Articolo a cura di Luca Vinotto
“I Lidii […], primi fra gli uomini di cui abbiamo conoscenza, coniarono monete d’oro e d’argento e se ne servirono, e per primi esercitarono il commercio al minuto”
Così afferma nel V secolo a.C. Erodoto, ne Le Storie. Ha ragione solo parzialmente, perché se è chiaro che il commercio non l’hanno certo “inventato” gli abitanti della Lidia, tutte le fonti confermano che le prime monete sono state effettivamente coniate in questo piccolo regno dell’Asia Minore sotto re Gige (VII secolo a.C.).
Ma come se la cavavano i nostri antenati prima di questa grande innovazione? Per molto tempo gli storici hanno creduto che la sola alternativa al conio fosse il baratto, ma si sbagliavano.
le origini
Per capire come stanno le cose, facciamo un salto indietro di altri 2.500 anni rispetto al buon vecchio Erodoto. Siamo nell’intorno del 3000 a.C., nella Mesopotamia meridionale, lì dove ha avuto inizio la prima grande civiltà antica.
Uruk è all’apogeo della sua espansione. Con una popolazione di almeno 50.000 abitanti e imponenti mura lunghe 9,5 chilometri che racchiudono un’area abitata di 5,5 kmq, Uruk viene considerata la “megalopoli” dell’età del bronzo. Le sue dimensioni sono ragguardevoli anche se paragonate a quelle di città di epoche ben più tarde, come mostra lo schizzo allegato.
Per 900 anni (3800 a.C. – 2900 a.C.) la città sumera esercita una sorta di egemonia su un territorio estremamente vasto, grazie principalmente a due elementi: una sofisticata organizzazione sociale e una impressionante rete di rapporti commerciali.
L’organizzazione sociale di Uruk
Vi è un aspetto imprescindibile della civiltà mesopotamica, quello religioso: la profonda convinzione nutrita dai sumeri che la città e il territorio circostante siano donati agli abitanti dalla divinità protettrice. Questo dio poliade è l’unico vero padrone della terra e dispone dei suoi frutti attraverso il Sommo Sacerdote, che quindi è capo civile e religioso al tempo stesso (En).
Egli è coadiuvato da numerosi funzionari, veri e propri burocrati che sovraintendono i complessi meccanismi di una società fortemente centralizzata e che svolgono la loro attività in “agenzie” pubbliche chiamate “Case” (E’ in sumero) nelle quali si volge l’attività produttiva.
I comuni cittadini lavorano per queste “Case”, a tempo pieno (Unga) o parziale (Eren). Vengono retribuiti tramite l’usufrutto (possono conservare parte del prodotto realizzato) e con razioni di tutto ciò che non producono direttamente. La casta sacerdotale provvede poi a distribuire le sementi, i mangimi e gli attrezzi per lavorare le terre e il bestiame da allevare.
Il sistema si rivela particolarmente efficiente perché mette a disposizione della comunità, quando necessario, gruppi di lavoratori molto numerosi da impiegare per opere “di pubblica utilità”: mura, canali e bacini di irrigazione, templi e edifici pubblici.
Il lavoro schiavile è presente ma poco diffuso; la proprietà privata, quasi assente nelle fasi iniziali, si ritaglia spazi via via maggiori soprattutto in quegli ambiti in cui lo scambio “lavoro contro razione” è meno applicato, e cioè l’artigianato e il commercio. Finirà per sopravanzare il peso dell’economia pubblica solo nel II millennio a.C.
Nella città troviamo diversi opifici, (fonderie e tessiture), segno di elevata organizzazione del lavoro, e mestieri specializzati: oltre al contadino, al pastore e al pescatore troviamo muratori, vasai, fabbri, birrai, tagliapietre, e anche barbieri, fabbricanti di feltro, argentieri, medici, aruspici e oracoli.
Una organizzazione sofisticata non può reggersi senza una adeguata gestione delle informazioni, che permetta di controllare, ad esempio, la resa dei campi e delle greggi templari. Viene via via affinato il sistema di controllo del tipo e della quantità di merce presente nei depositi o viaggiante sulle carovane, basato sulla incisione di segni su tavolette di argilla, “certificate” con l’apposizione di sigilli: nasce così la prima forma di scrittura elaborata dall’uomo, quella cuneiforme.
La rete di rapporti commerciali urukina
Ai Sumeri non manca il materiale da costruzione (usano l’argilla, che fornisce i famosi mattoni con cui costruiscono case, mura, templi e palazzi) e grazie a una efficiente rete di canali di irrigazione, hanno alte rese sia dall’agricoltura che dagli allevamenti; le tessiture forniscono prodotti pregiati. Ma la Mesopotamia è una pianura alluvionale a clima arido, carente quindi di metalli (soprattutto rame e stagno, necessari per produrre il bronzo, e argento), legname e pietre dure, che devono necessariamente procurarsi nelle regioni confinanti.
Vengono così tracciate le prime vie commerciali che alimenteranno sempre più intense correnti di traffico. Esse sono percorse da carovane di asini grazie alle quali affluiscono nella regione legname (dal Libano e dall’Anatolia), metalli (rame, argento e stagno, da Cipro, Anatolia e altopiano iraniano; oro dall’Egitto), pietre (cornalina, ossidiana, lapislazzuli dall’Asia centrale) vino (Libano, Cipro) e altri beni. Vengono scambiate con prodotti tessili, grano, pelli, pesce, datteri e prodotti caseari.
Con lo sviluppo della città, i traffici su lunga distanza aumentano in volume e importanza a tal punto da portare gli urukini a costituire delle vere e proprie colonie dislocate in Siria, Mesopotamia settentrionale, Anatolia e Iran, creando nuovi centri abitati o enclave in insediamenti preesistenti. Il modello culturale, sociale ed economico di Uruk si diffonde in tutta la regione.
I commerci non si svolgono solo via terra ma anche attraverso il Golfo Persico, lungo rotte costiere che portavano fino al Bahrein (Dilmun) e l’Oman (Magan). Da questi paesi Uruk importa stagno e pietre preziose e da costruzione, oltre a ingenti quantità di rame. Più tardi, almeno dal periodo sargonico (2330 a.C. circa) i commerci raggiungono le foci dell’Indo, dove si sta sviluppando l’omonima civiltà, dai sumeri chiamata Meluhha.
Al culmine del suo sviluppo, la cultura di Uruk comprende un centro di riferimento di indiscussa preminenza (la stessa Uruk, coi suoi 550 ettari); un territorio interno che abbraccia tutta la bassa Mesopotamia e il Khuzistan iraniano (Susa); una zona “di semi-periferia” (l’alta Mesopotamia) a cultura sumero-semita; degli avamposti commerciali distribuiti sulle alte terre anatoliche e iraniche. Così facendo finisce per diffondere la sua organizzazione sociale e i suoi metodi di produzione in tutta la regione.
Dal baratto alla finanza
La supremazia di Uruk cessa bruscamente per cause sconosciute intorno al 2900 a.C. In brevissimo tempo le colonie vengono abbandonate o distrutte e si perde ogni traccia delle enclave ospitate negli insediamenti autoctoni.
Ma la civiltà sumero-semitica della Mesopotamia non scompare, anzi si moltiplica in decine di città stato indipendenti che mantengono di Uruk la struttura sociale e le conoscenze. Per citarne solo alcuni, oltre Uruk ora troviamo Ur, Nippur, Lagash, Eridu, Umma, Adab, Shuruppak. Più a nord, in area a prevalenza semitica, nascono le città di Kish, Akhshak, Sippar, Eshunna, Tutub, Ebla, Nagar e Mari. La rete di relazioni si fa più complessa.
La nascita della città-stato e l’infittirsi dei rapporti commerciali, i maggiori volumi prodotti e movimentati a causa dello sviluppo demografico, il lavoro sempre più specializzato e la nascita di nuovi mestieri, il meccanismo di lavoro “templare” in cambio di corvée: tutti questi elementi portano alla creazione di un “sistema” economico molto articolato, che solo recentemente siamo stati in grado di svelare, man mano che la “nuova”, imponente, fonte informativa (il milione di tavolette di argilla, scritte in caratteri cuneiformi rivenute nel corso del ‘900) veniva sottoposta all’attenzione degli studiosi.
I testi più antichi risalgono al III millennio a.C. e, per l’80%, contengono informazioni amministrativo-contabili. Riguardano, fra l’altro, l’acquisto di terre, case e schiavi; l’imposizione di prezzi “legali”; i salari, i noleggi e gli affitti praticati; il sistema di sanzioni, il risarcimento danni, la lotta all’usura e l’annullamento dei debiti. Tutte operazioni fatte con strumenti economico-finanziari non dissimili da quelli che usiamo oggi, anche se ovviamente in forme più primitive: tassi di interesse, credito, banche, prestiti, garanzie, pegni di beni e persone, persino società di capitali. In poche parole, la Mesopotamia va considerata non solo la “culla della civiltà”, ma anche la “culla della finanza”.
Il denaro delle origini
Nella maggior parte delle transazioni riportate sulle tavolette, anche in quelle più antiche, la contropartita all’acquisto di merce è l’argento o (in misura minore, l’orzo). Questo fatto, insieme alla constatazione che tutti i codici di leggi, compreso quello di Ur-Nammu (il primo in ordine di tempo, fine III millennio) esprimono un sistema di “prezzi ufficiali” in sicli di argento, ha ormai convinto la maggior parte degli autori a ritenere questo metallo (e in misura minore l’orzo) la vera e propria moneta di scambio dell’antica Mesopotamia. E poiché con denaro si definisce qualsiasi mezzo di pagamento liberamente accettato dalla comunità, ecco che l’argento della Mesopotamia costituisce a prima forma di denaro conosciuta.
Ovviamente in assenza di monete coniate il corrispettivo in argento deve essere pesato e per questo motivo ogni città ha propri “pesatori d’argento”: fabbri o orefici che dietro compenso attestano quantità (e qualità) dell’argento impiegato nelle transazioni.
L’utilizzo dell’orzo come moneta era invece circoscritto al mondo dell’agricoltura (come controvalore negli affitti di animali da lavoro, per esempio), probabilmente perché, essendo deperibile, è stato sempre poco apprezzato per transazioni di un certo rilievo.
In ogni caso, è possibile convertire in orzo il pagamento pattuito in argento e viceversa, applicando tassi di cambio definiti per legge.
In un simile contesto il ricorso al baratto rimane limitato alle compravendite di basso o bassissimo valore.
Il valore del tempo
Dell’antica Mesopotamia abbiamo conservato il metodo di misurazione del tempo in mesi, settimane e giorni. Ma Sumeri e semiti non erano solo bravi a misurarlo, in tempo; ne apprezzavano anche il valore. Lo testimonia il fatto che, fin dal periodo predinastico (III millennio a.C.), nelle transazioni che prevedono il pagamento futuro del corrispettivo o per i prestiti concessi dal Tempio viene stabilito un tasso di interesse.
Il rapporto con il tempo trascorso è ancora primitivo (si fa riferimento a interessi annui, ma nulla dice di come venivano calcolati per periodi diversi), ma il fenomeno diventa così importante che la legge interviene per stabilite i tassi massimi applicabili (20% per gli interessi in argento, 33% per quelli in oro) e per allievare le condizioni di chi si trovava nelle condizioni di non poter rimborsare il prestito (famoso è l’editto di remissione dei debiti di Urukagina, Signore di Lagash, del 2350 a.C.). Non bisogna infatti dimenticare che fin da allora i debitori inadempienti (o i loro familiari, moglie e figli) venivano ceduti al creditore fino al pagamento del dovuto.
I mercanti-banchieri
L’economia della città-stato mesopotamica è fortemente centralizzata e gestita da funzionari di diretta emanazione statale (o templare, che è più o meno la stessa cosa). Sotto l’En o Ensi vi sono il prefetto (sabra) e il capo dell’amministrazione templare (sagga) da cui dipendono uno stuolo di funzionari: il capo contabile (sadubba), quello del “catasto” (sadu), il “capo del granaio” (kaguru), il “capo delle acque” (gugallu) e tanti altri di minore importanza. Per chi lavora in città rimane quindi poca libertà di iniziativa, ma per i mercanti che si raggiungono con le loro carovane paesi lontani la situazione è diversa. Alcuni di loro si arricchiscono e trovano nuovi modi di impiegare la loro ricchezza, sorprendentemente moderni.
Il termine Tankaru o Tamkaru – che possiamo tradurre liberamente con mercante-banchiere – lo si trova citato inizialmente nel Codice di Hammurabi (1745 a.C.), ma dalle tavolette in nostro possesso sappiamo che ve ne sono stati fin dal 2400 a.C. Si tratta inizialmente di soggetti che affiancano alla gestione dei traffici su lunga distanza quella di concessione di prestiti fruttiferi in argento. Il Codice se ne interessa per evitarne comportamenti fraudolenti e fissare una soglia di usura. Un comportamento di “tutela del risparmio” particolarmente moderno: si pensi che arriva a prevedere la forma scritta davanti a testimoni pena la nullità del contratto di prestito!
Nel corso del II millennio a.C. l’attività dei Tunkaru si fa sempre più sofisticata e si sviluppano tutta una serie di garanzie a protezione del creditore, tra cui un sistema di ipoteche e pegni, con la possibilità che la garanzia fosse concessa anche da terzi. Gli importi prestati aumentano di valore al punto che il Tunkaru inizia a raccogliere i depositi di altri mercanti, che remunera a un interesse più basso, svolgendo di fatto l’attività di raccolta e impiego della banca moderna. Si crea persino una sorta di mercato finanziario, perché si moltiplicano i casi di compravendita di crediti tra Tunkaru.
Società di capitali nell’Età del Bronzo
Il codice di Hammurabi rivela però altre sorprese. Disciplina infatti anche i casi in cui più soggetti partecipino pariteticamente alla medesima attività, come una spedizione commerciale su lunga distanza. In questo caso la legge impone di dividere in parti uguali guadagni o perdite: è una forma, per quanto primitiva, della società di capitali moderna.
In conclusione, emerge il quadro di un complesso sistema commerciale ed economico nel quale appare ormai certo che i popoli dell’Antica Mesopotamia non solo ben sapevano come svolgere i commerci anche a lunga distanza, ma avevano sviluppato una molteplicità di strumenti economico-finanziari sorprendentemente simili ai nostri attuali.