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Recensione de “La cura delle parole” – Maurizia Girlando

Recensione a cura di Laura Pitzalis

Tante sono le definizioni del sostantivo “parola” che si trovano sui dizionari della nostra lingua: vocabolo, motto, accento, verbo, termine, definizione, voce, fonema, lemma, detto, espressione, discorso, ragionamento, loquela, eloquenza.

Come tante sono le loro “azioni”: possono confortare o ferire, nettare o bruciare. Sono potenti, importanti e soprattutto rappresentano uno dei grandi privilegi dell’uomo, gli consentono di comunicare, tramandare saperi, suscitare emozioni ma anche colpire, mentire, essere muri e pure uccidere.

E possono essere salvifiche, come quelle a cui fa riferimento il titolo del romanzo di Maurizia Girlando, “La cura delle parole”, pubblicato da Santelli editore, dove evocano la memoria, curano il corpo e, soprattutto, lo spirito di chi racconta e chi ascolta. Ogni parola ha una voce perché ogni parola ha una storia da raccontare che si svela pagina dopo pagina, riga dopo riga, che ci fa conoscere gli incontri, i misteri, le disgrazie e le fortune che hanno segnato la strada delle tre protagoniste, Olga, Gisella e Ortensia..

“Accarezzo Gisella sul viso che è quasi di profilo. Chissà che qualche ricordo possa riportarla alla vita? Che le parole, quelle antiche, che ci avevano unite, possano portare un soffio di voglia di vivere…”

Olga Maffei è una maestra, la più anziana delle tre protagoniste. Da Torino si trasferisce giovanissima, appena concluso le Normali, in un paesino di montagna, Fenestrelle, dove freddo e neve la fanno da padroni fino a giugno, con una pluriclasse affollata da studenti che faticano ad arrivare in terza perché occupati a lavorare nei campi. Ama questo lavoro che l’aiuta a superare i soprusi che una donna di quell’epoca doveva subire: le molestie sessuali di un conte, padrone indiscusso del luogo, e di uno che fa perdere le proprie tracce dopo averla illusa di sposarla.

Distingue i talenti tra i suoi alunni e si prodiga perché proseguano negli studi, pur appartenendo a famiglie povere in cui due braccia in più sono essenziali per andare avanti.

Uno di questi talenti è Gisella. Grazie all’aiuto di zii benestanti e progressisti, che la ospitano nella loro casa torinese, perché a casa ci sono troppe bocche da sfamare, riuscirà a diplomarsi alla Normale e diventare anche lei maestra. Non solo, sempre grazie a loro, che ne intuiscono e ne assecondano il talento, riuscirà a diventare un’eccellente tipografa e illustratrice di libri.

“… – Sono qui con un nuovo associato. Disse zio Alfio entrando al signore che stava dietro a un tavolo. – Dove è questo nuovo associato? – Qui davanti a te. – Ma è una donna, non si può. – È una donna ma è mia nipote, è come mia figlia e lavora con me, anzi è più brava di me. Ho la quota per associarla. – Dobbiamo parlarne con il comitato… – Parlatene ma Gisella Blanc deve essere una nostra associata, ecco qui la quota. Porgendo le banconote. Sono iscritta al Mutuo Soccorso da allora. Così, nei mesi successivi, me ne stavo seduta con il mio secchio d’acqua di fianco e almeno quattro pennelli di misura diversa. Bagnare il pennello, straccetto pulito e asciugare il giusto, questo è difficile, prima velatura, pressione sempre uguale, anche questo è difficile, non uscire dai contorni del segno dell’acquaforte, saper aspettare che asciughi e poi le seconde velature, le sfumature quelle che danno la profondità”.

Siamo in un tempo non troppo lontano attraversato dalla Prima Guerra Mondiale, in Piemonte. Un tempo in cui le montagne distano mille vicissitudini di viaggio da Torino e in cui Torino stessa è popolata da una moltitudine di classi sociali e parlate.

Il romanzo si apre con Gisella che viene accolta in casa dall’anziana Olga, dopo che due uomini l’hanno trascinata, quasi morta, via dal fiume. Ad aiutare Olga la sedicenne Ortensia anche lei una sua ex alunna.

Inizia così un’intima sequenza di storie, storie per scuotere dall’apatia Gisella, per spingerla a lottare. Storie dal sapore di pane inzuppato nel latte bollente e di tisana alla melissa. Un susseguirsi di parole che evocano ricordi, fragilità emotive, impregnate di pathos e di dolore, tanto dolore che funge da catarsi, che purifica, libera e cura.

“La cura delle parole” non è altro che storie di vita di Olga, Gisella e Ortensia raccontate da loro, storie che Maurizia Girlando, con fedeltà storica e attenzione ai dettagli, inserisce nella Grande Storia. Le intreccia in un’Italia da poco unita sotto un Re, destinata a vedere la Storia ripetersi in una nuova scia di sangue con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma anche l’incalzare dello sviluppo tecnologico: le Grandi Esposizioni, il Cinematografo, l’affermarsi dell’industria meccanica, le prime fotografie.

“Quando partirono i primi soldati, lo fecero cantando; ci avevano detto che con la nuova tecnica la guerra sarebbe stata brevissima. Perché non crederci? Ne avevamo viste di novità negli ultimi decenni! Partivano con l’idea di tornare dopo pochi mesi …”

Oltre le protagoniste, anche i luoghi dove si svolgono le vicende hanno una loro bella parte nel romanzo. Torino, che vediamo svilupparsi e rinnovarsi attraverso il tempo nelle parole di Olga e Gisella: la povertà, il colera, le lavandaie sul Po, Don Bosco, ma anche le nuove piazze e viali, la moda che cambia e si evolve, e l’arrivo del progresso con i Grandi Magazzini e l’illuminazione per le strade.

Stavano costruendo molti palazzi e addirittura si parlava di aprire una via nuova! Torino non era più la capitale del Regno ma c’erano tante industrie nelle periferie e un commercio nuovo. Passeggiando si poteva ammirare la merce dalle vetrine dei negozi e arrivando fino a quell’angolo con quell’insegna “Grandi Magazzini d’Italia” potevi entrare dentro guardare e non comprare nulla”.

E poi la Val Chisone e Fenestrelle di fine ‘800 con i pascoli, le miniere, la vita contadina, la scuola, il freddo, la fame ma anche i personaggi che hanno fatto la storia del paese: il signor Pin e la sua ricetta del “Genepy”, i soldati del Forte …

“… In bella mostra le bottiglie del suo genepì con le sue etichette in sfumature di verde bordate di oro, in fila, sulle mensole di legno d’abete del nostro paese. Allora il Signor Pin si mise dietro al banco e versò nei bicchierini il liquore, quasi urlando lo offriva, senza pagamento. A chi passava spiegava cosa fosse. – È fatto con le erbe delle nostre montagne, forte come il fuoco, dolce come il miele.”

Un romanzo dolce, delicato, appassionante e coinvolgente, con uno stile narrativo che, in verità, mi ha spiazzato non poco: non c’è nessun segno di separazione nell’esposizione del testo tra gli eventi del passato raccontati dalle protagoniste e quelli che riguardano il presente che stanno vivendo, creando, a parer mio, confusione per chi legge.

Nonostante questo, il romanzo cattura con finezza e garbo il lettore che si lascia permeare dalla narrazione fino al commovente e bellissimo epilogo.

Un libro ricco di significato attraverso il quale la Girlando ci manda un messaggio molto chiaro: quel “dolore del vivere”, insito nell’essere umano di ogni epoca che troppo spesso viene oscurato, può essere curato con l’amore, l’altruismo e con le parole. L’anima, il suo messaggio forte, che si può dedurre già dal titolo, sono poi l’effettivo valore aggiunto di questo romanzo.

Io racconto … e spero.”

Sinossi

Al termine della Prima Guerra Mondiale, tre donne si trovano nella stessa casa: Olga, Ortensia e Gisella. Olga vede due uomini trasportare il corpo di Gisella, così insieme a Ortensia decide di prendersi cura della donna. Le parole diventano centrali nel processo di cura dell’altro, di chi ha subito dei colpi. La loro vita, raccontata con amore e inserita nella Grande Storia, cerca di guarire le ferite. I ricordi, i gesti, le persone rimangono impressi nell’anima e provano ogni giorno a darle sollievo. Le conseguenze della guerra, la violenza, le passioni: infine, la cura, che si esplica attraverso i gesti, la preparazione del cibo, le carezze, le parole che curano l’anima.

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