Recensione a cura di Luca Vinotto
Santi Laganà, alla sua opera prima, ci regala un romanzo cupo e duro, ambientato in un’epoca brutale e disperata. Siamo nel medioevo, poco prima del fatidico Anno Mille, ma non è l’Armageddon a funestare le terre italiane. Sono gli uomini, specie se dotati di potere, con la loro ingordigia e inettitudine. Non si salva nessuno: aristocratici, vescovi, cardinali, lo stesso Papa, sono loro a condannare una terra potenzialmente ricca come la campagna laziale a un destino di fame e miseria.
A questo degrado si oppongono in pochi. L’autore ci presenta ancora una volta uomini di chiesa, ma all’estremo opposto della catena gerarchica: eremiti, monaci, gli abati delle piccole comunità ecclesiali, unici a lottare per tener vivo il messaggio evangelico. Insieme a loro si battono rare figure di nobili dei livelli più bassi, che della gente comune spesso condividono un destino di privazioni.
Per il popolino l’obiettivo è la semplice sopravvivenza quotidiana. In un mondo in cui non c’è futuro, ma solo un presente disperato, anche tra i più poveri questo si traduce in comportamenti virtuosi o meschini, entrambi descritti, in entrambi i casi, all’eccesso: c’è chi trova nella comunità di appartenenza la sua forza, sa che per ricevere deve dare ed è più propenso a dimostrare misericordia e solidarietà, anche nei confronti degli ultimi, senza esitazione e senza distinguo. Ma c’è anche chi, per scelta o necessità, scende nei più turpi abissi dell’abominio umano e non si ferma davanti a nulla.
Un mondo ferito da una povertà infinita, figlia dell’incuria e del malgoverno, in cui i valori morali sono rimasti bandiera di una sparuta minoranza. Questo è il contesto nel quale si sviluppa la storia di Anna, figlia di un umilissimo pastore, di rara bellezza. La sua avvenenza però si trasforma in una maledizione, perché finisce per attirare su di lei l’attenzione dei potenti. Ricercata dagli sgherri del Papa, Anna assiste al massacro della sua famiglia e deve iniziare una fuga affannosa per evitare un destino da incubo.
Ma è una ragazza dalle grandi capacità, capace di affrontare le prove più dolorose e di uscirne ogni volta rafforzata nell’animo. La spinge la determinazione a ritrovare l’unico membro della famiglia sopravvissuto alla strage, il fratello. Sarà accompagnata in questa sua ricerca attraverso le campagne romane e poi nella Città Eterna, da una variegata compagnia di sapienti, malfattori e cavalieri, fedeli amici con cui dovrà affrontare briganti e feudatari, cardinali e nobildonne.
Ecco cosa ci racconta Laganà, con una prosa sempre chiara e diretta. Dipinge a tinte fosche una campagna romana abbandonata a sé stessa, con la dovizia di particolari che tradisce una approfondita ricerca storiografica (che emerge comunque dalla “Nota al lettore” alla fine del libro). Questo purtroppo non ha evitato alcuni errori, quali ad esempio l’aver inserito la patata nella dieta dell’epoca, 500 anni prima che venisse portata in Europa dalle Americhe.
Il romanzo ha una propria coerenza interna e va dato atto all’autore di non aver risparmiato i colpi di scena. Ho avuto l’impressione che in questo abbia persino un po’ esagerato: il viaggio di Anna dura qualche decina di chilometri, ma tra stupri, assalti di bande di briganti, uccisioni e tanto altro ancora sembra una vera Odissea. Forse è questa la pecca principale dell’opera: nel cercare di mantenere alta la tensione sono state inserite vicende non sempre necessarie al regolare fluire della trama, col risultato che a volte i personaggi compiono azioni di cui è difficile comprendere le motivazioni.
Forse sarebbe stato più interessante legare le vicende della nostra Anna agli avvenimenti sociali e politici di quell’epoca oscura: le lotte e gli intrighi tra Ottone I di Sassonia, il Papa, l’Imperatore di Bisanzio, Berengario II di Ivrea, e gli altri signori longobardi di Spoleto e Benevento. Invece Laganà lascia tutto sullo sfondo. È una scelta consapevole, per rimarcare la distanza tra la storia scritta dai principi e quella vissuta dal popolo sulla propria pelle?
Ritengo di sì, ma ciononostante credo si sia persa l’occasione di far conoscere un periodo importante, preludio della cosiddetta Rinascita Ottoniana, dal nome dell’imperatore Ottone I che ne fu il principale artefice, e che vide un importante sviluppo delle scuole, delle arti e dell’economia. E anche di far apprezzare gli aspetti migliori di un’epoca che non è stata sempre e completamente “di ferro e di sangue”.
Trama
Patrimonio di San Pietro, 960 d.C. Sul trono papale siede un adolescente perverso e corrotto, ciò che resta dell’Italia indipendente è allo sbando dilaniata da lotte intestine e le campagne sono una terra di nessuno dove la violenza e il sopruso la fanno da padroni. Anna è una contadina di quindici anni che conduce un’esistenza misera e asservita. Quando la sua famiglia viene trucidata e l’ultimo fratello rapito per essere ridotto in schiavitù, decide di continuare a vivere per inseguire quell’ultimo brandello di affetti e, sorretta da una volontà indomita, inizia una dolorosa peregrinazione per terre sconosciute e ostili, tra aiuti misericordiosi e feroci violenze. Nel suo tormentato cammino incontrerà un cavaliere dall’oscuro passato e un improbabile presente, un vecchio dall’aria mansueta che nasconde insospettabili risorse e un giovane vagabondo sfrontato e generoso: una strana compagnia con cui cercherà di farsi giustizia fin dentro i palazzi più segreti di Roma. Ambientato in uno dei periodi meno conosciuti e più bui della nostra Storia, I giorni del ferro e del sangue è un affresco senza filtri né retorica di un’epoca brutale quanto affascinante, ma anche la straordinaria parabola di una memorabile protagonista: una giovane donna che nel più maschilista dei mondi non si rassegna a un destino già scritto e tenacemente lotta per conquistarsi il diritto a una vita migliore.