Articolo a cura di Giuliano Conconi
Verzeni è una belva, e non può essere sottoposto al giudizio dell’uomo.
1879, Regno d’Italia, Lombardia.
La formula di rito riecheggia per l’ampia aula di tribunale.
Tutti gli occhi si volgono all’unisono in direzione dell’accusato.
Il giovane si alza in piedi: è biondo, dai lineamenti delicati, di aspetto gradevole. Le labbra strette in una smorfia, sotto i baffetti chiari. Veste alla contadina, ma in modo tutto sommato curato. Una persona dall’aria comune, anche piacente, se non fosse per quegli occhi torvi.
«Per prima cosa, permettetemi di ringraziarvi» esordisce Vincenzo Verzeni tra il brusio degli ascoltatori.
«Grazie, grazie di cuore per avermi fermato. Io, da solo, non avrei mai smesso. È qualcosa di più forte della mia volontà, è un bisogno del mio corpo e della mia mente. Sono stato io: ho veramente ucciso quelle donne che avete prima nominato, e sempre io ho aggredito le altre. Mi piace stringere il collo delle femmine tra le mie mani, provo un piacere immenso, una grande goduria. Mentre lo faccio mi vengono erezioni e sento un vero e proprio piacere sessuale. Ma non come con la masturbazione. Qualcosa di più… come posso spiegarvi… di più inteso, ecco. Il massimo l’ho raggiunto bevendo il sangue della Motta e prendendole in mano gli intestini per annusarli e toccarli. Invece i genitali non mi interessano granché, non ho mai dedicato attenzioni particolari a quelle parti lì.
«All’inizio, vedete, mi bastava il gesto. Per questo non ho ucciso mia cugina Marianna né le altre ragazze. Mi placavo, godevo non appena le vedevo iniziare a soffocare, così dolci e inermi tra le mie forti mani. Credete che se avessi voluto ammazzarle le avrei fatte fuggire? Ma per favore! Il guaio, dovete sapere, è che col tempo non mi bastò più comportarmi così. Le prime volte erano sufficienti pochi secondi, poi un minuto, infine le donne mi morivano tra le dita. Per quello sono tornato l’altra sera dalla Maria, perché volevo stringerle ancora il collo, questa volta per più tempo della volta scorsa. Poi ho notato che avevo voglia di morderle: non sono graffi prodotti dalle unghie i segni sulle cosce ma morsi lasciati dai miei denti. Trovo sommo piacere a incidere le carni e far colare fuori il sangue. Lo succhio… lo lecco, mi piace da impazzire. Che gusto! Sì, indubbiamente un gran gusto. Non sono un maniaco, non ho mai pensato di violare il sesso di quelle ragazze. Volevo il sangue, tutto qui.»
Ho ricostruito, in modo narrativo, il momento della sconvolgente confessione di Vincenzo Verzeni. Era il 1879 e si chiudeva la sua carriera di assassino, iniziata a soli diciotto anni, nel 1867.
La sua prima aggressione avvenne in casa, ai danni della cugina Marianna Verzeni. Il giovane si era intrufolato nella stanza da letto della parente e aveva cercato di strangolarla, fuggendo non appena lei si era ribellata. L’episodio rimase per molti anni un segreto domestico, poiché la fanciulla non lo denunciò.
Nei mesi seguenti, tuttavia, Vincenzo prese di mira altre giovani della zona: Margherita Esposito, Barbara Bravi e Maria Previtali. Anche queste furono semplici aggressioni, senza vittime: le donne si salvarono, reagendo al molestatore che forse aveva agito con poca convinzione.
Delle tre, solo Maria Previtali ebbe la sfortuna di imbattersi nuovamente nel maniaco: a distanza di dieci anni, infatti, Verzeni tornò su una delle sue vecchie “fiamme”, stavolta per portare a termine ciò che aveva iniziato. Per la seconda volta la Previtali riuscì a scamparla, e fece arrestare Vincenzo Verzeni. Nel frattempo fu ritrovato il cadavere di Elisa Pagnoncelli, strangolata proprio la sera prima da Verzeni. Il maniaco, con i nervi al collasso, confessò alla polizia non solo le molestie e l’omicidio ma anche un precedente assassinio, sulla sua coscienza da quasi un decennio.
Era addebitabile a lui infatti anche la morte, fino a quel momento rimasta senza colpevole, di Giovanna Motta, assassinata a Bottanuco nel 1870. Nonostante davanti la corte il killer avesse sostenuto di non aver mai abusato delle sue vittime, il cadavere di Giovanna Motta era stato ritrovato orrendamente mutilato, con gli organi sessuali asportati.
Caratteristica strana, che mai fu spiegata, la presenza di spilli infilzati nelle natiche e nelle gambe di entrambe le vittime.
Grazie a una brillante difesa del proprio legale Verzeni fu riconosciuto incapace di intendere e di volere e non fu condannato a morte.
“Ebbene sia: Verzeni è una belva, e non può essere sottoposto al giudizio dell’uomo”, furono le parole conclusive della brillante arringa difensiva dell’avvocato Ondei.
E “la belva” terminò il resto dei suoi giorni in carcere.
Nonostante gli siano stati riconosciuti soltanto (si fa per dire…) due omicidi, e non i tre canonici grazie ai quali si viene classificati serial killer (teoria che tra l’altro abbiamo visto non essere più seguita da molti), per la particolarità della figura criminale ho ritenuto di inserirlo tra i più spietati serial killer della storia non solo italiana ma mondiale.
Tratto dall’ebook di Giuliano Conconi, “Pulsione Omicida – I serial killer nella storia”, Primiceri Editore.