Recensione a cura di Sibyl von der Schulenburg
Ho incrociato questo libro quasi per caso: era in mano a un Monsignore, cappellano della Marina Militare con il quale avevo parlato di mio padre e della resistenza antinazista. Voglio molto bene a Monsignore e lui sa come scrivo, forse è stato per questo che mi ha offerto il libro. «Tieni» mi ha detto. «Sono certo che tra te e Agnese nascerà una bella amicizia.»
Allora non sapevo di quale Agnese parlasse, oggi lo so e non posso che essere lieta della decisione di Monsignore di privarsi di un libro che non aveva ancora terminato. Ma lui sapeva bene come andava a finire poiché celebra ogni anno la commemorazione dell’eccidio di San Terenzo Monti.
Tornata a casa ho letto il romanzo storico di Agnese Pini “Un autunno d’agosto” (Chiarelettere, 2023) senza annoiarmi neanche il tempo di una riga. Il merito è della scrittura, marcatamente giornalistica, che ha creato un romanzo storico senza infiocchettature e inutili arzigogoli come invece è tanto di moda in questo momento.
Agnese Pini è giornalista di chiara fama, giovane talento in un mondo di vecchi spacciatori di notizie approssimative, autrice di un romanzo storico in cui il personaggio principale è proprio l’evento storico in sé.
L’autrice evita l’artificiosa costruzione di un personaggio in cui -a detta di certi editor- il lettore deve immedesimarsi e si concentra invece sull’ambientazione, storiografica e paesaggistica, del punto focale della trama: l’eccidio di San Terenzo Monti.
Tra il 17 e il 19 agosto 1944, nel comune di Fivizzano, in provincia di Massa Carrara, furono massacrati 159 civili in risposta a un attacco partigiano che era costato la vita a 16 soldati tedeschi. L’aritmetica del comandante delle truppe naziste, Helmut Looß, era semplice e ormai consolidata: 10 civili per ogni soldato tedesco ucciso.
Una storia orribile ma uguale a varie altre, già raccontate e regolarmente rimembrate, eppure…
Eppure l’autrice riesce a imprimere a questo terribile episodio una nota personalissima data dal fatto che una delle vittime di quel massacro è stata una sua bisnonna.
Palmira, si chiamava. Era una donna temprata dalla vita sui pendii della Lunigiana, abituata a lavorare da mattina a sera per la famiglia e sempre convinta che l’onestà, la fede e l’operosità fossero le basi di una vita serena. Palmira era tra le donne che regolarmente scendevano a valle portando merce di scambio in grandi ceste bilanciate in testa, una modalità di trasporto diffusa in tutto il mondo e spesso proprio riservata alle donne che, con l’esercizio, dona un portamento particolarmente eretto ed aristocratico. Palmira era già nonna quando quell’agosto del 1944 i tedeschi la prelevarono assieme ad altri, perlopiù donne e bambini, la illusero a lungo sulla salvezza, la fecero ballare al suono di un organetto e poi le spararono.
L’agonia di quelle vittime fu molto più lunga di così, la paura le tormentò per un paio di giorni intanto che il comandante tedesco dava ordine di compilare le liste e tenere bene i conti dei “morti di scambio”. Alcuni erano prigionieri già da qualche tempo e furono uccisi in modo più cruento, altri furono uccisi quasi accidentalmente perché sulla linea di tiro di un MG42, il parroco fu freddato appena aprì la porta ai militari tedeschi. Tutti però contribuirono al totale: avrebbero dovuto essere 160 persone. Era quello il numero firmato dal comandante, il maggiore Walter Reder, mentre era a tavola al ristorante del paese. In quel numero c’erano anche la moglie e i figli dell’oste.
Nella cronaca di Agnese Pini s’incrociano le vite di tante persone legate dalle decisioni di singoli soggetti tra cui gli ideatori nazisti e fascisti della rappresaglia, gli esecutori materiali e i partigiani. Solo le vittime non hanno avuto voce in capitolo.
L’utilizzo del romanzo, anziché dell’inchiesta giornalistica, ha concesso all’autrice di dare voce ai personaggi dando la dimensione emotiva di un eccidio senza dover stemperare l’orrore del risultato dentro un pantano di sentimenti oscuri come i conflitti di coscienza dei boia o i sensi di colpa dei partigiani.
L’aritmetica del maggiore Reder non fu però efficace fino in fondo. Tra i corpi caduti sotto i colpi delle MG42 naziste fu trovata una bambina viva, scampata all’eccidio. Non si sa come sia stato possibile, se per errore o per pietà dei soldati addetti a finire i feriti. Clara, quell’unica condannata riuscita a sfuggire alla morte, diventa il simbolo della fallibilità dei grandi sistemi malvagi e rappresenta quasi una vittoria del bene sul male o, perlomeno, la sopravvivenza della speranza.
Un tema attualissimo.
Trama
Estate 1944. Lungo la Linea gotica si consuma la parte più feroce della guerra in Italia, una serie di eccidi orribili per mano dei nazifascisti. A San Terenzo Monti, paese di poche centinaia di abitanti tra Liguria, Emilia e Toscana, vengono uccise senza pietà 159 persone, in prevalenza donne e bambini, l’esecuzione accompagnata dal suono di un organetto. Attraverso la storia della sua famiglia, con una scrittura intensa, viva e piena di grazia, una galleria di personaggi che diventano romanzeschi per la forza e l’umanità della narrazione, Agnese Pini ha scritto un grande romanzo civile, con il respiro universale dell’inchiesta-racconto che parla di noi e del presente. “Una storia così” dice l’autrice “lascia un segno indelebile nelle famiglie che l’hanno subita, e appartiene a tutti i sopravvissuti e ai figli dei sopravvissuti. È una storia di umanità e di amore perché, soprattutto nei momenti in cui vita e morte sono così vicine, l’umanità e l’amore escono più forti che mai. L’ho sentita raccontare fin da quando ero piccola: la raccontavano mia nonna, mia madre, mia zia (nella foto di copertina), ma per molto tempo ho pensato che fosse un capitolo ormai chiuso della storia d’Italia e della mia storia personale. Grazie anche al lavoro che faccio, ho capito invece che quel capitolo era tutt’altro che chiuso, che lì si nascondono gli istinti più inconfessabili di ciò che possiamo ancora essere. L’ho capito con la guerra in Ucraina, vedendo come certi orrori si perpetuino sempre identici al di là delle latitudini e degli anni. E l’ho capito perché nel nostro paese c’è un periodo, il ventennio fascista, che ancora non riusciamo a guardare con una memoria davvero condivisa. La storia raccontata in questo libro può diventare allora un’occasione per tornare a ciò che siamo stati con una consapevolezza nuova. Del resto la resistenza civile di un paese si può tenere viva solo restituendo verità e dignità al destino degli ultimi. Questo è un libro sugli ultimi ed è a loro che è dedicato, perché su di loro si è costruita l’ossatura forte e imperfetta di tutto il nostro presente, dunque anche del mio”.