Narrativa recensioni

La fabbrica delle ragazze – Ilaria Rossetti

Recensione a cura di Serena Colombo

“Ricordo che dopo aver frugato molto attentamente dappertutto per trovare i corpi rimasti interi ci mettemmo a raccogliere i brandelli” (Ernest Hemingway – “I quarantanove racconti”)

Cosa c’entra Hemingway con il libro di cui vi racconto oggi? Lo scoprirete leggendo, e spero che lo facciate, non per me, né per il libro della Rossetti in sé, ma per la storia che contiene. La storia di 59 persone, in maggior parte donne, che in una Italia in guerra, morirono per la guerra. Perché in guerra non si moriva solo al fronte, sui campi di battaglia; in guerra non morivano solo gli uomini; non si moriva solo se si imbracciava un fucile. E perché la guerra quando finisce, non finisce per tutti.

Il 7 giugno 1918 a Castellazzo di Bollate, esplose la fabbrica di munizioni Sutter & Thévenot. Nella fabbrica lavoravano quasi esclusivamente donne – gli uomini erano quasi tutti reclutati – alcune giovanissime (anche 16 anni), moltissime figlie, sorelle, madri di contadini, famiglie cui quel lavoro serviva per andare avanti.

Tra loro, c’era Emilia Minora, la piscinina, unica figlia di Martino e Teresa, due contadini che il parroco della cittadina convince a impiegare nella fabbrica di munizioni: la paga era buona, le condizioni di lavoro anche.
Martino non è convinto, ma acconsente.
Ma Emilia, un giorno, non farà più ritorno a casa.
La fabbrica esplode, dicono per un ordigno caduto di mano a una lavoratrice, ma la realtà è altra, più amara, in paese si vocifera che qualcuno sa una verità più dura, più cattiva, sulle cui tracce si mette Teresa.
Mentre Martino coltiva una vita fatta di sogni, il sogno di una Emilia sopravvissuta, seppur ferita, ma viva.

Là, dove non è arrivata la pietà degli uomini, si è protesa quella del pensiero e delle parole, di un sogno meravi-glioso dove sua figlia continua a costruirsi una vita, a crescere, a invecchiare.

Il libro, davvero splendido, è costruito in maniera di per sé originale, andando a ritroso nel tempo, iniziando proprio dall’angoscia di questi due genitori senza più la loro unica figlia, che sono due facce di una stessa medaglia, due modi di affrontare e sopravvivere al loro lutto.

Se avessero conosciuto le parole per fare esistere quel dolore e condividerlo, avrebbero potuto girarsi sul fianco e guardarsi negli occhi. Se non altro per riconoscersi. Per sentirsi un po’ meno soli nelle notti tutte uguali. Ma Martino e Teresa Minora parlavano la lingua essenziale dei coltivi e delle bestie. Sapevano solo addormentarsi ognuno per conto proprio, in silenzio, sfiancati dall’angoscia.

Da qui si dipana la storia del paese, della fabbrica, di altre donne che da quella esplosione si sono salvate, del rancore e dell’astio di una madre verso un’altra madre; la storia della guerra, di chi la celebra e la onora in nome di un onore che pure ha disonorato, e chi l’ha disertata in nome di un amore a cui si era aggrappato per sopravvivere agli orrori di qualcosa in cui non ha mai creduto. E poi indietro ancora, fino al giorno dell’esplosione.

Il libro accende dunque un faro su queste vittime che la Storia, la politica, i poteri, la stampa dell’epoca hanno volutamente e troppo presto taciuto, perché la guerra doveva andare avanti, e con essa e per essa bisognava mantenere alto il morale. Ma vuole anche essere una denuncia per le tante e troppe morti sul lavoro che tuttora si registrano. E in tal senso le parole dell’autrice sono di rara bellezza e quantomai condivisibili:

Io non credo che la letteratura possa salvare qualcuno o qualcosa, penso che la letteratura in generale non debba fare proprio niente. Ma forse, almeno, possiamo guardare dentro i varchi che spalanca, dentro i conti che non ricompone, dentro il tempo che ristagna e insieme cessa di esistere, forse possiamo ricorrere alle parole per capire e preservare la complessità e l’umanità delle cose e della vita, per spogliare deridere distruggere tutti i miti assurdi e sanguinari che ci siamo costruiti.

Quella fabbrica fu rasa al suolo insieme al ricordo delle vittime. Per cento anni è rimasta nient’altro che una torre in un campo di erbacce. Poi, su quella torre un murales, splendido e significativo.
Solo uno ricordò questo fatto prima di Ilaria Rossetti: Hemingway – che pure compare nel libro. Da soldato, volontario della Croce Rossa, giovanissimo prestò soccorso in occasione dello scoppio della fabbrica di munizioni Sutter & Thévenot. E di quella tragedia ne scrisse nel racconto “Una storia naturale dei defunti” contenuto nel volume I quarantanove racconti pubblicato a New York nel 1938 e in Italia nel 1947.

Scrive l’autrice:

Le vittime della Sutter & Thévenot avevano trovato un po’ di dignità nella produzione letteraria di una delle più importanti voci del Novecento. Eppure, il fatto non sembrava aver prodotto in Italia alcuna risonanza.

Fino ad oggi, fino a questo splendido libro.

La prosa di Ilaria Rossetti è meravigliosa, colorata qua e là da qualche parola in dialetto, con punte poetiche di rara bellezza. Lo stile superbo, la costruzione originale, i personaggi principali – e non solo – ben delineati. Il contesto, nitido, abbraccia Storia, natura, sensazioni, rumori e colori della vita dell’epoca.
La lettura scorre, nonostante i dialoghi siano quasi pressoché assenti. Un libro che non consola, che fa arrabbiare, ma anche emozionare e angosciare. Un libro perfettamente riuscito.


pro

L’argomento trattato e la maniera anche delicata con cui lo affronta.

contro

Nessuno

Citazione preferita: La verità, dalle cose, riaffiorava sempre. Una pietra miracolosa che non va a fondo: a lanciarla ci si prova tutti, seguendo il tonfo nell’acqua e la certezza che stia precipitando verso gli abissi; eppure quella risale a poco a poco, contro le leggi della natura, fino a spuntare dalla superficie.

Trama
Al centro di questo romanzo ci sono le ragazze: con i capelli al vento di chi attraversa la campagna in bicicletta, con le guance scavate perché il cibo scarseggia ma gli occhi ardenti di chi ha tutta la vita davanti, con le dita sottili che sono perfette per costruire le munizioni. Infatti, durante la Prima guerra mondiale, la fabbrica Sutter & Thévenot sceglie proprio la campagna lombarda per installare, a Castellazzo di Bollate, uno degli stabilimenti dove centinaia di donne giovanissime fanno i turni per rifornire i soldati al fronte. E poi ci sono anche loro, i ragazzi, allontanati dalle famiglie e dal lavoro per andare a far carne da macello nelle trincee, con i cuori pieni di nostalgia e pronti ad accendersi quando arriva una cartolina vergata da una grafia femminile, come succede a Corrado che per amore arriva alla diserzione… Ma è il 1918, la Storia sta accelerando: è così che Emilia, la piscinìna, la mattina del 7 giugno saluta i genitori senza sapere se li rivedrà, perché una grave esplosione investirà la fabbrica causando decine di vittime, quasi tutte donne e bambine. La produzione però riprende subito, in tempo di guerra le vite umane contano ancora meno del solito. È così che Corrado e il padre di Emilia, Martino, con sua moglie Teresa dovranno accettare che la realtà è più dura dei sogni e il tempo scorre indifferente come il Seveso sotto il grande cielo. Con una lingua intensamente poetica e venata di dialetto senza mai indulgere nella maniera, Ilaria Rossetti racconta un episodio quasi dimenticato e più che mai attuale di lavoro femminile e morti bianche: prima di lei, fu Ernest Hemingway a parlarne in uno dei Quarantanove racconti. In queste pagine la storia vera dell’esplosione della fabbrica Sutter & Thévenot di Bollate, che uccise cinquantanove tra operai e operaie, da testimonianza si fa romanzo e attraverso le voci di tante piccole vite non smette di chiederci ascolto.

Per approfondire:
La fabbrica dimentica

Che ne pensi di questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.