a scolpire la superficie esterna del gesso sino ad arrivare alla camicia, lo strato rossastro della forma iniziale. Arrivare alla camicia significava arrivare alla figura madre. Per riportare tutte le forme appena realizzate nel blocco di marmo da scolpire, il gesso veniva puntellato con dei chiodini di bronzo, repère o repères che consentivano, con un apposito pantografo di trasferire le misure e le proporzioni dal gesso al marmo che nel frattempo era stato ampiamente “sbozzato” dai collaboratori.

L ’opera, quindi, veniva trasferita nella stanza di Canova per ricevere quella ch’egli stesso e i contemporanei chiamavano “l’ultima mano“: fase importantissima del lavoro esclusivamente riservata all’artista, che dava gli ultimi tocchi e poteva lavorarla indisturbato fino ad esserne pienamente soddisfatto.

Da ultimo interveniva il “lustratore” che, lavorandovi più giorni, conferiva al marmo una diafana lucentezza.

Per attuare tutto questo procedimento il Canova si serviva della collaborazione di molte persone anche perché molte erano le commissioni a cui lavorare contemporaneamente. Tutti nella bottega avevano un ruolo ben preciso, da chi doveva sbozzare il gesso a chi si occupava di sbozzare il marmo e tutti, cosa inedita a quei tempi, percepivano una paga.

Il Canova, quindi, non era solo un abile scultore, ma era un vero e proprio imprenditore di stesso! Conservando la scultura in gesso, quella in marmo poteva essere replicata nei minimi dettagli su richiesta. Il gesso, insomma, era una sorta di campionario, oltre che l’unica scultura realizzata interamente dalle mani dell’artista e, per alcuni, la vera e propria opera d’arte originale.

Tutti questi “modelli” erano stati, fino alla morte dell’artista, nel suo studio romano, un’officina straordinaria di bozzetti in terracotta, gessi di grande e piccolo formato, modelli, marmi , calchi delle opere spedite ai committenti. Fu proprio Giovanni Battista Sartori, alla morte del fratello, a far trasferire tutti i modelli in gesso dallo studio romano a Possagno e a donare al paese quell’incredibile patrimonio che oggi tutti noi possiamo ammirare nella GYPSOTHECA che oggi è una parte del Museo Canova insieme alla Casa Natale e la Biblioteca.

Assolutamente da visitare!

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