Narrativa recensioni

I bambini del maestrale – Antonella Ossorio

Recensione a cura di Serena Colombo

Questo libro è uno di quei tasselli che mancava alla mia conoscenza di donne che hanno fatto del bene nella Storia. Uno di quei personaggi che meriterebbe un posto nei manuali scolastici di Storia.

Giulia Civita Franceschi, “la Montessori del mare”, figlia dello scultore ebanista Emilio Franceschi, colui che nel 1888 aveva portato a termine la statua di Ruggero il Normanno, la prima delle otto statue che incorniciano la facciata principale del Palazzo Reale di Napoli.

Ma Giulia non fu un’artista, sebbene a suo modo mise la sua arte al servizio di Napoli. E la sua è stata un’arte superiore, quella dell’educatrice. Prima nell’officina-atelier del padre, dove insegnò a moltissimi ragazzi a leggere e scrivere, animata dal motto del padre

qualunque impresa tu decida di affrontare sei perfettamente in grado di portarla a termine. Tutto è fattibile, basta volerlo

Ed è questo l’insegnamento che Giulia metterà alla base del suo incarico di direttrice della nave asilo Caracciolo, una nave in disarmo ancorata nel porto di Napoli che il Ministero della Marina aveva donato alla città affinché fosse trasformata in  rifugio per bambini orfani o abbandonati tra i sei e i dodici anni, dei quali i vicoli dei quartieri popolari della città pullulavano, con lo scopo di addestrarli ai mestieri marittimi.
Uno dei tre esempi di nave-scuola dopo la Garaventa e la Scilla ancorate nei porti di Genova e di Venezia, che da tempo avevano messo in atto un progetto simile con frutti positivi.
A volerla come direttrice della nave asilo Caracciolo, due amiche, Enrichetta e Antonia, rispettivamente la figlia di Giolitti e la moglie di Nitti nonché figlia del giurista Persico.

La chiave di volta utile a tenere in piedi l’edificio che vogliamo costruire è che al comando ci sia una donna. E che sia napoletana, pertanto a conoscenza delle ferite che i piccoli sbandati portano nella carne e nell’animo».

L’avventura, ma soprattutto la dedizione di Giulia Civita in questo suo compito fu senza pari. Non si risparmiò ma soprattutto non si fermò davanti ad alcun tipo di difficoltà burocratica ma soprattutto politica, affinché quanti più bambini possibili venissero accolti sulla nave, cercando sempre e comunque di dare loro una educazione e una cultura improntata all’accoglienza, alle regole e alla disciplina certo, ma più di tutto al buon senso e alla flessibilità piuttosto che alla rigidità.

Dare loro gli strumenti e la fiducia necessari a camminare a testa alta nel mondo era il succo della sua missione.

Quella rigidità che le va stretta, che la soffoca, quando la Storia più buia irrompe nella città e sulla nave con le sue camicie nere asservite a un potere che, pian piano, si trasforma in dittatura e che, alla fine, si impossesserà anche della nave asilo e dei suoi “caracciolini”, che verrà accorpata all’Opera Nazionale Balilla.
Ma prima di allora, molte le opere che portò a compimento la Civita Franceschi, la quale intuì che i bambini – guai in sua presenza a chiamarli scugnizzi – non dovevano essere iniziati solo ai mestieri marittimi, ma dovevano essere instradati nelle loro vocazioni: falegnami, carpentieri, vetrai…

Come aveva potuto puntare tutto sui mestieri marittimi? Cosí stava di fatto limitando le possibilità ai suoi ragazzi. No, no! Per diventare uomini liberi e stringere il loro avvenire tra le mani dovevano essere messi nella condizione di assecondare le loro inclinazioni naturali, quali che fossero. Il mare era una sposa troppo esigente per adattarsi a matrimoni combinati, e per fortuna la vita di terra offriva un ampio ventaglio di scelte.

Mise in piedi la SPEM, Scuola Pescatori e Marinaretti, e fece di tutto perché fosse offerto un aiuto anche alle bambine di strada, affinché tutte avessero una istruzione, ma soprattutto la consapevolezza che avevano un valore e che potevano, dovevano, avere di più dalla vita oltre il loro ruolo di angeli del focolare.

«L’idea è insegnare alle bambine tutte le arti sussidiarie alla pesca in modo da formare operaie esperte nella fabbricazione di corde di canapa e di paglia, nel taglio e nella cucitura delle vele, nella lavorazione e nel rattoppo delle reti, nella costruzione di ceste e nasse.»

Il libro è una bellissima carrellata di Storia a tutto tondo, del climax culturale e storico: la scrittrice, infatti, abilmente incunea nella narrazione la storia della città di Napoli, di alcuni dei suoi luoghi più popolari e meno, diremmo oggi, turistici. Ma anche della vita culturale, politica e sociale dell’epoca: tra le pagine di questo documentatissimo libro spiccano personaggi e rimandi a Deledda, Serao, Lidia Poet; a Jack la Bolina alias dello storico, nonché scrittore, Augusto Vittorio Vecchi, amico e ammiratore della Civita, giusto per citarne uno a mo’ di esempio.

E poi c’è Felice, un bambino di strada la cui vicenda è narrata parallelamente a quella di Giulia Civita e della sua “impresa”, una narrazione che occupa pagine bellissime, commoventi e a tratti strazianti. Pagine che toccano il cuore. Un personaggio inventato ma che ha il valore simbolico delle occasioni di riscatto che la vita a volte ci mette davanti.

E giunti al termine del libro, letta, imparata, capita e ammirata la storia di questa eccelsa donna, vorremmo essere lì, nel luogo esatto dal quale la Ossorio, con la maestria e l’eleganza della sua prosa aveva fatto principiare la narrazione

Portata a spalla con amorevole cura, la bara è una scialuppa che naviga su un mare di gratitudine. La folla che le si stringe intorno sembra dire: eccoci qua, lo vedi quanti siamo?

In tanti, come in tanti dovrebbero leggere questo splendido libro, dal quale si esce commossi, ammirati ma soprattutto consapevoli che tanto in passato è stato fatto da personaggi, ancor più donne, cui la Storia ha donato poco.

La Ossorio conquista con una scrittura limpida, una prosa sempre ben calibrata a seconda delle situazioni e delle vicende narrate il cui pregio maggiore sta nel sapersi piegare alle situazioni e ai personaggi tutti ben cesellati e tridimensionali, anche quelli che, in apparenza, sono secondari o comprimari; una scrittura che  sa diventane un veicolo per fare arrivare la Storia dritta al lettore, senza mettersi al centro. Senza egoismi di centralità o mania da palcoscenico. Come fece, in effetti, Giulia Civita Franceschi.


Pro
Tanti, tutto. Ma se devo sceglierne qualcuno, scelgo la prosa e la grandezza del personaggio scelto per il romanzo.

Contro
Nessuno

Citazione preferita: un popolo disavvezzo al ragionamento è piú facile da asservire

Cartaceo: I bambini del Maestrale
Ebook: I bambini del Maestrale

Trama
1913, porto di Napoli. Attraccata all’imbarcadero, come se a trattenerla non fossero cavi o ancore, ma profonde radici abbarbicate al fondale, la Caracciolo, con i suoi tre alberi a vele quadre, simili a vestigia di un bosco sacro, incute timore e rispetto. Non tutte le navi possono vantare, come quel veliero, memorabili imprese e avventurose circumnavigazioni del globo. Il tempo delle battaglie cruente è, però, finito. La nave è in disarmo, destinata a una ultima, nobile battaglia: diventare una nave asilo per quei bambini, orfani o abbandonati dagli adulti, che vivono di furti ed elemosine per le strade di Napoli, dormendo sui marciapiedi, negli androni dei palazzi, nei sagrati delle chiese; ovunque vi sia un angolo buono per rincantucciarsi. Tredici di loro sono già a bordo, li chiamano i caracciolini e godono di un benessere superiore a ogni loro piú rosea aspettativa, con un letto e il mangiare garantiti ogni santo giorno. Sono affiorati da sottocoperta per venire a studiare l’intrusa, la donna nominata dal rappresentante del Ministero della Marina direttrice della nave asilo. Si chiama Giulia Civita Franceschi ed è pronta a raccogliere la sfida rappresentata da quel veliero, e a capovolgere una volta per tutte il destino di quel popolo infantile piegato dalla povertà e dall’abbandono. Destino che sembra, invece, inemendabile per Felice, il bambino che cerca ogni sera un angolo il piú possibile riparato dove dormire con gli occhi spalancati sul buio e il nome della madre sulla bocca. Storia di un esperimento educativo unico al mondo, durato quindici entusiasmanti anni e bruscamente interrotto dal regime fascista nel 1928, questo romanzo costituisce una splendida conferma del talento di Antonella Ossorio nel narrare di miseria e riscatto, crudeltà e amore nel paesaggio dell’infanzia abbandonata.

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