Recensione a cura di Laura Pitzalis
Il romanzo storico può fondere e confondere la realtà e la finzione, usare le fonti amalgamandole con la fantasia usando quasi un principio che sa di falsificazione che però consente di colmare con l’immaginazione i vuoti delle fonti.
È questo che Vindice Lecis fa nel suo libro “L’ombra del Sant’Uffizio”, pubblicato dall’editore Nutrimenti Mare: aggiunge un pizzico di fantasia alla realtà nel riportare alla luce pagine chiave della storia della Sardegna del XVII secolo, la cui posizione nello scenario politico del Mediterraneo e dell’Europa era tutt’altro che marginale.
Marzo 1622, Angelo Giacaracho, assessore criminale della Reale Governazione di Sassari, mentre rientra dalla sua vigna, viene ucciso con due colpi di archibugio. Era un magistrato “celebre e incorruttibile, rispettato e temuto. Per questo mal sopportato”. Questo fatto è avvenuto realmente. Sono però i personaggi di fantasia la trama di questo romanzo, è grazie a loro che l’autore colma i vuoti che sono presenti nella ricca documentazione facendo loro svolgere le indagini basandosi su interrogatori, arresti, verbali che questa documentazione ci ha trasmesso.
Senza la tecnologia di oggi ma con metodi sbrigativi basandosi semplicemente sull’intuizione e il fiuto, i nostri protagonisti immaginari, Giovanni Pinna, ufficiale giudiziario, Giacomo Petretto, tipografo, e Gavino Rustarellu, marinaio, spia, sicario, vengono a capo dell’arcano e risolvono il caso. Naturalmente non svelo nessun indizio anche se il titolo del romanzo lo è.
L’aspetto dell’omicidio, delle indagini e delle conclusioni presenti nel romanzo sono per Lecis lo spunto e la scusa per poter parlare di com’era la Sardegna, il mediterraneo e Genova, (molto presente nel romanzo), del ‘600.
La Sardegna era una terra sfruttata, povera, fortemente influenzata e vessata non solo dalla corona di Spagna e dai feudatari ma anche dalla fortissima presenza della Santa Inquisizione che aveva costruito, non solo nell’isola, una vera e propria strategia del terrore diventando un elemento di disordine sociale e morale ogniqualvolta veniva messa in dubbio la sua autorità.
Era composta da vicari, notai, avvocati, consultori, sbirri, guardie del corpo che godettero di privilegi e immunità per abusi spesso efferati che commettevano, perché l’Inquisizione pretendeva di non far giudicare i suoi uomini, laici o religiosi, dai tribunali della Corona.
“La fortezza edificata dagli aragonesi tre secoli prima, dopo l’ennesima rivolta degli indocili sassaresi, ospitava da una sessantina d’anni il tribunale del Sant’Uffizio. Un formicaio febbrile con uno stuolo di addetti – dall’inquisidor ai procuratori dell’accusa, dai notai agli amministrativi, dai padri calificadores alla rete dei commissari e dei familiares numerosi come cavallette – impegnati nella guerra apostolica con pieni poteri “per indagare su ogni persona, chiunque essa sia, uomo o donna, viva o morta […] I poteri concessi erano quasi illimitati. Il sacro tribunale pretendeva di esercitare la propria autonoma ed esclusiva giurisdizione anche nei confronti di governatori, vescovi e dello stesso viceré e riusciva quasi sempre a spuntarla”
L’omicidio del magistrato Giacaracho, per questo, è un omicidio politico a tutti gli effetti, la giustizia del re si scontra per l’ennesima volta con la forza del Sant’Uffizio, schierata nell’occasione per proteggere i colpevoli. Un mordace finale della vicenda farà riflettere quanto il comportamento, le azioni causa dei fatti narrati da Lecis possano essere maledettamente attuali.
Un romanzo storico a tinte gialle ma anche d’avventura: alle vicende che si svolgono nella terraferma si contrappongono quelle marittime che vedono protagoniste le galee da guerra a caccia di pirati. Grandiosa, in apertura del romanzo, la dettagliata descrizione della battaglia navale tra il veliero inglese Dolphin, comandato dal capitano Nichols, e cinque navigli turchi guidati dal rinnegato inglese Walsingham.
Una grandissima capacità descrittiva che Lecis sparpaglia in tutto il romanzo anche se a volte mi risulta essere un po’ prolissa.
Mi piace l’accuratezza dei dettagli come, per esempio, nell’abbigliamento dei fedelissimi del Sant’Uffizio che ne rivelano la cupezza, l’oscurità, il rigore: abiti scuri, colletti inamidati, gorgiere monumentali negli uomini; sobrie le acconciature e i colori degli abiti nelle donne.
“Claudio De Marini fendeva la folla come la prua di una galea frantuma l’onda. Si notava per il modo di vestire ‘alla francese’ differente da quello in voga caratterizzato da abiti di foggia spagnola, scuri, severi e compassati. L’uomo portava un lungo e morbido farsetto a punta di un bel verde con strisce dorate, un ampio colletto di pizzo in luogo della gorgiera, pantaloni a sbuffo oltre il ginocchio che terminavano con una balza. Calzava alti stivali color sabbia con un ampio risvolto. Sulla spalla era poggiata una cappa di panno e dalla cintura pendeva una spada.”
Lo stile narrativo è molto curato ed elegante, ma non aulico. E qui salta fuori l’anima giornalistica dell’autore: semplicità ma non povertà d’animo. La lettura è fluida e piacevole grazie alla vivacità dei dialoghi e all’uso dell’ironia nel delineare, fisicamente e interiormente, i personaggi, che sono tanti ma due spiccano in modo particolare.
Uno è Diego Gamiz, inquisitore di Sardegna dal 1616 al 1618, realmente esistito, uomo di potere, crudele e senza scrupoli, che infligge torture sulla base di semplici sospetti arrivando persino a scomunicare i vertici della Corona e della chiesa sarda e a far arrestare funzionari regi. Riuscì in questo modo a farsi nemiche le figure di spicco del governo locale che pensarono bene di sbarazzarsene in un modo o nell’altro.
“Il domenicano spagnolo Diego Gamiz y Echegoyan, inquisitore di Sardegna, non appena aveva posato il piede sull’isola nel maggio 1616 aveva dimostrato di possedere un’indole intransigente che sconfinava nel fanatismo. Al quale si aggiungeva il disprezzo contro i sardi considerati alla stregua di infedeli. […] e a un’assoluta disinvoltura nei comportamenti personali. Si addensavano infatti sul conto di Gamiz voci e dicerie che lo stesso inquisitore non si preoccupava di smentire o ridimensionare. Si era persino vantato di aver deflorato una ragazza nel suo alloggio al castello: la prova di quello stupro era la camicia della sventurata, poggiata ben in vista sulla libreria.”
Interviene come un fulmine per punire ebrei, mussulmani, bestemmiatori, sodomiti o i possessori di libri ritenuti in odore di eresia, gli “eretici muti” o “portatori di eresia” come lui li chiamava, tra i quali troviamo anche le opere di Dante e Petrarca.
L’altro personaggio, il mio preferito, è di fantasia, Gavino Rustarellu, filo conduttore che intreccia le numerose trame del romanzo e “deus ex machina” in varie situazioni.
“… emigrato o fuggiasco in tante città, uomo di mano o marinaio sotto molte bandiere, pronto a uccidere per soldi [...] un uomo basso di statura e muscoloso, agile come un gatto, vestito di nero e il volto come intagliato nella pietra dagli occhi che ardevano di un fuoco vivo […] aveva dichiarato di avere ventisette o ventotto anni, di chiamarsi Gavino e di essere nativo dell’isola di Sardegna, in mezzo al Mediterraneo […] Taciturno e solitario anche quando terminava il lavoro a bordo. Dialogava tramite occhiate rapide che, a volte, incutevano paura.”
Magnificamente caratterizzato da Lecis, è un sardo doc: orgoglioso, testardo, ironico, fatalista con un’innata cortesia che scalda il cuore.
Per finire, tra i tanti argomenti trattati da Lecis nel libro vorrei ricordare le interessanti vicende giudiziarie delle presunte streghe sarde, che sotto tortura confessano di incontrarsi con il diavolo dai nomi alquanto bizzarri:
“… Furfareddu, che si presentava con vestiti gialli e rossi […] Corbareddu […] Gigi Nieddu e festeggiava con lei mangiando carne di gallina alla presenza di frati e preti su tavolate apparecchiate con una tovaglia nera …”
E l’atavica rivalità tra Cagliari e Sassari che affonda proprio nel periodo spagnolo quando si contendevano il primato in tanti campi, da quello religioso a quello amministrativo e giudiziario. Oggi la competizione storica tra le due città si manifesta occasionalmente in campo sportivo, non sempre con “savoir faire”, e può far solo sorridere, ricordando le aspre contese storiche, a patto che rimanga nei canoni del buongusto e della convivenza civile.
Per la cronaca io sono di Cagliari, Vindice Lecis di Sassari …
Sinossi
Marzo 1622, a Sassari il magistrato Angelo Giacaracho viene ucciso con due colpi d’archibugio alla testa. È un omicidio politico: il magistrato è la vittima di un intrigo organizzato dagli uomini della più potente organizzazione politica e religiosa del tempo, l’Inquisizione. Nella Sardegna del XVII secolo, governata dagli spagnoli, si accende così uno scontro mortale tra il Sant’Uffizio e la Corona. Il re in persona ordina di scoprire i responsabili dell’omicidio e le indagini, a cui parteciperà Gavino Rustarellu, marinaio e uomo di mano appena tornato in Sardegna a bordo di una nave inglese, mettono in luce in breve tempo i tentacoli del potere oscuro che controllava e processava chiunque lo ostacolasse.