Genova racconta Mazzini
Articolo a cura di Sonia Morganti
Sono una signora agghindata di fascino e memoria. Apro l’abbraccio al mare, aggrotto la mia fronte sui colli e vi racconto le tracce che i miei figli mi hanno lasciato nel cuore.
Tutti vagabondi, loro. Molti per virtù, quello di cui vi parlo oggi lo fu per necessità.
Si chiamava Giuseppe Mazzini, questo figlio, e vide la luce tra i miei vicoli ombrosi a ridosso del porto, in Via dei Lomellini. Oggi quel palazzo ospita un bel museo a lui dedicato, ma conserva anche tracce della storia della sua città, cioè della mia storia. Sono una ribelle, sebbene vedendo il mio volto elegante e dal compiaciuto tocco démodé non si direbbe.
Ma torniamo a Giuseppe.
Immaginiamolo bambino, lì a Via dei Lomellini, con tre sorelle e un fratello. Con loro c’erano Giacomo, il padre un chirurgo dai trascorsi giacobini e dai piedi per terra, e Maria, madre dalla personalità fervida a cui Giuseppe era legato da una vera comunanza d’anima. Non sorprendono allora le parole e le azioni che dimostrano stima e rispetto per le donne, in una concezione anacronistica per la propria epoca.
Non esiste disuguaglianza tra l’uno e l’altra […]ma, come spesso accade tra due uomini, diversità di tendenze, di vocazioni speciali. Abbiatela eguale nella vita civile e politica. Siate le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere.
Non è Via dei Lomellini, a due passi dal mio porto, il posto dove prende a strimpellare la sua adorata chitarra, custodita nel museo e che, in occasione di ricorrenze storiche, viene ancora suonata.
Infatti la famiglia Mazzini si trasferisce presto a Castelletto, a Salita dei Forni, e da lì il giovane Giuseppe può osservarmi bella e solenne come la regina del mare che sono stata e che sempre sarò.
Dal poggiolo della sua stanza, il ragazzo ammira le campanule e coglie fraseggi in dialetto ai quali si appassiona, riconoscendovi espressione della più genuina cultura di un popolo. Non farà mai differenze di lingua – siano inglesi, svizzeri o romani– ma l’inclinazione per quel tipo di canti gli nasce prima di tutto dalla memoria delle voci che risuonavano tra gli orti, e dunque lo rivendico.
Ma questo ragazzo mingherlino guardava lontano, come tutti i miei figli.
Molti di loro hanno puntato gli occhi oltre il mare, lui oltre i confini imposti dalle potenze straniere e oltre i diritti limitati che soffocavano un secolo scalpitante di progresso e cambiamenti.
In un certo senso, Giuseppe Mazzini è stato un visionario: Colombo cercava una rotta nuova per raggiungere le Indie, lui voleva un’Italia unita e persino – udite, udite! – repubblicana.
Era così: idealista e organizzatore, concreto e sognatore, come io sono divisa tra terra e mare.
Così, appena si fa abbastanza adulto, come ogni futuro patriota che si rispetti, anche Giuseppe entra nella Carboneria. E finisce incarcerato a Savona al primo processo.
Inizia dunque la sua vita da viaggiatore per necessità, tra un esilio e l’altro, sempre più lontano da me, da Genova, man mano che le sue idee si fanno più ferme e quindi la sua posizione processuale più grave.
Marsiglia, a due passi, è stata la città della speranza: di tornare in fretta, di cambiare con successo le cose. Non distante da me è stata fondata ufficialmente la Giovine Italia.
Le grandi rivoluzioni si compiono più coi principî, che colle bajonette: dapprima nell’ordine morale, poi nel materiale. Le bajonette non valgono se non quando rivendicano, o tutelano un diritto: e diritti e doveri nella società emergono tutti da una coscienza profonda, radicata nei più […] I soli principî, diffusi e propagati per via di sviluppo intellettuale nell’anime, manifestano nei popoli il diritto alla libertà, e creandone il bisogno, danno vigore e giustizia di legge alla forza.
Da questo punto in poi, Mazzini verrà sempre considerato un sobillatore, anche se lui preferiva la definizione di agitatore: colui accende gli animi perché, per guardare al futuro, quello che serve è luce.
Quando le cose si mettono male, il mio Pippo – così lo chiama chi gli vuole bene – parte alla volta della Svizzera, dove ha conosciuto la depressione unita alla consapevolezza che il rientro era lontano e la strada più tortuosa di quel che avesse immaginato.
Quindi, ripara a Londra. Alla fine è riuscito persino ad amare quella città fumosa e nel museo di Via dei Lomellini sono conservate lettere inedite, scritte di suo pugno, che provano quanto si spendesse per aiutare gli italiani arrivati fin lì sulla spinta della miseria o della persecuzione politica.
I suoi momenti di gloria e dolore li ha passati però a Roma, quella città un po’ sbruffona e bagnata da un ruscello pretenzioso.
Lì, nel 1849, gli ideali di Giuseppe Mazzini permearono la Costituzione della Repubblica Romana. E sapete a cosa somiglia tanto? Alla Costituzione italiana, arrivata però un secolo e due guerre mondiali dopo. Semplicemente, Mazzini vedeva troppo avanti per vincere e, con un esplicito mugugno, dal carro dei vincitori si è sempre allontanato.
I – La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato Romano è costituito in repubblica democratica.
II – Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta.
III – La repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini.
IV – La repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana.
V – I Municipii hanno tutti eguali diritti: la loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato.
VI – La più equa distribuzione possibile degli interessi locali, in armonia coll’interesse politico dello stato è la norma del riparto territoriale della repubblica.
VII – Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici.
VIII – Il Capo della Chiesa Cattolica avrà dalla Repubblica tutte le guarentigie necessarie per l’esercizio indipendente del potere spirituale.
Quando ci siamo rivisti, è spesso finito braccato, quasi che nei miei vicoli fosse costretto a giocare a guardie e ladri. Ma lui, così appassionato e signorile, cos’ha mai rubato? Forse la certezza che la monarchia fosse l’unica possibilità? Sotto un certo punto di vista, togliere tali convinzioni a chi vi appoggia tutto il proprio peso è davvero un crimine di lesa maestà!
E così mi muore lontano anche questo figlio. Non tanto in senso geografico, perché spira a Pisa, ma in senso familiare: era sotto falso nome, logorato da un tumore e da troppe peripezie. Quando si scoprirà che Giorgio Brown era in realtà Giuseppe Mazzini, lo piangeranno in tanti.
Io invece lo celebro con la discrezione che gli piaceva: con un museo piccolo ma ricchissimo e con una statua che, figuratevi, per modello ha avuto un cugino che gli somigliava tanto.
Firmato,
Genova, la Superba