genova nel suo secolo di splendore
Articolo a cura del Prof. Giacomo Montanari
Sono i primi mesi del 1604. Un giovane fiammingo giunge a Genova di ritorno da Valladolid, dove ha partecipato all’ambasciata del Duca di Mantova – Vincenzo I Gonzaga – presso il Re di Spagna.
Le sue necessità sono molto pratiche: farsi rimborsare i denari spesi nel viaggio dal banchiere di fiducia del Duca, l’aristocratico genovese Nicolò Pallavicino. Ma l’incontro con la realtà culturale della Superba e con la sua spregiudicata aristocrazia, così come la suggestione generata dalla formidabile e nuova dimensione architettonica rinascimentale assunta dalla città – con uno sforzo straordinario – nella seconda metà del Cinquecento, lasceranno sul giovane un segno indelebile. Quel ventisettenne di belle speranze altri non è che il pittore Pietro Paolo Rubens, che in questi anni italiani si appresta a rivoluzionare per sempre il linguaggio dell’arte europea, esprimendo con una sfolgorante consapevolezza le prime opere compiutamente e pienamente barocche. Anzi, proprio Genova e i Pallavicino saranno la rampa di lancio per la carriera pubblica dell’artista, con la commissione – nel 1605 – per la pala d’altare della chiesa del Gesù di Genova, raffigurante la Circoncisione.
Ma per Rubens Genova doveva aver rappresentato molto di più: un modello, forse ideale, di città territorialmente piccola, ma il cui potere finanziario era diventato ago della bilancia politica dell’intero scacchiare europeo. Qui il potere era depositato nelle mani di una ricchissima aristocrazia, mentre il ruolo apicale – quello del Doge – aveva la durata in carica estremamente transitoria di soli due anni.
i palazzi dei rolli
Per altro, negli anni in cui il fiammingo frequenta la città (con andate e ritorni, tra il 1604 e il 1607, prima di lasciare per sempre l’Italia nel 1608) sono in uso a Genova i Rolli degli alloggiamenti pubblici, cioè le liste – ufficiali, emesse dal Senato della Repubblica – dei palazzi privati che venivano però sorteggiati per la funzione pubblica dell’hospitaggio delle visite di stato istituzionali. Un sistema unico al mondo, che metteva al centro dell’attenzione i meravigliosi palazzi costruiti nel secolo precedente e decorati – con affreschi, dipinti, arazzi, suppellettili di pregio eccezionale – dai loro proprietari, a gara l’un con l’altro.
Questo sistema, che – per altro – comprendeva nell’uso (anche se non nelle liste) anche le ville suburbane (numerosissime a levante e ponente della città) venne subito compreso come eccezionale e nuovo modello abitativo di portata internazionale da Rubens. Fu per questo motivo che egli si fece autore e editore di un volume pubblicato nel 1622 in Anversa, dedicato integralmente ai Palazzi di Genova – questo è il titolo – e totalmente illustrato, non essendo presenti tra le sue pagine altre parole se non quelle della strepitosamente acuta introduzione del pittore stesso. In queste poche righe Rubens dimostra di aver intuito – forse perché proviene da una realtà assai simile a livello sociopolitico – l’importanza e l’aggiornamento del modello abitativo dei genovesi, adatto a dei “gentil’huomini particolari”, cioè non sottoposti al controllo di una corte di un monarca assoluto.
Allo stesso tempo, però, coglie i limiti e la transitorietà di questo spregiudicato sistema di speculazione che permette d’arricchirsi smisuratamente in breve tempo: i palazzi non riportano i nomi dei proprietari, dal momento che i passaggi proprietari sono assai frequenti, così come l’alternarsi delle fortune economiche delle famiglie. I palazzi, però, hanno perdurato nel tempo, segnando ancora oggi la fisionomia della città di Genova e venendo riconosciuti come Patrimonio dell’Umanità UNESCO nel 2006, grazie allo straordinario lavoro di ricerca d’archivio e sul territorio di Ennio Poleggi.
Ancora oggi espongono con forza il rapporto dell’aristocrazia genovese con la cultura, con la politica e con la dimensione economica del XVI e XVII secolo, attraverso – soprattutto – gli straordinari cicli ad affresco che li decorano. Sono immagini che spaziano dal tardo Rinascimento, fino allo sfolgorante barocco di fine Seicento, evidenziando la spettacolosa durata diacronica di quello che Fernand Braudel definì El Siglo de los Genoveses.
le maggiori opere
È così che in casa di Vincenzo Imperiale, nel 1560, troviamo Luca Cambiaso impegnato in una eccezionalmente colta allegoria politica, realizzata mettendo in relazione la vita di Cimone d’Atene – descritta da Plutarco nelle Vite Parallele – con le virtù ideali che un sovrano deve possedere e che si riflettono, dunque, nei ritratti a stucco di Carlo V e Filippo II d’Asburgo.
Lo stesso Cambiaso, vero e proprio campione del manierismo genovese e artista noto e amato a livello europeo, effigierà per i Lercari – nel possente palazzo eretto in Strada Nuova – l’Edificazione del Fondaco di Trebisonda, fatto storico importante per le vicende del Comune medievale, per quanto incastonato in una spettacolosa fake news familiare, in cui si pretendeva che il loro antenato Megollo avesse vendicato l’onore offeso mozzando nasi e orecchie a centinaia di servitori dell’Imperatore d’Oriente, recapitandoli poi a domicilio al sovrano in barilotti di salamoia.
Ma nello stesso volume di Rubens, oltre ai meravigliosi palazzi edificati nel corso del Cinquecento, presero posto anche nuove e potenti architetture barocche, come l’edificio progettato da Bartolomeo Bianco per Giacomo e Pantaleo Balbi nella seconda delle “strade nuove”, la meravigliosa via che portava il nome della loro famiglia per l’impegno a costruirla in risposta al bando emesso, nel 1601, dai padri del Comune.
Al figlio di Giacomo, Francesco Maria Balbi – l’uomo più ricco della città a metà del XVII secolo – si deve il rinnovamento del palazzo, la costruzione del giardino e – in particolare – la commissione del più impressionante ciclo di affreschi barocchi per qualità ed estensione. Francesco Maria, un plutocrate spregiudicato e con un eccezionale fiuto per gli affari, ingaggiò il giovane e talentuoso Valerio Castello per decorare l’intero secondo piano nobile del palazzo: un ciclo rivoluzionario che la morte dell’artista, nel 1659, fece rimanere incompiuto.
La Galleria del Ratto di Proserpina – eseguita attorno al 1655 – è la prima sperimentazione di un linguaggio spaziale d’impronta cortonesca in Liguria e dimostra tutta la capacità pittorica di Valerio Castello, le cui figure diafane, eppur potentemente delineate da una linea di contorno movimentata e meravigliosamente grafica, svolazzano con leggiadria per l’intero spazio della volta.
Nei salotti poi Valerio diede sfogo alla sua creatività gioiosa e metamorfica, evocando divinità, putti, immagini di letizia e prosperità. Una visione che cambierà radicalmente nell’ultimo, estremo, spazio decorato dall’artista l’anno della sua morte. La città, infatti, aveva appena vissuto un evento terribile: per due anni, dal 1656 al 1658, un diabolico morbo aveva falciato ben due terzi della popolazione, lasciando Genova dissanguata e immota. Nel grande salone di Francesco Maria Balbi, allora, Valerio tornava ad appoggiare i pennelli all’indomani di questa immane tragedia, alla quale – per altro – egli stesso sopravviverà per una manciata di mesi.
Ecco che la tavolozza si scurisce, così come i temi figurati, sempre – però – tratti dal mito: al centro trionfa Saturno, nelle vesti di Padre Tempo che divora i suoi figli. È ritto su un carro trainato dalle Ore, che rappresenta lo scorrere inarrestabile del tempo stesso che travolge, inarrestabile il potere temporale e spirituale, le arti, ciò che l’uomo ritiene eterno e durevole. Sotto le ruote del carro giace anche un corpo, pallido e smunto, la cui mano abbandonata tocca, con le dita macilente, lo stemma araldico dei Balbi posto sulla cornice illusoria del riquadro centrale.
È forse la raffigurazione del giovanissimo cugino di Francesco Maria, Giovanni Battista Balbi: letterato, collezionista e vero astro nascente della famiglia, egli era perito – giovanissimo – nella recente peste. Una lettura che spiegherebbe bene la presenza della Fortuna che, scavalcata agilmente l’illusoria balaustra dipinta, spicca il balzo nel vuoto del salone sull’instabile sfera che dovrebbe garantirle un fragile equilibrio. La meravigliosa giovane è affrontata dalla Fama, che fa squillare la sua tromba verso l’alto, segno che sta esaltando la virtù e il prestigio della famiglia Balbi.
Il Tempo tutto travolge, la Fortuna – incerta e volubile – innalza e affossa gli uomini e le loro vite, ma le azioni virtuose risuonano nell’eternità grazia alla Fama della loro memoria.
Un motto che potrebbe essere ripreso anche per la storia straordinaria della Genova del Cinque e del Seicento: capitale della finanza mondiale, ago della bilancia della politica europea, modello abitativo alla moderna per l’aristocrazia barocca, luogo dove confluirono alcune delle più spettacolose collezioni d’arte d’Italia, le sue alterne vicende e il suo carattere schivo e operoso l’hanno spesso tenuta nascosta come città d’arte e di cultura. Eppure, la sua fama squilla, con chiare note, a partire dalle famose parole dedicatele dal Petrarca: “Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, Superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare”. Un aspetto formidabile che i Palazzi dei Rolli hanno ribadito e ribadiscono, nei confronti di decine di migliaia di visitatori, ogni anno.