Il salottino di TSD ospita oggi Vindice Lecis, autore de “L’ombra del Sant’Uffizio” pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti. Lasciamo quindi poltrone e microfoni allo scrittore e a Laura Pitzalis che ne ha curato l’intervista.
Intervista a cura di Laura Pitzalis
L’inquisizione in Sardegna è uno dei temi che tratti in modo abbastanza esaustivo nel tuo
libro L’ombra del Sant’Uffizio (edito da Nutrimenti). Leggendo il libro mi è sembrato di capire che il modus operandi attuato dagli inquisitori in Sardegna fosse in un certo senso più crudele, più ossessivo dovuto a un’assoluta disinvoltura nei loro comportamenti personali: più disprezzo per i locali, più repressione.
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L’inquisizione spagnola alla fine del XV secolo sostituii in Sardegna quella romana. In questo
modo i tribunali furono al servizio della Corona non solo dunque per perseguitare “l’eretica
pravità” ma anche ogni reato che mettesse in discussioni poteri, equilibri, privilegi. Una vera
pedagogia del terrore che in Sardegna, definita “India Sardesca”, servì a frenare le
insubordinazioni contro i poteri e che si accanì particolarmente sui suoi abitanti additati
continuamente, e dunque colpiti e inquisiti, con l’accusa di stregoneria, maleficio, paganesimo. Le
donne hanno pagato un prezzo altissimo.
La trama del romanzo prende le mosse da un fatto realmente accaduto, l’uccisione a
Sassari del magistrato Angelo Giacaracho. Com’è che ti sei imbattuto su questo
personaggio? Qual è la fonte che ti ha fatto nascere l’idea che poi è diventa una storia?
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L’omicidio del magistrato è un fatto inquietante emerso dalle pieghe della grande storia grazie al
lavoro degli specialisti che da tempo lo hanno portato alla luce. Una morte che evidenziava il lato
oscuro dell’Inquisizione stessa e dei suoi uomini, laici e religiosi, spesso assolutamente
insospettabili, un potere senza regole. Ho voluto indagare con un romanzo storico il dramma che
minaccia gli uomini, come scriveva un grande storico come Benassar, ogni volta che si stabilisce
un legame organico tra Stato e chiesa, tra Stato e ideologia.
I protagonisti del romanzo non sono i personaggi storici realmente esistiti, ma quelli di
fantasia, quelli che fanno parte degli oppressi, gli “ultimi”, quelli delle prigioni puzzolenti,
dei vicoli bui dove l’agguato è sempre pronto, quelli delle taverne sudice con i lupanari al
piano di sopra.
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Il romanzo, quello storico in modo particolare, deve avere solidi riferimenti ma non serve per mettere ordine e dare risposte ma prospettare nuovi orizzonti, sparigliare le carte. E’ proprio vero.
Io faccio interagire la grande storia con quella degli uomini e le donne che non avevano volto,
identità, speranza. Erano sudditi, in modo prevalente. Ma invece possono rappresentare con le
loro vite sghembe e sofferenti una grande possibilità per capire senza per questo farne delle
figurine patetiche che fanno impietosire.
Altro tema molto rappresentato nel romanzo è la caccia ai pirati, da te descritta in modo
minuzioso e molto coinvolgente, che vedono protagoniste le galee da guerra. Ma queste
incursioni piratesche sulle coste sarde furono veramente così importanti?
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Corsari e pirati rappresentarono per secoli una mortale minaccia alle popolazioni e alle economie
di tutte le terre che si affacciano sul Mediterraneo. In Sardegna le incursioni sono una costante
della storia. E non parlo solo di quelle musulmane e barbaresche ma anche castigliane, francesi,
inglesi e catalane che armavano vascelli corsari per compiere guerre per procura contro questa o
quella potenza. Pensiamo che l’ultima grande scorreria in Sardegna fu nel settembre del 1798,
poco meno di due secoli dopo le vicende del mio romanzo, quando un migliaio di pirati tunisini
arrivati all’isola di San Pietro nella parte su occidentale della Sardegna attaccarono di sorpresa il
villaggio di Carloforte deportando in Tunisia 830 uomini e donne.
Una delle pagine del tuo libro che mi ha fatto sorridere è quella dove fai riferimento alle
vicende giudiziarie delle presunte streghe Caterina Curcas, Angela Calvia, Caterina Mafulla
ree confesse, sotto tortura, di incontrarsi con il demonio. Queste esilaranti confessioni a
cominciare dai nomi dei diavoli, (Furfareddu, Corbareddu, Gigi Nieddu), sono reali?
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Quelle povere e drammatiche vicende sono purtroppo reali, come il verbale di interrogatorio con
tortura di un arrestato rinnegato. Le confessioni di quelle donne possono sembrare grottesche ai
giorni nostri, ma erano ciò che gli inquisitori sotto ogni latitudine volevano sentire: che le donne in quanto esseri deboli erano più permeabili alle lusinghe del demonio.
Il romanzo è ambientato nel XVII secolo ma, sempre secondo la mia opinione, c’è una
morale che può essere rapportata al nostro passato prossimo e presente storico. Sbaglio?
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L’arbitrio, la giustizia negata, la violenza, l’iniquità epiche di epoche non troppo lontane, sono
questioni che riguardano pienamente anche l’oggi: ieri inquisizione e Corona, oggi democrazie in
parte svuotate da poteri finanziari sovranazionali che aumentano le sperequazioni tra esseri umani
e tra grandi aree del pianeta.
Sempre riferendomi al finale, mi pare aperto a un possibile sequel… C’è forse in
progetto un’altra avventura con Gavino Rustarellu, Giovanni Pinna, Giacomo Petretto?
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Gavino Rustarellu e Giacomo Petretto sono stati i giovani protagonisti de Il visitatore (Nutrimenti,
2019) che si svolge un decennio prima delle vicende de L’ombra del Sant’Uffizio. Tra fantasia e
realtà altre storie certamente meriterebbero di essere portate alla luce in un romanzo storico dalla
trama accattivante e allo stesso tempo inquietante.