Recensione a cura di Anna Cancellieri
Il romanzo copre l’arco temporale che va dal 1343 al 1358, un periodo in cui la città di Venezia dovette sopportare terribili eventi: la peste nera, la guerra contro Genova, il tradimento del doge Marin Faliero.
Li viviamo attraverso gli occhi del giovane patrizio Michele Zorzi, confinato in una remota colonia veneziana all’estremità orientale del mar Nero. Un personaggio di luci e ombre, in cui all’irruenza giovanile si mescola una notevole sapienza mercantile, che gli frutta presto la fama di
“uomo onesto ma spietato, affarista rapace e giovane dal sicuro avvenire”
qualità che a Venezia sono tenute in gran conto e che gli fanno sperare nel sospirato ritorno in patria.
Ma alle spalle della colonia preme la sconfinata steppa russa popolata dai mongoli dell’Orda, con cui i “latini” mantengono una fragile pace sostenuta dalla convenienza commerciale. Ai primi disordini Michele è costretto a fuggire in fretta e furia, dopo aver messo in salvo la nave carica di beni su cui non fa in tempo a imbarcarsi.
Cominciano così le sue peregrinazioni, durante le quali conosce un mercante genovese con cui stringe una sincera quanto utile amicizia. Ma proprio quando i due, dopo aver accumulato una discreta fortuna, si apprestano a tornare nelle rispettive città, vengono catturati da una tribù di nomadi tartari che li trattiene come schiavi. Schiavi senza catene, è il caso di dire.
“Erano lontani centinaia di miglia da qualsiasi città. Attorno a loro c’era solo la piatta infinità della steppa dove un cacciatore esperto era in grado di riconoscere le orme di una bestia anche dopo giorni dal suo passaggio, figurarsi quelle di un uomo. Non c’era nessuno a cui chiedere aiuto né alcun luogo in cui fuggire. La loro sarebbe stata una prigione senza pareti e senza sbarre…”
Durante la loro prigionia, sempre più frequenti arrivano dall’oriente notizie di un flagello terrificante che porta solo morte. Benché trattati in modo umano, i due sono insofferenti della condizione di schiavi, così incompatibile con un’educazione e un passato da nobili. L’occasione per fuggire si presenterà nel modo più inaspettato, proprio grazie alla comparsa del terribile morbo.
Da questo momento in poi Michele fugge inseguito dalla peste, mettendo in guardia le città ancora immuni e scongiurandole, come una novella Cassandra, di chiudere le porte per tener fuori i visitatori. Nessuno gli dà retta.
Ingegnoso e raccapricciante il modo in cui i tartari, durante l’ennesimo assedio fallito, usano il morbo come arma batteriologica.
“Le catapulte tartare entrarono in funzione sotto lo sguardo sbalordito dei difensori… È difficile descrivere lo stupore provato dalla gente nel veder piovere sulla loro città non pietre né otri di sabbia ardente, ma corpi. Decine e decine di corpi.”
I cadaveri degli appestati segnano la definitiva condanna di una città inespugnabile.
La fuga di Michele e dell’amico, con le navi cariche non solo di mercanzia preziosa ma anche di marinai ammalati, mette in pericolo i porti della Sicilia e delle città costiere. Prima di rientrare a Venezia Michele si sottopone a una volontaria quarantena, ma ancora una volta le sue suppliche restano inascoltate.
“Chiudere la città ci porterebbe alla bancarotta… non possiamo permettercelo. Ormai è deciso. Venezia non si chiuderà in se stessa.”
Sono le parole inappellabili del futuro doge Faliero. Come giusto castigo per uomini così accecati dall’avidità, l’Apocalisse si abbatte sulla città e dilaga in tutta Europa, con le spaventose conseguenze che conosciamo.
Ma le sventure per Michele non sono finite. Venezia non si è ancora ripresa dal terribile morbo, che già incombe la minaccia di una guerra con la rivale Genova. Una volta per tutte le due orgogliose città dominatrici dei mari, da sempre nemiche, vogliono imporre il loro controllo sugli stretti.
Per lo sguardo premonitore di Michele è una follia.
“«…quando arriverà il momento di tirare i conti, ti accorgerai che avremo perso entrambi. Gli unici vincitori di questa guerra saranno quelli che non vi prenderanno parte: i milanesi, gli ungheresi, i catalani e, soprattutto, i turchi infedeli.»”
Parole profetiche. La guerra si trascinerà per anni, senza vincitori né vinti, dissanguando le due città.
Le imprese di Michele si snodano con naturalezza nel sorprendente scenario disegnato dall’autore, soprattutto per quanto riguarda la parte asiatica a noi così poco familiare: le remote colonie “latine”, i rapporti mutevoli con l’Orda, la steppa sterminata in cui le tribù riescono a incontrarsi senza bisogno di punti di riferimento, per celebrare i loro riti pagani.
Un po’ slegata dal resto appare la sezione dedicata all’ascesa e al tradimento di Marin Faliero, forse perché raccontata attraverso gli occhi di un personaggio secondario della famiglia Zorzi.
PRO
Avventure emozionanti inserite in un solido impianto storico. L’amicizia fraterna fra un veneziano e un genovese, nemici per definizione. Il capillare e non sempre scontato meccanismo della mercatura fra le città marinare e il lontano Oriente.
CONTRO
Una forse eccessiva lunghezza nelle descrizioni, soprattutto all’inizio. Anche lo stile risente di una certa ridondanza. La mancanza di un filo conduttore che faccia da legante per tutte le vicende narrate. L’impoverimento della trama nella parte finale.
Trama
Anno Domini 1343. Nella colonia veneziana di Tana, al confine dell’impero dei Tartari, una rissa tra mercanti costringe il giovane patrizio Michele Zorzi a fuggire verso oriente insieme al nobile genovese Baliano. Sotto il cielo della steppa, i due stringono un’amicizia destinata ad essere messa innumerevoli volte alla prova. Nel frattempo, in un mondo funestato dal gelo e dalla guerra, un nemico invisibile ma più letale di qualsiasi esercito si avvicina alle porte dell’Europa. Con sé poterà lutto e rovina di cui Michele e Baliano saranno involontari testimoni.
In un affresco del Mediterraneo trecentesco, Giacomo Stipitivich ci conduce attraverso una storia di guerra e tragedia, di complotti, amicizia e speranza.
Un frate costretto a confrontare le sue paure, un nobile furbo e ambizioso, due città martoriate dai conflitti intestini e una moltitudine di uomini e donne rimasti soli al mondo accompagnano il lettore in un’avventura medievale tra battaglie navali, intrighi, pandemie e congiure.
Una grande rievocazione storica che tocca una dimensione epica e tragica, in cui il lettore viene trasportato al tempo del dominio dei Mongoli sulla Russia e l’Ucraina e delle flotte italiane sui mari. Steppe, foreste, colonie mercantili, monasteri, palazzi del potere e campi di battaglia fanno da sfondo ai fatti della vita quotidiana di veneziani e mongoli, greci e genovesi, monaci e fanciulle, patrizi e popolani, dogi e guerrieri.
Stipitivich fa rivivere un’epoca affascinante e dimenticata dove lutto e rinascita si fondono in una storia in cui si intrecciano le vicende di uomini e donne che cercheranno con ogni mezzo di superare la grande tempesta.