… che qui non v’è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riuscita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile vi dico! Eppoi date per carità alla Signora Schiattesi – questo è il nome coniugale di Artemisia – il tempo di scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna! Infine non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del ‘600 europeo, dopo Van Dyck.»
(Roberto Longhi, Gentileschi padre e figlia, 1916)
La gioventù di Artemisia
Artemisia Gentileschi nasce a Roma nel 1593. Figlia primogenita di Orazio Gentileschi e Prudenzia Montone, diventerà una delle maggiori esponenti dell’arte pittorica della nostra Storia. La sua grande capacità unita a una tenacia senza eguali le permisero di emergere in una società che alle donne non concedeva molto spazio, men che meno di esprimersi nell’arte della pittura.
Artemisia affronta i primi passi nel mondo dell’arte all’interno della bottega paterna, dove lavora insieme ai suoi fratelli.
Da giovanissima affronta però una brutta esperienza: il padre è impegnato nella ristrutturazione di Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma e, con lui, anche il maestro di prospettiva Agostino Tassi. Artemisia, a 18 anni non ancora compiuti, viene aggredita e subisce violenza proprio dal collaboratore del padre. Ne scaturisce un processo al termine del quale Artemisia abbandona l’attività nella bottega paterna.
Oltre all’onta della violenza subita, la Gentileschi deve subire anche un processo in cui si ricorre a metodi brutali, quasi da inquisizione. Merita ricordare che Artemisia accetta di testimoniare sotto tortura, di provare la sua verginità precedente allo stupro, e viene sottoposta alla sibilla, supplizio progettato per i pittori, che consiste nel fasciare loro le dita delle mani con delle funi fino a farle sanguinare.
Alcuni studiosi legano questa tragica esperienza vissuta da Artemisia in giovane età al suo metodo pittorico, come se la stessa avesse riversato la sofferenza e il dolore causatole nei quadri realizzati.
I documenti del processo, giunti fino ai giorni nostri, completi con dovizia di particolari, permettono di analizzare non solo quanto avvenne e le testimonianze di tutte le persone coinvolte, ma anche di comprendere meglio le dinamiche e i rapporti interpersonali tra di loro.
Ne esce un quadro in cui anche il rapporto tra Orazio Gentileschi e la figlia Artemisia era tutt’altro che idilliaco. Sappiamo trattarsi di un rapporto di amore e odio come nella grande maggioranza dei casi, alti e bassi determinati anche dalla grande intraprendenza e il talento di Artemisia che probabilmente misero in difficoltà il padre in più di una occasione. Dall’altra parte esisteva però un legame molto forte tra i due dettato dalla vicinanza artistica: spesso gli studiosi d’arte si sono trovati in difficoltà nel riconoscere un’opera dell’uno o dell’altra.
Firenze e il matrimonio
Al termine del processo contro Agostino Tassi, questo viene condannato all’esilio da Roma, dove riesce però a rientrare dopo pochi anni grazie all’appoggio di qualche potente famiglia. Lo stupro, a quel tempo, oltre a essere considerato un reato era anche infamante per la donna che lo subiva. Il disonore poteva essere riparato grazie a un matrimonio riparatore ma in questo caso, nonostante un fidanzamento di qualche tempo, il rapporto tra Agostino e Artemisia si interrompe in quanto l’artista risultava già sposato.
Orazio Gentileschi organizza allora un matrimonio per la figlia con un pittore fiorentino, di scarso livello per la verità: Pierantonio Stiattesi.
Artemisia si trasferisce nella città toscana, chiudendo una bruttissima parentesi di vita.
Nella città di Firenze, Artemisia apre la sua fase artistica: dal 1614 al 1620 rimane nella città dei Medici sotto la protezione di Cosimo II e della di lui moglie Cristina di Lorena. In questi anni viene ammessa all’Accademia del Disegno e ha la fortuna di stringere rapporti di amicizia con esponenti del calibro di Galileo Galilei e con Michelangelo Buonarroti, detto il Giovane, che le commissiona una tela per celebrare il suo più illustre antenato.
Di questo periodo fanno parte la Conversione della Maddalena e la Giuditta con la sua ancella di Palazzo Pitti ed una seconda versione della Giuditta che decapita Oloferne, conservata agli Uffizi.
Dal 1620 la pittrice si ritrova a cambiare città molto spesso. Abbandona il marito Stiattesi nella città di Firenze e porta con sé la figlia Palmira. Nei successivi trent’anni ci saranno una breve parentesi a Genova (1621), poi nuovamente a Roma e qualche tempo a Venezia in cerca di nuove commissioni. Successivamente approda a Napoli da dove non si sposterà più fino alla morte, se si esclude una breve parentesi nella città di Londra dove si riunisce al padre per assisterlo nei suoi ultimi anni di vita.
Lo stile di pittura
Artemisia Gentileschi si impone nella pittura con uno stile che va a differenziarsi da quello affrontato da altre donne prima di lei. Se le altre si erano concentrate su soggetti come nature morte, ritratti e paesaggi, Artemisia affronta temi più “alti”: soggetti storici e sacri, impianti monumentali. Si avvicina a uno stile di pittura più “maschile”, nel quale riconosciamo come principale ispiratore Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio. Ne riconosciamo l’influsso nella predisposizione delle forme e nell’utilizzo dei colori, nella prospettiva scenica delle azioni raffigurate e nel distaccarsi dalle convenzioni più utilizzate. La sua cifra stilistica si avvicina completamente allo stile barocco.
Tra le opere più importanti sicuramente sono da ricordare le seguenti.
Susanna e i vecchioni, un’opera molto controversa perché ancora non risulta chiara la sua datazione né se la stessa fu effettivamente realizzata in toto da Artemisia, o in collaborazione con il padre. In questa opera spicca la grande rappresentazione del dolore, lampante nell’espressione di Susanna. Un realismo che caratterizzerà sempre l’opera di Artemisia Gentileschi.
Si tratta di un quadro che riesce a trasmettere il pieno senso di disgusto e la preoccupazione della protagonista.
Di sicuro grande impatto è la “Giuditta che decapita Oloferne”: una delle opere più famose della Gentileschi, da tutti sottolineata come la vendetta principe per gli incresciosi fatti subiti all’età di 18 anni di cui abbiamo già parlato. Di questa opera esistono due versioni, una realizzata intorno al 1612 e conservata al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli, e l’altra, analoga ma con i personaggi abbigliati in modo più sontuoso, conservata a Firenze agli Uffizi (la lversione fiorentina le fu commissionata da Cosimo II de’ Medici quando la giovane si trasferì a Firenze e nei vestiti infatti riflette il gusto fiorentino dell’epoca).
Un dipinto che racchiude in sé molta violenza, di chiaro stampo Caravaggesco, si presume anzi che Artemisia abbia conosciuto l’opera di Caravaggio e ne abbia voluto proporre una propria rivisitazione. Una rivisitazione che risulta più violenta della “originale”.
Il suo stile cambia nel corso degli anni, anche grazie agli influssi delle scuole artistiche a cui Artemisia si avvicina. A Firenze si fa più elegante e sontuoso, a Venezia subisce la contaminazione della scuola del Veronese o del Tintoretto. È nella città lagunare che dipinge l’opera “Ester e Assuero”: una perfetta coniugazione dello stampo caravaggesco con la sontuosità biblica dell’arte veneziana del tempo. E questo è forse uno dei dipinti più fastosi di Artemisia Gentileschi, basti osservare le ricche vesti dei personaggi, l’abito dorato di Ester, la sua corona, le fini decorazioni delle maniche bianche, la fascia blu, la veste di Assuero (una veste seicentesca con le maniche a sbuffo bianche e verdi), il cappello con la piuma, i bellissimi stivali, il trono decorato.
Infine, vanno ricordati anche i numerosi autoritratti di Artemisia Gentileschi: tra questi sicuramente spicca “Il ritratto in veste di pittura” realizzato nel 1630, conservato oggi al Kensigton Palace di Londra. Un autoritratto che rompe con la tradizione in quanto l’artista si è dipinta di tre quarti, impegnata con i suoi attrezzi e le maniche rimboccate. Evidentemente Artemisia utilizzò una serie di giochi di specchi per poter ottenere questo effetto da ripresentare su tela.
Nell’autoritratto, Artemisia, in quanto allegoria della Pittura, reca al collo una catena d’oro con un ciondolo a forma di maschera. Per comprenderne il motivo dobbiamo rifarci all’Iconologia di Cesare Ripa, trattato in cui vengono descritti gli attributi che i poeti i pittori e gli scultori dovevano utilizzare per rappresentare tutti i concetti astratti (come le virtù e i vizi). Tra questi concetti figurava anche quello della pittura che, secondo Cesare Ripa, doveva essere rappresentata come una donna bella, dai capelli neri, con una catena d’oro dalla quale pendesse un ciondolo a forma di maschera, con il pennello in una mano e la tavolozza in un’altra, nonché la veste cangiante.
I libri su artemisia gentileschi
Roma, anno 1611. La giovane pittrice Artemisia si batte furiosamente per imporre il suo talento. L’avversario più temibile che le si para di fronte altri non è che il padre, il grande pittore Orazio Gentileschi. Possessivo, geloso, il celebre pittore vorrebbe infatti nascondere al mondo la bellezza sensuale e il genio della figlia.
Ma il destino sconvolge i suoi piani: il suo collaboratore e amico Agostino Tassi violenta Artemisia. Ne segue un processo per stupro, scandaloso per l’epoca, da cui la giovane esce vittoriosa… Artemisia è il dramma di una passione folle, della tenerezza e dell’odio di due creature incatenate dai legami di sangue.
Ma soprattutto è l’avventura di una delle prime pittrici della storia, una donna che infranse tutte le norme per conquistare la gloria e la libertà.
Attraverso un arco temporale che va dal 1593 al 1653, questo volume svela gli aspetti più autentici di Artemisia Gentileschi, pittrice di raro talento e straordinaria personalità artistica. Trenta opere autografe – tra cui magnifici capolavori come l’”Autoritratto come suonatrice di liuto” del Wadsworth Atheneum di Hartford, la “Giuditta decapita Oloferne” del Museo di Capodimonte e l’”Ester e Assuero” del Metropolitan Museum di New York – offrono un’indagine sulla sua carriera e sulla sua progressiva ascesa che la vide affermarsi a Firenze (dal 1613 al 1620), Roma (dal 1620 al 1626), Venezia (dalla fine del 1626 al 1630) e, infine, a Napoli, dove visse fino alla morte. Per capire il ruolo di Artemisia Gentileschi nel panorama del Seicento, le sue opere sono messe a confronto con quelle di altri grandi protagonisti della sua epoca, come Cristofano Allori, Simon Vouet, Giovanni Baglione, Antiveduto Gramatica e Jusepe de Ribera.
É il 14 maggio 1612 quando mezza Roma accorre nelle sinistre aule dell’Inquisizione per l’atteso giorno del giudizio sulla denunzia che il padre di Artemisia Gentileschi, giovane e brillante artista, ha sporto presso il papa Paolo V. Nell’umida e scura di Tor di Nona, le parole di Orazio Gentileschi rimbombano nella mente di ognuno: «Agostino Tassi ha deflorato mia figlia Artemisia e l’ha forzata a ripetuti atti carnali, dannosi anche per me, Orazio Gentileschi, pittore e cittadino di Roma, povero querelante, tanto che non ho potuto ricavare il giusto guadagno dal suo talento di pittrice».
Ambientato negli splendidi scenari della Firenze, Roma e Napoli seicentesche, popolato di personaggi storici come Cosimo de Medici e Galileo, La passione di Artemisia narra della straordinaria avventura della prima pittrice celebrata e riconosciuta nella storia dell’arte: Artemisia Gentileschi, la donna che, in un mondo ostile alle donne, riuscì a imporre la sua arte e a difendere strenuamente la sua visione dell’amore e della vita.
In una lettera scritta da Roma il 12 luglio 1612 a Cristina di Lorena, vedova del granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici e madre del giovane Cosimo II, il pittore Orazio Gentileschi presentava la figlia Artemisia come propria allieva ed affermava orgogliosamente che “oggi non ci sia pari a lei, avendo per sino adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere”. La ragazza non aveva ancora vent’anni e suo padre ne magnificava le doti artistiche, esaltando la sua precocità nell’apprendimento, al punto che già da tre anni ella dipingeva autonomamente. Dietro la pubblicità di Orazio si celava il desiderio di far approdare Artemisia in Toscana per sottrarla al clima, ormai insostenibile, che si era creato intorno a lei negli ultimi mesi, a seguito di un processo ancora in corso, cominciato a febbraio e destinato a protrarsi sino alla fine di novembre: un processo che – com’è noto agli amanti della storia dell’arte e non solo – vide Artemisia denunciare per violenza carnale il pittore Agostino Tassi, che l’aveva stuprata il 6 maggio 1611 e che nei mesi successivi, prospettando un matrimonio riparatore, aveva approfittato ancora di lei. La vicenda umana e la carriera pittorica di Artemisia, nonché i giudizi che la critica le ha riservato nel corso del tempo, appaiono inscindibilmente legati a questo avvenimento biografico, già di per sé tremendo, e alla pena del processo, durante il quale la testimonianza di Artemisia fu più volte messa in dubbio nonostante avesse ribadito la propria versione persino sotto tortura, e che si concluse, di fatto, con una condanna piuttosto blanda del Tassi. Anche se molto rimane ancora da indagare, la statura artistica di Artemisia ha cominciato ormai ad assumere tratti sempre più precisi. In queste pagine, lungi dal pretendere di stilare un catalogo specialistico, l’autore ripercorre agilmente il percorso artistico di Artemisia mettendo in evidenza la straordinaria qualità della sua pittura e le peculiarità dei soggetti da lei affrontati, soprattutto in relazione agli stimoli culturali con cui venne in contatto durante i suoi soggiorni e i suoi viaggi. La fisionomia di Artemisia verrà così a delinearsi come quella di una donna colta e sensibile, di grande carattere e passione, talvolta spregiudicata; ma anche dotata di senso pratico e ben attenta alla costruzione della propria immagine e carriera. In una parola, un’artista pienamente inserita nel milieu di quel secolo ricchissimo e controverso che è stato il Seicento.