Continua il mese storico dedicato alle maschere del Carnevale e oggi vogliamo raccontarvi di Pierrot.
Dove te n’ vai Pierrot,
pallido e mesto così,
senza un sorriso giocondo,
sempre ramingo pel mondo?
È la strofa iniziale di Canta Pierrot, una canzone scritta da Bixio nel 1925 e interpretata nel tempo da diversi cantanti (Luciano Tajoli, Achille Togliani, Luciano Virgili e Sergio Endrigo, Caludio Villa): un inno alla prosecuzione della vita nonostante le contrarietà.
Ma perché Pierrot è associato a un inno del genere? Da dove gli derivano queste caratteristiche: pallido, mesto, senza sorriso?
Sembra difficile pensare che una maschera tipica del Carnevale – festa di divertimenti e di colori – abbia un personaggio triste, malinconico, senza colori tra i suoi “rappresentanti”.
Pierrot nasce, in Italia verso la fine del Cinquecento con il nome di Pedrolino. È una maschera creata da uno dei comici della Commedia dei Gelosi, Giovanni Pellesini.
In quanto maschera della Commedia dell’Arte, all’inizio aveva un carattere dalla doppia sfumatura, perché è un servo a volte furbo, come Zanni, a volte ingenuo. Era un personaggio importante nella commedia: servitore accorto e fidato, pronto a tramare i peggiori imbrogli pur di trarre fuori dai guai il proprio padrone. Ha un abito bianco e ampio.
Tale personaggio, segue la Compagnia dei Gelosi e nel Settecento approda in Francia dove deve adattarsi al gusto della corte francese: cambia nome, da Pedrolino a Pierrot, e si spoglia del tutto del suo essere un furbo doppiogiochista, diviene un timido, un ingenuo, diventa un personaggio onesto e amante della verità, dal carattere buono e fiducioso verso il mondo, dall’anima profondamente romantica, innamorato di Colombina, che però ama Arlecchino e della luna: amori impossibili, e per questo ancora più struggenti e romantici e simboleggiati a loro volta dallasempre presente lacrima nera della sua maschera; ma proprio per le sue disavventure amorose, diventa oggetto di prese in giro da parte delle altre maschere.
La maschera di Pierrot non ha avuto il successo dei colleghi (sicuramente più celebri e più amati) e vive quindi un periodo di profondo declino, tornando in auge sono nell’Ottocento, grazie al mimo francese Jean-Gaspard Debureau che lo impersonò dal 1826 al Théâtre des Funanbules e gli diede il costume e quindi l’aspetto che conosciamo oggi: un ampio abito bianco formato da casacca e pantaloni, ornato da bottoni neri, una piccola coppolina nera sulla testa e il viso imbiancato. A detta di chi potè assistere agli spettacoli di Debureau, questo mimo, dalle forti capacità espressive, doti acrobatiche e interpretative, impresse un carattere molto più forte e vitale al Pierrot, riportando la maschera alla fama con la quale poi è sopravvissuto fino a oggi.
Nei secoli, alla maschera di Pierrot, sono state date molteplici interpretazioni: nell’Ottocento era considerato un post-rivoluzionario che lottava, a volte in maniera tragica, per raggiungere un posto nel mondo borghese; i simbolisti lo consideravano un solitario compagno di sventura, condannato dalla sua stessa anima triste.
Negli ultimi due secoli Pierrot è diventato l’alter-ego dell’artista alienato dalla realtà, condizione riscontrabile nel suo mutismo toccante, nel suo viso bianco e in quello del costume, che ricorda tanto il pallore dei morti.
Quel che rimane di Pierrot, oggi, è un “pagliaccio triste” che lo rende fragile e amabile agli occhi di chi ne indossa la maschera.
La maschera di Pierrot e ciò che rappresenta la ritroviamo in moltissimi campi: nell’arte, con il celebre quadro di Antoine Watteau, denominato Gilles, ma a tutti noto come Pierrot; o il Pierrot (uno dei tanti) di Picasso.
Nella musica, con il Pierrot lunaire musicato da Schönberg nel 1912, opera basata sulle poesie del belga Albert Giraud e divisa in tre parti, ognuna costituita da sette declamazioni accompagnate dalla musica (in gergo musicale, meloghe), testo riprende proprio le caratteristiche tipiche della maschera: la nostalgia e i suoi amori impossibili per la Luna e per Colombina; un testo che, in fondo, parla solo in terza persona del protagonista e dunque l’io lirico pare non sia Pierrot; ma questo gioco di ambiguità fa parte del carnevale.
Ma anche Debussy, con il suo Pierrot brano per voce e piano
fino al più “recente” Canta Pierrot, brano con i cui primi versi abbiamo aperto l’articolo.
In letteratura, con I monologhi di Pierrot di Pietro Lucini, un’opera – citiamo dalla sinossi – bizzarra a metà fra la pièce teatrale e la fantasia poetica. Questo testo riprende un tema fondamentale del simbolismo europeo (francese e belga soprattutto), la maschera come raffigurazione metafisica sublime e grottesca – dello spleen, della malinconica ambiguità umana.
Come mai Pierrot ha avuto tanta fortuna nel tempo?
Forse perché assai versatile, adattabile a varie situazioni in cui possiamo calare questo personaggio-maschera e alle quali a sua volta si adatta, arricchendosi ogni volta di più.