Recensione a cura di Ivana Tomasetti
Una storia che scuote e che addolora. Un fatto storico realmente accaduto e di cui non si parla, un ennesimo esempio di crudeltà, che emerge dalle parole della piccola protagonista. Il nonno ci permette di comprendere cosa sia realmente accaduto nella città di Lazarfeld (oggi Lazarevo) dopo la fine della seconda guerra mondiale.
“Noi svevi del Banato viviamo in questa regione da oltre un secolo, in pace, fianco a fianco con gli altri popoli. Con il duro lavoro abbiamo reso questa terra fertile e, tutti gli anni, frutta e ortaggi crescono in gran quantità. Ognuno di noi ha trovato il proprio posto qui.”
Minoranze di lingua tedesca, che abitavano il territorio del Banato a ottanta chilometri da Belgrado, e che vi si erano stanziate da secoli, sono rastrellate e portate nei gulag russi o seviziate e giustiziate dall’esercito dei vincitori. Stragi dimenticate dalla storia perché le vittime di ogni parte non hanno voce.
Il libro inizia con l’immagine di una bambina che festeggia il Natale con la famiglia e che sente un bussare impellente alla porta.
“Inorridita, guardai due soldati afferrare mia zia per i capelli e scaraventarla a terra. Christa era la moglie del fratello di mio padre, zio Hans, e viveva nella casa accanto alla nostra. Quello che le stavano facendo era inconcepibile!”
I soldati la separano da sua madre, che finirà a scavare carbone in Siberia, mentre lei e i suoi nonni saranno rinchiusi in campi dove si muore per il tifo, la fame, il freddo. Conosciamo le vite parallele che si dipanano lontane una dall’altra senza sapere cosa sia successo ai familiari, se siano vivi o morti. La voce bambina si chiede il perché della sua sofferenza, si accontenta di poco, cerca di sopravvivere. Quando il nonno le racconta la storia del suo popolo – gli Svevi del Banato – lei vuole sapere e ricordare le tradizioni che costituiscono le sue radici. Il nonno scrive poesie per lei ricordando i tempi felici. I nonni riescono a nasconderla nella loro baracca, mentre altri bambini sopravvissuti sono allontanati e dati in adozione a famiglie serbe del luogo. Dopo quattro anni dalla fine della guerra Anna vive ancora nelle baracche e frequenta una scuola serba. Nonostante le sue sofferenze in occasione della sua Prima comunione le dicono che dovrà confessarsi! Quando finalmente potrà riabbracciare sua madre, qualcosa si è spezzato e lei preferisce stare con i nonni, piuttosto che con una sconosciuta. La vita diventerà dura, la sfiorerà anche l’idea del suicidio. Non le mancherà l’amore e avrà un figlio, le vicissitudini della vita libera la metteranno a dura prova, ma la sua capacità di reagire la salverà ancora una volta.
I personaggi si caratterizzano nella loro autenticità: i nonni guardano al passato e costituiscono l’ancora di salvezza della bambina, sua madre invece non sa esternare i propri sentimenti, la lontananza farà il resto.
“Mentre zia Christa mi trascinava giù dall’autobus, i bambini ridacchiavano e storcevano il naso. Il mio cuore batteva all’impazzata e io mi sfregai con foga le mani bagnate di sudore sul cappottino logoro, eppure mia madre non era nemmeno alla fermata dell’autobus.”
Il lettore resta basito dalle reazioni della donna verso la figlia, specie quando dopo gli anni di lontananza non va alla stazione a riceverla. Gelosie e sofferenze rendono i rapporti difficili, l’amore diventa ostilità. I coetanei sono dipinti con le loro affermazioni di astio a sottolineare differenze e umiliazioni. Tutto ci riporta un quadro in cui la morte è una compagna di vita; nell’ambiente del lager la sopraffazione è normalità quotidiana. Dentro tutto ciò la figura del sindaco risulta amica dei potenti mentre accompagna i soldati sovietici nelle case per arrestare gli abitanti. Abbiamo abitato il loro mondo di violenza, di scarafaggi, pulci, pidocchi, mosche e topi, tenendoci aggrappati alla vita fino al giorno dell’apertura dei cancelli del lager. Una testimonianza che porta una voce diversa, perché quella di vittime pacifiche e innocenti che avevano la colpa di parlare la lingua tedesca. Opere simili e diverse sono quelle di autori che hanno sperimentato la violenza dall’altra parte del fronte, penso a Primo Levi o alla piccola Anna Frank. Le radici della violenza sono nell’animo umano, perché nessuno si è ribellato quando ha capito che erano sopraffazioni su innocenti?
Lo stile non è sempre all’altezza del contenuto: forse perché la voce è di bambina o forse perché la trascrizione dei diari è stata troppo fedele, il risultato è una lingua ridondante, che specie nella prima parte sembra voglia convincere il lettore verso un giudizio scontato. La seconda parte, che narra le vicende della protagonista fuori dalla vita del lager, risulta maggiormente scorrevole e coinvolgente.
Il romanzo oltre a essere una testimonianza di fatti storici, esplora le necessità e le libertà del comportamento umano, con i condizionamenti esterni e interni che muovono le nostre decisioni personali. Può considerarsi un romanzo di formazione nella descrizione della crescita della ragazza che non riesce a trovare il suo autentico equilibrio fuori dalla sofferenza del lager e talvolta ne ha un’assurda nostalgia. Che cosa ci lascia dunque questa lettura? L’assenza di affetti tra una madre e la figlia, la sostituzione della figura genitoriale con quella della nonna, lo strappo dalle proprie radici, un insieme di sofferenze che, non sempre, aiutano a crescere e a trovare la propria identità.
La scrittrice Hera Lind ci dice:
“Il racconto intreccia verità e finzione, lasciando i confini deliberatamente sfumati.”
Il suo racconto deriva dai diari della protagonista.
“Anna Eckardt ha raccontato la sua vita compilando a mano oltre venti diari con la sua calligrafia precisa, meticolosa e raffinata… Le atrocità che ha dovuto sopportare da ragazzina e che ha vissuto sulla sua pelle non si possono esprimere a parole.”
Hera Lind è una scrittrice tedesca autrice di numerosi romanzi di grande successo.
PRO
Far conoscere la storia della minoranza tedesca di Serbia durante la seconda guerra mondiale.
CONTRO
Una scrittura non sempre scorrevole, il finale leggero, scarsamente realistico.
Link cartaceo: L’ultima promessa
Link ebook: L’ultima promessa
Trama
Lazarfeld, Natale 1944. La Seconda guerra mondiale sta per finire. Quando un gruppo di soldati jugoslavi fa irruzione nel villaggio di lingua tedesca, la vita della piccola Anni e della sua famiglia è destinata a cambiare per sempre. Amalie, la sua mamma, viene deportata in un campo di lavoro in Siberia insieme con un centinaio di donne del paese, mentre Anni viene condotta in un campo per bambini. Nonostante i pericoli e le difficoltà da affrontare quotidianamente, la piccola può contare sulla presenza dei nonni, che non la lasciano mai sola e se ne prendono cura, facendo il possibile per sostenerla in quel luogo di dolore.
Dopo la liberazione, Anni deve ricostruire la propria vita sulle macerie lasciate dalla guerra e i nonni continuano a starle accanto come una luce che brilla nell’oscurità. Ma non è semplice, perché la sua adolescenza è segnata da un difficile ritorno a scuola e da un complicato riavvicinamento con la madre. Così quando Anni, ormai donna, incontra l’affascinante Hans, è convinta di avere infine trovato la felicità tanto ricercata. Con un uomo di cui è innamorata al suo fianco, riuscirà finalmente a lasciarsi il passato alle spalle e credere in un futuro migliore?
In questo romanzo intenso e commovente, ispirato a una storia vera, Hera Lind ci narra una storia di coraggio, amore incondizionato e resilienza.