A cura di Giuliano Conconi
Impero d’Austria, Milano, 1860 circa.
Giovanni, quella mattina, prima di recarsi alla stamperia dove lavorava, salutata la moglie e lasciato l’elegante appartamento presso il quale si era trasferito ormai da qualche anno, decide di passare a far visita alla madre.
La sera prima ha acquistato per il suo compleanno delle stampe preziose e non vede l’ora di fargliele avere. La donna, da sempre, è appassionata d’arte e collezionista.
Del resto, può permetterselo, la ricca vedova milanese.
Malinconici riflessi rosacei brillano ancora tra gli stretti vicoli cittadini, quando Giovanni imbocca la lunga strada del centro storico chiamata “stretta Bagnera”, dove le case si fronteggiano da così vicino che per una carrozza sarebbe impossibile passare. Lì, al numero 8, abita, con la moglie e i due figlioli, Antonio Boggia, l’uomo che cura gli affari di sua madre.
Alto, capelli bianchi e buone maniere, è stato lui stesso a raccomandarlo all’anziana.
Percorsi tutti i centocinquantacinque passi della Bagnera, Giovanni gira a sinistra, poi imbocca la terza via a destra e si trova davanti casa della madre. Infila la chiave nella serratura del massiccio portone di legno e colma a grandi falcate i pochi metri, scarsamente illuminati, che separano la zona ingresso dal salone principale dell’abitazione.
«Sono io, madre mia, siete già sveglia? Devo mostrarvi una cosa con urgenza», esclama pieno di entusiasmo mentre si dirige verso la cucina a passo svelto, tirando fuori dagli astucci protettivi i meravigliosi disegni.
«Siete forse ancora a letto? Svegliatevi, non ho molto tempo», le sussurra rimanendo sull’uscio della camera, al piano di sopra, a due passi da quella che una volta era stata la sua stanza, ora adibita a ricovero per i parenti e gli amici in visita a Milano.
La donna continua a non rispondere, ma mettendo l’orecchio sulla porta, Giovanni percepisce dei movimenti provenire dall’interno della camera. L’angoscia penetra il suo cuore: e se avesse avuto un malore? Un attacco di cuore? Del resto, sua mamma ha ormai più di settant’anni…
Giovanni non esita ulteriormente e si precipita all’interno.
Quello che gli si presenta davanti agli occhi ha dell’incredibile.
Non riesce subito a mettere a fuoco la situazione: il letto è in ordine ed Ester Maria Perrocchio, questo il nome dell’anziana, giace a terra, in una scura pozza di sangue. La riconosce dalla camicia da notte, zuppa di plasma. In ogni caso non può che essere lei, nonostante quel volto sfigurato dalla spessa lama della scure che le è stata piantata in testa.
Accanto a quel corpo violato, è sdraiato un uomo sulla sessantina.
«Antonio Boggia!»
Urla colmo d’ira Giovanni, riconoscendo l’assassino.
Quello, che evidentemente ha dormito lì la notte precedente, sul pavimento, accanto al cadavere dell’anziana, cerca di prendere l’ascia conficcata nel cranio devastato.
Giovanni tuttavia è svelto e lo anticipa, riducendolo all’immobilità. Gli mette le mani intorno al collo e preme tanto da far svenire l’assassino. Poi, resosi conto che per la povera Ester Maria Perrocchio non c’è nulla da fare, corre alla finestra e strilla.
«Aiuto! Qualcuno chiami le guardie, hanno ammazzato mia madre! L’assassino è ancora qui, presto!»
Pochi minuti dopo Antonio Boggia ancora in stato di incoscienza, venne prelevato dall’abitazione della Perrocchio e portato in cella, dove rimase sino all’esito del processo, che lo condannò alla morte per impiccagione.
Al giudice disse che la sera prima dell’omicidio si era recato dalla donna come suo amministratore dell’immobile, professione che svolgeva da anni in alcuni condomini milanesi e, mente stava discutendo con lei di come risolvere un problema attinente all’abitazione, gli era caduto l’occhio su una scure posta accanto al camino.
“Mi colse l’estro”, raccontò l’assassino alla Corte, come se fosse stata un’ispirazione artistica a condurlo a uccidere la povera anziana indifesa.
Ma il Boggia, considerato il primo serial killer italiano, non era certo sconosciuto in Tribunale. Pochi mesi prima era riuscito a farsi scarcerare facendosi credere pazzo: l’accusa era minore, gli si contestava di aver preso a bastonate in testa una donna che era riuscita a scamparla.
Assassino disorganizzato, Antonio Boggia nacque a Milano alla fine del XVIII secolo e uccise per la prima volta all’età, a quei tempi molto avanzata, di cinquantadue anni.
La sua prima vittima fu un uomo, Angelo Ribbone, impiegato alla caserma locale. Conoscente del Boggia, egli l’aveva messo al corrente, facendogli una confidenza, di aver risparmiato una grossa somma di denaro, che teneva nascosta in casa in contanti, per sposarsi. Il killer, attiratolo con un pretesto nel suo ufficio, lo finì a colpi d’ascia, lo sezionò in tre pezzi e lo seppellì nella cantina sotto la sua abitazione e il suo “studio professionale”.
La seconda vittima si chiamava invece Giuseppe Marchesotti. Venne attirato nello studiolo di via Bagnera in qualità di mediatore d’affari per un incontro professionale. Il Marchesotti aveva portato una grossa somma di denaro contante con sé, forse da investire in un’operazione immobiliare che il Boggia, il quale era abile falsificatore di documenti e atti notarili, avrebbe fatto credere di poter concludere. Venne ucciso a colpi d’ascia, sezionato e si ritrovò a fare compagnia al Ribbone.
Giovanni Meazza, un sensale di terreni, fu la terza vittima.
Le morti accertate furono dunque quattro, contando la Perrocchio.
Gli uomini furono uccisi nello scantinato di quella angusta via centrale di Milano (anche oggi esistente e rimasta simile all’epoca) chiamata stretta Bagnera (da qui il soprannome del mostro), mentre per l’unica vittima femminile fu l’assassino a scomodarsi a domicilio. In tutti i casi però gli omicidi attribuiti al Boggia furono legati alla natura benestante delle vittime.
Il killer, del resto, era conosciuto da tutte le sue prede, le quali si fidavano di lui. Gestiva per conto loro degli affari, spesso legati all’amministrazione di immobili.
Oltre al desiderio di appropriarsi delle sostanze degli sventurati, il mostro era anche guidato da un interesse più morboso, quello comune a tutti i serial killer; uccidere e giacere con le vittime. Dopo averle assassinate, infatti, Antonio Boggia era solito rimanere molte ore con i corpi ai quali aveva sottratto la vita, forse per istinti necrofili. Il caso della Perrocchio è un esempio lampante: i medici dell’epoca, pur con i loro metodi antiquati, stabilirono con certezza che la donna era stata uccisa la sera prima, e che il Boggia era stato molte ore col cadavere, tanto da essersi alla fine addormentato a fianco, dove era stato trovato e arrestato la mattina seguente.
Esiste anche un’altra versione relativa all’ultimo omicidio (questa fino a ora trattata e sviluppata da me in chiave narrativa è sostenuta da ACCORSI-CENTINI 2006, pp. 23-25), secondo la quale il Boggia avrebbe messo prima gli occhi sulla Perrocchio in quanto proprietaria di un grande immobile in via Santa Marta, poi l’avrebbe uccisa e falsificando documenti avrebbe fatto in modo di risultare amministratore dello stabile al posto della donna, ritiratasi, a dire del suo nuovo procuratore, sul lago di Como. L’inghippo (come raccontato in LUZZI 2016 e riportato nell’ottimo articolo di Dino Messina nel Corriere della Sera del 9 agosto 2017) fu poi smascherato da una cugina della Perrocchio e dal giudice istruttore Cesare Crivelli, il quale fece condannare il Boggia e lo fece giustiziare l’8 aprile 1862 su un carro in un campo poco fuori Milano.
Tratto dall’ebook di Giuliano Conconi, “Pulsione Omicida – I serial killer nella storia”, Primiceri Editore.