genova nel medioevo. profilo di una città mediterranea
A cura di Antonio Musarra
Indomita a periglio ed a guadagno,
or tutt’ala di remi al folle volo,
or piantata nel sodo col calcagno
(Gabriele D’Annunzio, La canzone del sangue)
Nell’inverno del 1287 giungeva a Genova un monaco nestoriano d’origine turco-uigura: rabban Ṣauma, inviato dall’īl-khān mongolo Arġun con il compito di promuovere un’alleanza con i “franchi” – così erano chiamati in Oriente i cristiani occidentali – contro l’Egitto mamelucco, in procinto di debellare la presenza latina in Terrasanta.
L’ambasciata era partita da Maragheh, a sud di Tabriz, nell’attuale Iran nord-occidentale, con 2000 libbre d’oro, una trentina di cavalcature, un paiza – una tavoletta lasciapassare – e alcuni ǰarliġ: lettere patenti capaci di garantire l’appoggio dei funzionari incontrati lungo il percorso. Assieme a Ṣauma viaggiavano un cristiano orientale di nome Sabadino, un interprete chiamato Ugueto – una latinizzazione del termine mongolo ügetü:“abile nel linguaggio” – e il genovese Tommaso Anfossi. Dopo aver visitato Costantinopoli, gl’inviati erano salpati per la Sicilia. Oltrepassato lo stretto di Messina, erano approdati a Napoli, incamminandosi, poi, alla volta di Roma, dove avevano trovato i cardinali intenti nell’elezione del nuovo papa. La proposta d’unire le forze era stata accolta con favore, ma nessuna decisione poteva essere presa in assenza del massimo capo della Cristianità.
Quindi, era ripartito, con l’intenzione di raggiungere le principali corti d’Europa. Attraversata la Toscana, s’era fermato a Genova, dove era stato accolto solennemente. Con tutta probabilità non si trattava d’una tappa casuale. Da tempo, i genovesi frequentavano il grande impero mongolo. In molti vi risiedevano ricoprendo ruoli di prestigio.
Come già accaduto a Roma, l’interesse del monaco fu catturato dalle reliquie conservate in città. I capitani del popolo, Oberto Doria e Oberto Spinola, esponenti delle principali casate nobiliari, gli mostrarono le ceneri di san Giovanni Battista, recate in patria, secondo la tradizione, nel corso della prima crociata, e il Sacro Catino, «un bacile di smeraldo a sei facce», in cui – gli fu detto – «Nostro Signore aveva mangiato la Pasqua». Ṣauma avrebbe fatto ritorno a Genova alla fine dell’anno, dopo aver visitato i sovrani di Francia e Inghilterra, attratto dalla particolare bontà del clima. La città – afferma –
somiglia al giardino del paradiso: il suo inverno non è freddo, né la sua estate calda; lì la verdura dura tutto l’anno, e vi sono alberi dai quali non cadono le foglie e che non restano mai senza frutti. Cresce là una sorta di vite che porta grappoli sette volte l’anno, ma non se ne spreme vino.
lo spazio urbano
La Genova visitata da Ṣauma è al massimo del proprio splendore. Da tempo, i suoi abitanti hanno valicato la stretta corona di monti che li sovrasta, stringendo proficue relazioni con la valle padana. Al contempo, hanno allacciato fitti rapporti con il centro e il sud della penisola, attirando nel proprio porto mercanti, banchieri e agenti di cambio, per lo più toscani ma anche ebrei e veneziani. Il loro network di relazioni si estende a tutto il Mediterraneo, et amplius. Tale risultato è frutto dell’intraprendenza dei suoi abitanti, capaci di trasformare in breve tempo un borgo marinaro di media grandezza, costretto tra i monti e il mare, in una città ricca e potente, dotata d’un porto importante, di mura imponenti, di palazzi ricoperti da marmi splendenti.
le pietre e gli uomini
Negli ultimi due secoli, la città era cresciuta velocemente, costringendo a un ampliamento del circuito murario alto-medievale. La cinta più antica – forse, d’età carolingia –, capace di circa 22 ha, comprendeva gli antichi nuclei del castrum sopraelevato e della civitas sottostante, memoria di antichi insediamenti, estendendosi sino a comprendere la chiesa vescovile di San Lorenzo. Tra il 1155 e il 1163, il circuito murario era stato esteso sino al burgus di ponente, sorto attorno alla primitiva cattedrale, da tempo mutata in monastero – San Siro –, sino a toccare i 55 ha. Si tratta delle cosiddette “mura del Barbarossa”, erette per contrastare la minaccia d’un attacco imperiale. Dotato di ben nove porte – le principali erano quella superana, quella sottana, corrispondenti alle attuali Porta Soprana e Porta dei Vacca, e la Porta Aurea, situata nell’area dell’attuale Carlo Felice –, il circuito era protetto da un castelletum, eretto negli anni Sessanta del XII secolo sull’altura di Montalbano.
Alla fine del Duecento, la popolazione ammontava, probabilmente, a 50-60.000 unità. Verso gli Sessanta del XV secolo conterà circa 85.000 abitanti – compresi numerosi schiavi domestici e di bottega, generalmente d’origine centro-asiatica –, recuperando, in parte, il crollo demico dovuto alla grande peste del 1348.
Furono i membri delle famiglie più influenti, a capo della magistratura consolare – in auge per tutto il XII secolo, e oltre –, a favorire la crescita del manufatto urbano, individuando gli spazi di pubblico interesse: la ripa maris, il porto, il molo, i mercati, i macelli, le chiese. Tale pianificazione si modellò sulla peculiare struttura sociale genovese, costituita da grandi gruppi familiari, relativamente numerosi, fortemente radicati all’interno delle mura.
lo spazio mediterraneo
La sistemazione dello spazio urbano e l’eespansione territoriale si accompagnò a una forte crescita economica, fondata sul commercio marittimo, rivolto sia verso le piazze tirreniche, provenzali, iberiche e nord-africane, sia verso quelle del Mediterraneo orientale, meta di precoci insediamenti. A questo riguardo, è necessario distinguere tra l’esercizio d’una modesta attività di scambio, praticata dai ceti subalterni, e quella posta in essere – sovente, su base monopolistica – da grandi gruppi familiari o da organismi societari come le maone, esemplati, spesso, su pari istituti d’origine ebraica o musulmana.
A partire dagli anni Settanta del XIII secolo, il network commerciale genovese risulta esteso tra le Fiandre e il mar Nero. Nel corso del Trecento, i genovesi andranno specializzandosi nel traffico delle cosiddette merci ‘pesanti’: l’allume, trasportato letteralmente da un capo all’altro del Mediterraneo, attorno al quale si creerà un vero e proprio monopolio; ma anche il sale, il grano o la lana grezza. Conseguentemente, la galea da mercato sarà progressivamente sostituita da naves sempre più imponenti, maggiormente adatte al trasporto di merci voluminose, capaci di navigare “in dirittura” (saltando, spesso, anche la sosta genovese), sfruttando una forza lavoro numericamente inferiore; funzionale, peraltro, al calo della manodopera posteriore alla peste della metà del secolo.
verso occidente
Il Tirreno e il Mediterraneo occidentale furono la prima e più immediata area di penetrazione genovese: uno spazio vitale, a lungo conteso con la vicina Pisa; quindi, con la corona d’Aragona. Se i rapporti col regno di Francia si mantennero solidi – i sovrani francesi utilizzarono ripetutamente maestranze genovesi per i propri progetti di crociata; verso la fine del Duecento, Filippo IV avrebbe reclutato a Genova gli operai necessari per la costruzione dell’arsenale di Rouen; egli, inoltre, avrebbe assoldato le galee di Benedetto Zaccaria per imporre al regno inglese e alle ricche città fiamminghe un blocco navale.
L’instaurarsi della dominazione angioina e lo scoppio della guerra del Vespro avrebbero provocato una nuova battuta d’arresto. Le mire di Carlo sull’impero bizantino spingeranno i genovesi a sostenere Pietro III d’Aragona; tuttavia, le relazioni tra le due parti andranno presto deteriorandosi: Giacomo II, salito al trono aragonese nel 1291, favorirà, infatti, i propri sudditi, provocando un incremento della concorrenza tra il consolidato ceto mercantile genovese e la giovane borghesia catalana.
verso oriente
Se il mar Tirreno e il Mediterraneo occidentale avevano rappresentato la prima e più immediata area di penetrazione per i mercanti genovesi – uno spazio vitale, a lungo conteso con la vicina Pisa –, fu soprattutto l’espansione verso Oriente a caratterizzare i decenni a cavallo tra XIII e XIV secolo. Il mondo musulmano, quello bizantino e quello mongolo erano aree ricche e vitali, custodi degli itinerari verso l’Asia interna; come tali, oggetto di precoci contese tra genovesi e veneziani. La nuova frontiera del commercio internazionale, a ogni modo, fu costituita dalle sponde del mar Nero, da cui si dipanavano alcuni degli itinerari conosciuti complessivamente sotto il nome di “vie della seta”. L’apertura di queste direttrici al commercio genovese aveva avuto luogo verso gli anni Settanta del XIII secolo. Sino a tutto il secolo precedente, l’impero costantinopolitano vi aveva esercitato un monopolio pressoché assoluto. Tale situazione era mutata a seguito della cosiddetta “quarta crociata”, cui aveva fatto seguito il sorgere dell’impero latino d’Oriente e l’instaurarsi di principati greci indipendenti a Nicea e a Trebisonda. La disponibilità degli Stretti – e, cioè, del sistema formato dal Bosforo e dai Dardanelli – era entrata in mano a Venezia, che ne aveva escluso i genovesi, dando avvio a una pressante guerra di corsa; preludio dei conflitti diretti combattuti a partire dalla metà del secolo.
una storia intricata
Come il lettore avrà avuto modo di constatare da queste brevi note, quella genovese è, senza dubbio, una storia intricata. Accomunati dalla vocazione per gli affari, figli d’una città-stato in cui la sfera del privato ha sovente il sopravvento su quella del pubblico, tesi a stringere legami in ogni parte del mondo pur di portare a casa denaro sonante, i genovesi sono stati spesso additati semplicemente come “diversi”.
Un tema, questo, che da Dante a Braudel – pur con molte sfumature, imputabili a precise scelte di campo nei loro confronti –, non ha mancato d’appassionare generazioni di studiosi, giunti a teorizzare la necessità di tessere, più che una storia di Genova, «povera e scialba», secondo Roberto Sabatino Lopez, consumata nelle lotte tra famiglie e nei continui cambi di governo, una storia dei Genovesi, con particolare riguardo alla loro espansione mediterranea.
In effetti, buona parte della storiografia su Genova nel Medioevo s’è caratterizzata per un’attenzione prevalente per la dimensione economico-mercantile, marittima e “coloniale”, a discapito di altri ambiti, altrettanto importanti, quali quelli economico-sociale o politico-istituzionale. Si tratta d’una tendenza recentemente messa in discussione, con ottimi risultati per lo studio del territorio e delle istituzioni, nel tentativo di “normalizzare” una vicenda a lungo tenuta in disparte per la sua presunta atipicità.
Va da sé che tale posizione, assolutamente benemerita, non esclude le peculiarità d’una città cresciuta sul mare, la cui storia “esterna” risulta altrettanto avvincente di quella “interna”. In effetti, quella genovese è piuttosto una storia d’integrazione. Per comprendere a pieno esiti storici noti, dalla crescita del manufatto urbano, all’espansione territoriale alla presenza capillare nel Mediterraneo, e oltre, è necessario tenere conto dell’esistenza d’un dialogo costante tra costa ed entroterra, tra cultura materiale e afflato religioso, tra commercio marittimo ed economia urbana e agraria, tra dinamica sociale e mutamento istituzionale, tra dialettica politica e proiezione mediterranea: insomma, tra le molte componenti d’una società complessa, certamente non circoscrivibile alla sola forma di governo di volta in volta adottata.
In effetti, Genova la si capisce meglio dal mare. È il mare a costituire il primo ed essenziale richiamo per i suoi abitanti, che prosperano grazie al commercio e alle attività finanziarie, viaggiano da un capo all’altro del Mediterraneo, si stabiliscono fuori patria, fondando qua e là non nuove città ma atre Zenoe, avvertendo, ovunque si trovino, il richiamo della madrepatria: d’una città magistra negociacionis ac mater da tempo eletta e promossa a polo d’attrazione per genti diverse. È solo tenendo insieme la storia interna e quella esterna di Genova ch’è possibile comprendere a fondo, dunque, le famose parole dell’anonimo poeta genovese di fine XIII secolo:
E tanti sun li Zenoexi,
e per lo mondo sì destexi,
che und’eli van o stan,
un’atra Zenoa ge fan