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Torneo invernale degli autori TSD: la quarta sfida – intervista doppia tra Marina Marazza e Paolo Lanzotti

marina marazza vs paolo lanzotti

M.M.: Eeeeh… a dire la verità, forse è stato il romanzo storico a scegliermi, insomma a “chiamarmi” … una sorta di vocatio, lo dico sorridendo io per prima alla parolona.   Tutto è successo quando ho messo le mani sulla Storia della Colonna Infame di Manzoni e lì, zac, è scoccata la scintilla. Ero una ragazzina con gli occhiali e i dentoni e quella lettura per me è stata epocale. Un fatto del genere che riguardava la mia città, Milano.  Mi vedevo i fatti scorrere davanti come in un film, avrei voluto dare volto e voce a tutti i protagonisti della famosa e famigerata vicenda degli untori, ho scoperto, udite udite, che due delle vittime portavano il mio cognome (Migliavacca, io mi chiamo Migliavacca prima che Marazza), un padre e un figlio, di professione foresari, cioè arrotini, che finiranno giustiziati orribilmente alla Vetra… Insomma, mi sono messa a cercare i nomi dei tre giudici che quella sentenza terribile l’avevano firmata, il Visconti, il Monti e il Trotti, e ho pensato che raccontando storie come questa si potesse rendere un po’ di giustizia postuma a tanta gente trascinata via dal vento della Storia –  a patto ovviamente di raccontare tutto sulla base dei documenti e non come un freddo saggio, ma usando la grande forza dello storytelling per poter interessare il più vasto pubblico possibile. Anzi, dell’historytelling… Da qui grande passione per la Storia, laurea conseguente eccetera eccetera. Perché la materia la devi conoscere nel profondo, prima di romanzarla!

P.L.: Ovviamente, perché ho sempre avuto un interesse particolare per la Storia (con la S maiuscola) e non mi è sembrato vero scoprire che potevo servirmene per inventare delle storie (con la s minuscola). So che la risposta suona banalissima. Ma è semplicemente la verità e la verità non ha l’obbligo d’essere originale. Non è vero? Aggiungo che i miei sono anche gialli. Dunque, romanzi in cui avvengono fatti di sangue che nella realtà non sono mai avvenuti. Ma questo è inevitabile. Un giallo storico è sempre, in un certo senso, un tradimento della Storia. Una specie di “universo parallelo” dove uomini e donne realmente esistiti si trovano a fronteggiare situazioni drammatiche che nella vita non hanno mai dovuto affrontare. Chissà se ne sarebbero stati contenti?

M.M.: Ma chi si è inventato queste domande è un genio! Difficile, eh, ma bella… Vediamo, forse potrebbe essere maiale in agrodolce,  una cosa materica, fatta di carne e sangue e condita di cose belle e orribili, agre, piccantine e dolci,  da gustare a bocconcini piccoli per assaporarla fino in fondo; dicono i cinesi che questa ricetta cantonese del Guangdong si chiami così, gūlū ròu, perché se è fatta bene l’aroma è talmente forte che quando te la mettono davanti ti aumenta la salivazione, il che corrisponde all’emozione che provo ogni volta scoprendo la vita di chi è vissuto prima di noi,  tutti gli accadimenti, e anche al fatto che la curiosità di saperne di più ti fa venire l’acquolina in bocca… Gulugulu, insomma, come dicono i cinesi. Da servirsi con infuso di fiori di loto, temo. Nel senso che dovremmo imparare un sacco dal passato, storia maestra di vita etc., ma diciamocelo, siamo come i lotofagi che incontra Ulisse: amnesia totale.

P.L.: Ahimè! Credo che sarebbe un bel tartufo. Un fungo sotterraneo, che molti apprezzano, ma che tanti altri non sopportano per l’odore forte e il sapore impegnativo. Ho sempre sperato che i primi fossero la maggioranza, ma non ne sono sicuro.

M.M.: Oh, vediamo un po’. Per rimanerci in pianta stabile, dici, giusto? Non solo in visita? Allora forse a casa di Christine de Pizan, con laboratorio di scrittura annesso, a cavallo tra Trecento e Quattrocento. Sai, la famosa Christine della Città delle Dame, lei: ci ha scritto recentemente un bel libro sopra Nicoletta Bortolotti, l’ha definita giustamente “la prima scrittrice europea” …. Insomma, una collega, Christine.  Magari le avrei potuto chiedere di essere sua socia di minoranza, rendendomi utile all’impresa editoriale: lei dopo la vedovanza si è messa a fare la scrittrice di professione e ha assunto uomini ma anche donne amanuensi, calligrafe, miniatrici, è diventata una imprenditrice e la prima femmina a fare questo tipo di lavoro in modo professionale e a ottenere la fiducia di grandi committenti vicini alla corte del re.  Avremmo potuto discutere insieme della Querelle des Femmes, perché Christine ha affrontato con coraggio e grande spirito il tema dell’eguaglianza femminile in opere come la Città delle Dame, la prima a dire che se le fai studiare le bambine son brave come e più dei maschi… e poi in realtà Christine era veneziana, per cui si sarebbe potuto conversare in italiano e in francese, senza contare che  lei era una fan di Giovanna d’Arco, la prima a raccontare della pulzella quand’era ancora in vita, per cui gli argomenti non ci sarebbero mancati… E poi, dai,  avrei potuto mettermi una cottardita come quella che ha indosso Christine nelle miniature che la ritraggono, di quel suo blu preferito (molto professionale per l’epoca, come noi milanesi che ci vestiamo sempre di nero), e mettermi in testa un cappello a doppio cono come il suo, e sembrare un po’ una fata, perché in fondo scrivere è sempre una magia, no?

P.L: Da veneziano, ne indicherò un paio. Antonio Vivaldi e Carlo Goldoni. Incarnano due delle arti che apprezzo maggiormente, insieme alla letteratura: la musica classica e il teatro di prosa. Non starei con loro materialmente. Anche se i viaggi nel tempo fossero realmente possibili, penso che vivere nel ‘700 sarebbe insopportabile per un uomo moderno. Ma una sbirciatina all’esistenza di questi due grandi la darei volentieri. Sperando, magari, di ricavarne qualche insegnamento.

M.M.: Me ne piacciono tantissimi, ma se devo dirne uno solo citerei il Dies Irae di Dreyer. Pesantuccio, direte, eh, sì, ma che capolavoro. Ambientato in un Seicento magistralmente palpabile fa capire tante cose sulla stregoneria e sul modo di vivere e di pensare di quel tempo, comprese le dinamiche familiari. Fa capire che la caccia alle streghe non è stato un fenomeno limitato alla chiesa cattolica. Fa capire che c’erano streghe convinte di esserlo. Fa capire che certi modi di pensare ce li siamo trascinati fino ai giorni nostri. E c’è da ricordare che quel film Dreyer lo ha girato durante l’occupazione nazista, il che ne permette una doppia lettura storica. Dreyer è un regista che coglie molto il punto di vista femminile, la situazione delle donne, anche nel più celebre La passione di Giovanna d’Arco, con quei primi piani emozionantissimi. Realismo d’atmosfera, lo chiamano, io ci provo anche nelle mie pagine a evocarlo, si parva licet etc. Comunque prima che me lo diciate voi sia chiaro che sono conscia che questo film è citato nella serie di Fantozzi insieme alla Corazzata Potemkin come quelli noiosissimi che il professor Guidobaldo Maria Riccardelli costringeva gli impiegati a vedere la sera in cui giocava la nazionale, ah, ah, per cui non mi offendo se mi dite che a voi non piace.  Però vi giuro che non è una boiata pazzesca, questo. È una meraviglia. Con buona pace di Guidobaldo e anche del ragionier Ugo.

P.L.: Non sono un grande appassionato di cinema e la mia competenza in materia è abbastanza limitata. Più che un film propriamente storico, indicherei un film ad ambientazione storica.  “Il trono di sangue”. Una vecchia, magnifica pellicola di Akira Kurosawa, versione giapponese del Macbeth di Shakespeare. Un film che ho visto da ragazzino, in televisione, dato che è stato girato nel preistorico 1957, ma di cui ricordo ancora alcune scene. E credo che questo significhi qualcosa.

M.M.: Ti dirò che ho un gran rispetto delle opere altrui, però forse un nome lo cambierei. Il nome del protagonista di un libro che ha anche un titolo legato a un nome. Sto parlando di Guglielmo di Baskerville e del Nome della Rosa. Supplicherei Eco di trovare un altro nome per il suo frate, che non ricordi in alcun modo Sherlock Holmes, lo supplicherei di cancellare le somiglianze con il famoso investigatore nato dalla penna di Conan Doyle che non c’entra nulla, è una concessione nazionalpopolare che non ci azzecca proprio. Adesso si scatenerà un putiferio, forse avrei dovuto tenere il becco chiuso. Lo so, lo so, Umberto giocava al gioco delle citazioni postmoderne, sono stati sparsi fiumi d’inchiostro su questo, ma non ci sta, è una strizzata d’occhio non necessaria, peggio, inopportuna. Il Guglielmo del nome della rosa non c’entra con Sherlock, è un divertissement dell’autore che forse pensava all’epoca che il vasto pubblico non reggesse la vera fonte di ispirazione per questo personaggio che ricorda tantissimo Guglielmo di Occam. Tutti conoscono Sherlock, pochi conoscono Guglielmo da Occam, d’accordo. E così Eco ci ha messo quel riferimento forzato col mastino dei Baskerville, oddio. Invece i lettori hanno fatto qualcosa di incredibile: hanno comperato un libro difficile, farcito di latino, e ne hanno fatto un bestseller. Bisogna aver fiducia nei lettori! Poi qualcuno dirà che nessuno lo ha letto davvero, Il nome della rosa, dalla prima all’ultima pagina, che ciascuno si è goduto i pezzi più facili, ma chissà. Qualcuno ha anche detto che il film era più bello, o magari ha visto solo il film e ha millantato di aver letto il libro, certo; ma non c’è paragone tra un plot cinematografico e quello che ha fatto Eco nelle sue pagine. Ma tornando a Guglielmo: lui è senza dubbio ispirato a Guglielmo da Occam. È stato inquisitore e cercando di non tradire la verità ha rischiato la vita, passando da inquisitore a inquisito, terribile. Così ha ripudiato quel passato senza dimenticarlo e sa una cosa: di non sapere nulla. In quel caos che ha intorno può solo cercare con grande onestà di arginare il male, conscio che la battaglia sarà impari. Guglielmo è un personaggio meraviglioso. Ma non può chiamarsi da Baskerville! E allora come lo chiamiamo? Forse Guglielmo Grey: era dei frati grigi, come venivano chiamati i francescani. Ecco. Guglielmo Grey, magari. Scusa, Umberto, ma tu hai addirittura dichiarato che Il nome della rosa lo detestavi e non è stato il tuo libro migliore. A me piace un sacco, invece. Ma solo quel nome me lo cambieresti, please? Per il resto, che gli dèi ti abbiano in gloria, davvero.

P.L.: Scelgo “Il nome della rosa” e cambio parte del finale, quando la grande biblioteca del monastero – se non ricordo male – va in fumo. Il pensiero di tanti libri che bruciano mi dà le palpitazioni. Il finale di Umberto Eco è molto suggestivo. Epico, direi, con le fiamme che divorano le pagine come tanti eroi sulla pira funeraria. Ma non si poteva salvarne almeno qualcuno?

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Quale dei due autori ti ha convinto di più con le sue risposte?

Quale tra le due interviste ti è piaciuta di più?

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