Articolo a cura di Renato Carlo Miradoli
Alessandro Manzoni, chi era costui?
Noi italiani siamo sempre curiosi di conoscere l’uomo che si cela dietro il celebre autore di un capolavoro dell’arte: nel caso di Manzoni lo troviamo in alcune opere minori.
Abituati come siamo a vedere nel conte Alessandro Manzoni l’autore de I Promessi Sposi, quale irraggiungibile poeta del canto della miseria umana per alcuni (fra i quali vi è chi scrive), e il noioso, bigotto, nonché retorico autore di un romanzo sopravvalutato (per i suoi detrattori), dimentichiamo spesso che, nascosto fra le righe del celebre romanzo, vi era banalmente un uomo. Eh sì, perché don Lisander come affettuosamente lo chiamavano i milanesi, orgogliosi di averlo come concittadino, era un uomo con un vissuto drammatico e doloroso, e, per molti versi, molto lontano da quell’aura di fedele devoto e pieno di belle parole su Dio, la Madonna e i Santi.
Fatta la premessa, arrivo a dire quanto va detto: chi era l’uomo Manzoni?
Pochi sanno (o se lo sanno se ne sono dimenticati, oppure hanno anche malignamente covato la volontà di dimenticarsene!) che in una composizione poetica, per altro incompiuta, Manzoni, invece di spendersi in un profluvio di litanie devozionali (e questi sono i soliti detrattori!), sembra bestemmiare. Ci riferiamo a Natale 1833.
Il testo canta il Natale di Gesù, e il poeta si rivolge al Fanciullo in braccio alla Madonna, usando epiteti ed espressioni che di lui tratteggiano non già quanto ci aspetteremmo da chi ha parlato della “provvida sventura,” così esaltata nel romanzo, ma ben altro. È come se egli dicesse: “Sei cattivo, spietato, di noi fingi solo di curarti!”
Perché tanto livore? Il giorno di Natale del 1833, Enrichetta Blondel, la sua sposa, e che a lui aveva dato ben dieci figli, muore, e lo fa quando si celebra la ricorrenza liturgica della nascita del Figlio di Dio. Manzoni piange la sua amata Enrichetta e grida a Dio, quale novello Prometeo, la propria disperazione.
Non ci credete? E allora leggiamo la prima strofa:
Sì che tu sei terribile!
Sì che in quei lini ascoso,
in braccio a quella Vergine,
sovra quel sen pietoso,
come da sopra i turbini
regni, o Fanciul severo!
È fato il tuo pensiero,
è legge il tuo vagir.
Il poeta se la prende con Gesù, e gli epiteti non sono dei più lusinghieri per il Divin Redentore. Egli è il: “Fanciul severo,” e il suo pensiero è: “Fato,” cioè, giudizio di un destino che, per chi sa un poco di cultura classica, è moira (μοίρα) parte di dolore e di sofferenza che a ogni uomo spetta; per non dimenticare che, ai capricci del suo pianto, egli associ la: “Legge,” supremo e insondabile volere di Dio.
Si dirà che il cristianesimo cattolico conosciuto dal Manzoni (e, non dimentichiamocelo, dalla sua Enrichetta stessa) e propinato dai canonici Degola, a Parigi, e Tosi, a Milano (che a propria volta erano influenzati da quella versione della religione cattolica), altro non sia che quello del giansenismo, interpretazione ereticheggiante e più volte condannata dalla Chiesa come errata. Il quale giansenismo, di Dio, non ha una visione misericordiosa e dolce, ma severa e vendicativa. Tutto vero! Ma l’intimo dramma resta!
Vi propongo una provocazione: pensiamo all’uomo nei momenti di solitudine, durante i quali egli era a confronto con se stesso e col proprio sentire: pensiamo, cioè, all’uomo che, come tutti noi, cerca di prendere sonno, per esempio, e che del dolore che vive, che subisce e che non riesce ad accettare, pur si duole.
Ma tu pur nasci a piangere;
ma da quel cor ferito
sorgerà pure un gemito,
un prego inesaudito.
Pensate, cioè, non all’uomo che sembra esageratamente devoto (diremmo, altrimenti, stucchevole) nel far dire a padre Cristoforo: “Poverette, Dio vi ha visitate!” per consolarle della sventura in cui esse si sono imbattute a causa della prepotenza gratuita di don Rodrigo. No, no! Pensate a quell’uomo che si dispera e piange perché ha perduto la sua Enrichetta, morta il giorno di Natale, e maledice Dio che quello stesso giorno nasce.
Ecco uno squarcio di vera umanità, che nulla toglie alla grandezza del poeta, ma lo ridimensiona al suo essere uno di noi, e ce lo presenta in un dolore così intimo che lo avvicina al nostro, alla nostra vita e alla nostra storia di semplici mortali; e noi, a differenza di lui (che I promessi Sposi nei fatti li ha scritti sul serio), non passeremo mai alla storia: e il nostro dolore corre il rischio di essere ignorato da essa.
Non da Manzoni, tuttavia, la cui arte, e qui in particolare la forma del romanzo cosiddetto storico, può divenire il luogo e il tempo, nel quale riconoscere quel nostro dolore che la vita quotidiana ci offre e nemmeno ci promette di renderlo eterno come quello del poeta.
Infatti, leggendo Natale 1833, leggiamo parole forse uguali a quelle che useremmo noi per dire del nostro, e che sono capaci di descrivere il dolore di cui anche noi abbiamo senz’altro esperienza. Ecco perché le parole di Manzoni sono tensione poetica e le nostre no, ed esse fanno di lui, interprete di noi, un poeta irraggiungibile.
Per esempio le seguenti:
Vezzi or Ti fa, Ti supplica
Suo pargolo, suo Dio,
Ti stringe al cor, che attonito
Va ripentendo: è mio!
Un dì con altro palpito
Un dì con altra fronte,
ti seguirà sul monte,
e ti vedrà morir.
Ecco, vedete? Ancora dolore, e questa volta è il dolore della Madonna tutta orgogliosa il giorno di Natale di poter dire di Gesù: “È mio!”, senz’altro come tempo prima, cioè, il giorno delle loro nozze, il poeta fu orgoglioso, negli stessi termini, di Enrichetta: “È mia!” E nel continuo della storia, in cui la Vergine dovrà seguire il Figlio suo sul monte Calvario, vi è il dolore di Manzoni: “Un dì con altra fronte, ti seguirà sul monte e ti vedrà morir.”
L’umanità del poeta è distrutta (“con altra fronte”) nel perdere Enrichetta, così come la madre di Cecilia parlando al goffo monatto che accoglie la bimba, morta di peste, sul carro; e Manzoni forse sa far grande quella figura di donna lombarda, perché egli sa cosa sia sperimentare la disperazione di perdere chi ami.
Chissà se Goethe abbia mai letto, nel proprio entusiasmo per I Promessi Sposi, aspetti di questa natura, ed abbia avuto l’occasione di leggere il romanzo con questi occhi? Sarebbe bello chiederlo a lui. A noi spetta il leggere di Dio che, in Natale 1833, tace e non sembra avere alcuna intenzione di ascoltare la voce di chi lo prega:
Vedi le nostre lagrime,
intendi i nostri gridi,
il voler nostro interroghi,
e a tuo voler decidi;
mentre a stornar la folgore
trepido il prego ascende
sorda la folgor scende
dove tu vuoi ferir.
Dio non ascolta la supplica e colpisce, memore della propria identità biblica, quando, cioè, il dio degli Ebrei vuole colpire il popolo di Israele quasi senza ragione, e il suo fulmine lacera il cuore di chi meno se lo merita. Basti pensare alla disperazione di Geremia.
Il tormento interiore di Manzoni era grande, e, se non ci dobbiamo necessariamente riferire alla morte di Enrichetta per comprenderlo, basti pensare alla constante e continua volontà di perfezionamento del proprio testo del romanzo, il quale non andava mai bene. “Oh, che sant’uomo! Ma che tormento!” dice don Abbondio riferendosi al Cardinale. “Anche sopra di sé: purché si frughi, rimesti, critichi, inquisisca: anche sopra di sé.” E queste parole devono essere state vissute in prima persona dall’Autore, il quale parlava di sé, e non del Cardinale soltanto.
E se i pettegolezzi sulla sua figura, che lo tratteggiano come un uomo pieno di manie, siano vero o no, a noi non è dato di sapere, ma è pur dato di crederci, visto l’enorme persecuzione cui egli sottoponeva se stesso all’atto di scrivere; ma tale che, grazie a quel tormento, noi oggi possiamo leggere pagine di tale intensità e bellezza. Tuttavia, a tali pettegolezzi dobbiamo riferirci, anche se mai peraltro alcuno di essi fu confermato. Fu detto, per esempio, che Manzoni non potesse sedersi su una sedia senza braccioli, per timore di cadere, oppure che non potesse sostenere lo sguardo di un tessuto che dopo molti lavaggi (le lavatrici delicate della nostra modernità erano ancora da venire!) apparisse lucido e sciupato; per non citare l’episodio parigino, e quasi leggendario, della decisione di convertirsi alla fede cattolica in cui, persa la sua Enrichetta fra la folla in occasione delle celebrazioni del matrimonio fra Napoleone e Maria Luisa d’Austria, avrebbe fatto un voto a Dio: “Se la ritrovo, mi converto!”, storia che in termini moderni ci ricondurrebbe a uno stress da trauma.
Ecco tutto ciò ci restituisce la profonda e umile umanità di Qualcuno che con le proprie parole fu in grado davvero di leggere la nostra umanità decaduta fino alla bestemmia.
Chi scrive qui, dopo aver consegnato alle stampe il terzo e ultimo capitolo della saga dei Pisoni, ha un’ambizione, quella, cioè di iniziare la composizione di una serie di romanzi proprio sulla figura del conte Alessandro Manzoni, il don Lisander, studiato e approfondito proprio in questa prospettiva di uomo del suo tempo, del suo sentire e della sua angoscia di vivere; sì, certo, angoscia risolta in una visione cristiana, ma vissuta nel profondo e non artificiale, volta a tratteggiare quel senso che nella vita a volte è difficile da trovare.
Per giungere, ora, alla consueta proposta di un qualche consiglio di lettura che offra il modo di approfondire le mie parole sull’uomo Manzoni, segnalo l’imperdibile Natalia Ginzburg, nell’eccezionale volume, La famiglia Manzoni, Einaudi, Torino 1983. L’autore riferisce le vicende dei singoli membri della famiglia Manzoni attraverso le loro parole, andando, cioè, a letteralmente spulciare lettere e testi di e su se stessi, che i protagonisti in persona hanno composto; ed è come sentire la loro voce che racconta di sé.
Va, peraltro, ricordato, seppur segnato un poco dall’interesse confessionale di matrice cattolica (quando forse ve ne era ancora una!), il volume di Mario Pomilio, Il Natale del 1833, Bompiani, Milano 1983. Il volume analizza in un’ottica di fede il dettaglio della lirica, oggetto di questo pezzo.
Infine, non va assolutamente persa la lettura di Eleonora Mazzoni, Il cuore è un guazzabuglio, Einaudi, Torino 2023, delizioso volumetto appena pubblicato (mese di aprile del corrente anno) e che approfondisce tutti gli aspetti legati alla vita personale del nostro poeta, il quale non manca mai di trasferire, in forma artistica nella vita dei personaggi delle sue opere, il proprio sentire, al punto che possiamo dire come in ognuno di essi vi sia, per certi versi e sempre, l’uomo Alessandro Manzoni.
Post scriptum: sulla quarta di copertina del libro di Eleonora Mazzoni, si legge: “Manzoni trasgressivo, lontano dalla figura impolverata e un po’ bigotta che, purtroppo, a volte si spiega a scuola. Un Manzoni prima uomo e poi scrittore…” Insomma, come potete vedere, ecco ancora una prova, se ve ne fosse bisogno, che il Manzoni è il più grande autore della letteratura italiana, se è vero, come è vero, che chiunque può trovare in lui, e nelle sue opere, tutto e il contrario di tutto.