Un modo dire di matrice romana, ma usato a tutte le latitudini nazionali, col quale si suole indicare una scarsità di risorse economiche, o anche, in senso più ampio, per intendere che non c’è speranza di raggiungere un determinato obiettivo.
Se il senso dell’espressione potrebbe essere abbastanza di facile interpretazione, c’è un vero e proprio padrino di essa: un tal Ernesto Nathan (di madre marchigiana e padre anglo-tedesco), sindaco del Comune di Roma dal 1907 al 1913 e particolarmente noto per i tagli al bilancio pubblico.
Questo sindaco, durante un controllo del piano finanziario del Comune di Roma, trovò una voce di spesa denominata “trippa per gatti” (la trippa è un insieme di frattaglie bovine). Quando ne chiese chiarimenti, gli venne spiegato che il comune capitolino si era da sempre fatto carico di sfamare una colonia di gatti che, con il loro dare la caccia ai topi, in pratica proteggevano i documenti d’archivio dai roditori che, se lasciati liberi, ne avrebbero fatto abbondanti pasti.
C’era addirittura una figura apposita per nutrire i gatti, il carnacciaro, segno di quanto questo compito fosse importante e non una abitudine priva di senso.
Per ragioni di bilancio, però, il sindaco Nathan dovette eliminare questa voce di spesa e si dice che nel farlo abbia proprio scritto sul bilancio la frase “non c’è trippa per gatti”, come a dire che d’ora in avanti i mici, per i loro pasti, avrebbero dovuto farsi bastare i roditori.