Luca Arnaù, scrittore da sempre e bestsellerista da qualche anno, vorrei iniziare quest’intervista con due domande un po’ provocatorie. Il compianto Cormac McCarthy, che ci ha lasciato da poco, era insofferente a interviste, presentazioni di libri e firmacopie, perché sosteneva che tutto ciò che aveva da dire era lì sulla pagina, tra le righe della sua prosa artistica. Non pensi che il mestiere dello scrittore sia semplicemente quello di leggere e scrivere e che concedere interviste per chiarire il proprio pensiero e farsi conoscere meglio dai lettori sia inutile e squalificante per un artista della parola?
Ovviamente ogni scrittore è diverso. E sicuramente Cormac McCarthy è stato un grande a livello mondiale. La strada, Non è un paese per vecchi, tanto per citarne un paio, sono grandi romanzi. Ma il fatto che anche io ami i suoi libri non vuol dire che debba essere d’accordo con lui su ogni cosa. Personalmente adoro il contatto con i miei lettori. Mi piace moltissimo confrontarmi con loro, raccontare i retroscena dei miei romanzi, rispondere alle loro curiosità. Per Le Dieci Chiavi di Leonardo ho fatto oltre trenta date tra presentazione e firmacopie in giro per l’Italia. Ed è stata un’esperienza unica. Ho lettori che sono diventati amici importanti, compagni di avventure dei miei romanzi in divenire. Mi aiutano a trovare la rotta. Ho un rispetto totale per chi legge i miei libri.
Il più grande scrittore di sempre, Omero, colui che ha tracciato gli archetipi di ogni romanzo storico, di guerra e d’avventura, da un punto di vista biografico è per noi un illustre sconosciuto. In pratica non sappiamo nulla di lui. Eppure, ciò non costituisce un limite per chi si approccia alle sue opere ma, se possibile, ne aumenta il fascino. Questo vale per molti altri autori dell’antichità e dell’età moderna. Pensi che gli autori di oggi, quelli che arrivano al successo, siano mediaticamente sovraesposti, che stiano diventando dei personaggi da show e da social, oppure li vorresti ancora più esposti?
Io credo che chi riesce a far conoscere il mondo dei libri, in ogni caso, faccia qualcosa di meritorio. Poi c’è chi esagera. Ci sono colleghi che possono contare su un appoggio mediatico “a prescindere”. E che finiscono per fare tappezzeria nei talk show pur di vendere qualche copia in più. Ma lo ripeto: ognuno di noi è diverso. Io per esempio non amo andare in tv anche se, soprattutto come direttore di giornali, potrei esserci spesso. Bisogna essere portati per quel tipo di esposizione. Io odio essere al centro dell’attenzione. Anche se poi, alla fine, conta solo una cosa… Scrivere un buon libro!
Come sai ho letto tutti i tuoi libri, inclusi quelli che usciranno a breve, e devo dire che sono tutti belli e ben scritti. Sono delle storie per lo più inventate con protagonisti reali di chiara fama, in un passato ricostruito con accuratezza. Hai cominciato dai thriller storici e avventurosi con protagonista Leonardo Da Vinci in versione giovane detective. Sono tre romanzi, di cui l’ultimo non ancora edito. È un filone che ti ha dato molto sia in termini di soddisfazioni personali che di vendite. Pensi di tornarci? Il detective Leonardo, pur vivendo nel passato, avrà un futuro?
Sicuramente sì. Il primo libro Le dieci chiavi di Leonardo è appena uscito in Francia, mentre la terza indagine del genio fiorentino uscirà in Italia in autunno. Adoro Leonardo, sia come carattere principale del mio universo letterario, sia come personaggio storico realmente esistito. Trovo che tutti pensino di sapere tutto su di lui, mentre, in realtà, per molti è solamente uno stereotipo. Si leggono in giro tante agiografie, è stato trasformato in una sorta di santo laico, ma in realtà del vero Leo si sa poco e niente.
Io nei miei libri ho cercato di dargli un’anima, una struttura reale, quello spessore umano che troppo stesso gli viene negato. Sia nelle Dieci Chiavi di Leonardo che nell’Enigma di Leonardo è un giovane uomo, che si trova a investigare su delitti mostruosi. Una persona piena di dubbi, dotata però di una capacità incredibile di leggere la realtà con attenzione e razionalità.
Yeshua il Prescelto, il romanzo sulla giovinezza di Gesù e Barabba, due storie parallele che si intrecciano nel finale, è uscito da poco in libreria. Credi in Dio? Che rapporto hai con la fede?
Di base sono un credente pieno di dubbi. Tanto più che non sono cristiano, ma buddista da quasi vent’anni. Una fede che ho scoperto nei miei lunghi viaggi in Asia, nei reportage dalla Thailandia, dalla Birmania e dal Laos. E che è più una filosofia di vita che una religione vera e propria. In più ho una moglie cristiano ortodossa che mi regala punti di vista affascinanti. Vengo da una famiglia profondamente cattolica, avevo persino uno zio prete. Insomma, credere è nel mio DNA e sono sempre stato profondamente affascinato dalla storia di Gesù. Da qui la mia necessità di raccontarlo in Yeshua il Prescelto che non è un libro religioso, ma un romanzo storico a tutti gli effetti. Ho riscritto a modo mio una storia, anzi, la più grande storia mai raccontata. Con grande rispetto e un affetto profondo.
È stato più difficile creare il personaggio letterario di Gesù o di Barabba?
Sicuramente Gesù. Perché, ancora più di Leonardo, tutti coloro che hanno letto, leggono o leggeranno il mio libro pensano di sapere tutto su di lui. Chiunque chiude gli occhi e può immaginarsi il suo Yeshua personale. Anche se, in realtà, poi sono pochissimi quelli che vanno oltre gli stereotipi religiosi e i quattro Vangeli autorizzati dalla Chiesa. Quindi è difficilissimo descrivere un personaggio così famoso e, addirittura, costruirci intorno un romanzo.
Tanto più che Yeshua per un cristiano è Dio incarnato, per un ebreo è una sorta di millantatore, per i romani dell’epoca era solo una grossa grana da risolvere. Per farlo ho letto moltissimo: una ventina di vangeli non ufficiali, scritti da contemporanei di Gesù, come il Vangelo di Giuda, il Protovangelo Siriaco, quello Egizio e quello di Giuseppe il Falegname. Insomma, una poderosa ricerca sul campo che mi ha tenuto occupato per molti anni. Bar-abbâ, per usare la corretta grafia aramaica del nome che significa “Figlio del Padre”, era un capo zelota, un ribelle. Del suo personaggio storico si sa poco, quindi è facile cucirgli addosso una figura romanzesca credibile.
A differenza di molti tuoi colleghi, ti approcci alla fede e alle religioni degli altri sempre con molto rispetto, come si evince soprattutto da Yeshua, ma anche dai romanzi su Leonardo. Sappiamo che gli scienziati di oggi li abbiamo quasi del tutto persi alla fede, mentre gli scrittori, gli uomini di lettere non ancora totalmente, pur essendo ben avviati sulla strada del nichilismo. Come si conciliano fede e ragione per un intellettuale dei nostri tempi?
Io rispetto la fede di tutti. Per scrivere Yeshua ho addirittura collaborato con Davide Frumento, un editor ebraico che è andato ad affiancare Alessio Cavanna, che è l’editor “tradizionale” e il bravissimo Andrea Oliverio che, da ottimo scrittore di romanzi romani, si è occupato di controllare parola per parola l’ambientazione imperiale.
So che posso apparire maniacale, ma non voglio assolutamente che chi legge i miei libri possa trovare errori dal punto di vista della storia. Per questo controllo e ricontrollo ogni cosa. Riguardo alla fede… Che dire? Non sono un uomo di fede, ma un uomo di dubbi. Nel prologo del romanzo il vecchio Daniel, colui che narra la storia di Yeshua, dice una frase che mi racchiude perfettamente: “Ancora oggi non so se Yeshua fosse o meno il mashiach d’Israel, l’eletto atteso da tutti gli ebrei, come sostengono in molti. O addirittura il figlio di HaShem come dicono i suoi seguaci. Personalmente ho sempre saputo che fosse solo il figliolo di abba Yosef, ma forse la mia mente è troppo limitata per riuscire a leggere nella maniera corretta i fatti incredibili che mi accingo a raccontarti”.
Puoi dare ai lettori qualche anticipazione sul romanzo che stai scrivendo in questi giorni?
Ho terminato da poco il terzo romanzo delle indagini di Leonardo da Vinci che dovrebbe chiamarsi L’arcano di Leonardo e che rappresenta la chiusura di una trilogia. L’inventore è di nuovo al fianco dei fidi aiutanti Isaac Demetrius e Bencio e si trova a combattere un altro terribile assassino seriale che rivendica la morte delle sue giovani vittime lasciando sul loro corpo una carta dei tarocchi. In questo momento, poi, ho praticamente terminato la storia di un altro personaggio famosissimo, Vlad l’Impalatore, raccontato dal punto di vista storico per il primo romanzo di una nuova trilogia che dovrebbe chiamarsi Le cronache di Draculia. E che presto consegnerò alla casa editrice.
Quali sono le differenze che saltano all’occhio a uno scrittore di romanzi storici come te, tra il Quattrocento italiano, quello di Leonardo, e il Quattrocento nell’Europa orientale, nella Valacchia, a Costantinopoli, in quelle zone lì? E qual è il più difficile da descrivere secondo te?
Anche in questo caso la mole di informazioni che si hanno sul Rinascimento fiorentino è infinitamente superiore rispetto a quello che si sa del Quattrocento in Valacchia. C’è, tra i lettori italiani, una confusione totale data dalla narrazione del Dracula di Bram Stoker che ambienta addirittura la sua storia in Transilvania, trasformando un personaggio storico veramente esistito, in un vampiro. Per questo il mio non sarà un romanzo horror, almeno non nel senso tradizionale della parola anche se, per raccontare la vita di uno che ha impalato quarantamila persone, l’orrore resta dietro l’angolo.
Diciamo che sarà una paura reale, non soprannaturale. L’idea dietro il mio libro è quella di andare a scoprire come un uomo realmente esistito possa essere considerato tanto cattivo da diventare sinonimo stesso di mostro assetato di sangue. Tanto più che lo stesso Vlad III viene considerato dagli storici rumeni una sorta di eroe romantico.
Il maestro italiano di tutti noi “cappaspadisti”, Emilio Salgari, almeno nei suoi romanzi più conosciuti, che sono il ciclo dei corsari delle Antille e il ciclo dei pirati della Malesia, dava largo spazio all’immaginazione, all’invenzione, alla fantasia più che al rigore storico nell’esposizione dei fatti. Anche per te è così o ti senti più “storico” rispetto al maestro?
Io adoro Salgari, tanto che spesso nei miei romanzi sono nascoste citazioni dei grandi romanzi dello scrittore veronese. Io credo che la precisione storica sia una bussola che bisogna seguire quando scrivi un romanzo che affronta un’epoca specifica. Ma questo non vuol dire che la grandezza dei libri di Sandokan e del Corsaro Nero possa essere sminuita in alcun caso. Io, oggi, ho molte fonti in più rispetto a lui per ricreare una descrizione storica precisa. Basta pensare a internet e all’intelligenza artificiale. Ma vorrei avere un decimo della sua capacità di creare storie e personaggi indimenticabili.
Che ne pensi della divulgazione storica per come viene affrontata oggi sui social, che mischia fatti documentati, battute di spirito, opinioni personali, suggestioni e cialtronerie? Credi che sia utile, superficiale, dannosa?
Può essere divertente se presa a piccole dosi. E se viene fatta senza inventarsi di sana pianta una notizia pur di avere un buon numero di clic. Ma è un discorso più generale che va ad abbracciare un po’ tutta l’informazione. La realtà viene piegata alla curiosità, la verità diventa opinabile… e questo non mi piace neppure un po’. Quello che mi fa più paura è la non capacità di affrontare in maniera critica le informazioni che ci vengono fornite. Si crede a prescindere. Questo crea il fenomeno del complottismo, di chi crede di sapere quello che non sa: basta che uno scriva una stupidata che trova qualcuno disposto a prenderla per buona. Almeno io, in quanto scrittore, produco fiction. Non verità! E lo faccio alla luce del sole senza pretendere di spacciare per autentico quello che non lo è.
Pensi che un narratore storico sia anche un divulgatore, uno che insegna storia alla gente, come sostengono diversi tuoi colleghi? Non sarebbe più sano riportare la narrativa storica nell’alveo della letteratura, della prosa d’arte, e lasciarcela?
Io credo che la differenza sia nel modo in cui si cerca di divulgare la storia. A me piace raccontare tanti particolari, descrivere odori, sapori, sensazioni. Adoro raccontare fatti storici reali, inserire personaggi, andare alla ricerca di coincidenze che possano lasciare a bocca aperta. Nell’Enigma di Leonardo, per esempio, c’è una scena in cui si parla di un’operazione di trasfusione del sangue. Molti hanno contestato che fosse una parte poco consona al periodo. Beh… non è vero. Il primo tentativo di fare una trasfusione da un donatore è del 1492 quando si provò a salvare papa Innocenzo VIII donandogli il sangue di tre giovani chierici. Finì male… Morirono tutti e quattro. Ma questo vuol dire che, nella cultura del tempo, l’idea di questa particolare pratica medica era discussa e accettata. Se questa è divulgazione, ben venga. Poi io racconto storie… e nulla più!