Recensione a cura di Luigia Amico
“Sono una sopravvissuta. E per questo ho l’obbligo del sopravvissuto: rappresentare il milione e mezzo di bambini ebrei assassinati dai nazisti. Loro non possono parlare. Per cui, più di ogni altra cosa, devo dare loro una voce.”
Auschwitz. Sinonimo di morte, terrore, devastazione, crudeltà: l’inferno in terra. Varcare i cancelli del campo di concentramento più conosciuto della Storia era preludio di atrocità e sofferenza, un viaggio senza ritorno nelle viscere più brutali della terra. Poche persone riuscirono a sopravvivere all’abbraccio mortale di menti malate e contorte, poche anime segnate nel corpo e nella mente che hanno voluto raccontare cosa hanno dovuto affrontare ma soprattutto sopportare, accumunati da una flebile speranza di sopravvivenza.
Tra loro una bambina di pochi anni, Tova Friedman nata Tola Grossman, sopravvissuta miracolosamente alle camere a gas.
Tova non ha memoria di un “prima della guerra” perché lei il conflitto mondiale lo ha vissuto fin dai primi mesi di vita. Il memoir ha inizio ad Auschwitz, pochi giorni prima della liberazione del campo da parte dei soldati dell’Armata Rossa; la piccola Friedman riesce a riabbracciare sua madre e per evitare una morte certa, in un ultimo disperato tentativo di salvezza, si nascondono nell’infermeria femminile, sotto un logoro lenzuolo abbracciate al cadavere di una povera donna.
“Mi sentivo al sicuro. La mamma era vicina. L’adrenalina dovuta alla nostra avventura all’aperto era svanita. Poi sentii gli stivali.”
Con un salto temporale indietro nel tempo di quattro anni, o se vogliamo come in una sorta di flashback, c’è un cambio di scena. Tola ha tre anni e vive con la sua famiglia nel ghetto ebraico di Tomaszόw Mazowiecki. Non ci sono giochi per lei né dolciumi o cioccolata, solo razioni di cibo quasi inconsistenti e tanta paura, il terrore aleggia nell’atmosfera come il più acre afrore, il prossimo a morire potrebbe essere chiunque perché nulla ha un senso logico o un minimo di lucidità di raziocinio.
La bimba, come tutte le persone che abitano il ghetto, è costretta ad assistere alle peggiori nefandezze, l’uccisione dei suoi nonni materni avviene sotto i suoi occhi, il suo sguardo purtroppo si abituerà ad assistere a scene di questo genere.
Tova Friedman delinea in maniera chiara e soprattutto lucida le condizioni disumane in cui lei, la sua famiglia e la componente ebraica del ghetto hanno dovuto vivere, la lotta quotidiana contro le condizioni igieniche sanitarie del tutto inesistenti era estenuante, ma più di tutto era il terrore a devastare psicologicamente e fisicamente le povere vittime: notti insonni con l’orecchio teso a cogliere ogni minimo passo appesantito dai terribili stivali neri sinonimo di morte quasi certa.
Il trasferimento nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau avviene di lì a poco, non inaspettato perché ormai era ben chiaro a tutti cosa il futuro aveva in serbo per loro. Prima il viaggio devastante nei vagoni merci in condizioni disumane, poi l’arrivo nel lager dove ad attenderla c’erano disperazione, oltraggio, ordini urlati sotto la minaccia di cani addestrati a smembrare corpi umani.
La vita nel campo viene descritta in tutta la sua terribile assurdità, siamo ormai abituati a leggere delle atrocità perpetrate ai danni dei prigionieri ma la mente umana non potrà e non dovrà mai accettare quello che purtroppo è successo.
“Dalla mia amara esperienza posso dirvi che abbiamo tutti lo stesso odore quando veniamo cremati. Ebrei, rom, omosessuali, persone di colore…tutti quelli che Hitler cercò di sterminare”
Le parole di Tova scavano un solco profondo nell’animo di chi la incontra tra le pagine del suo libro, anche se la testimonianza è data da una persona ormai in età matura, lei riesce ad esprimere senza difficoltà le emozioni che ha vissuto da bambina, il senso di disorientamento di fronte ad avvenimenti del tutto inspiegabili agli occhi di una piccola creatura. La cosa che mi ha lasciato letteralmente basita è la percezione provata da Tova del “non futuro”, la consapevolezza che la sua vita sarebbe finita lì perché è scontato che il destino di tutti i bambini ebrei è la morte.
“-Tola dove state andando? Cosa succede?- gridò mia madre […] -Andiamo al crematorio!- risposi in tono quasi felice. All’improvviso, tutte le donne al di là del filo spinato iniziarono a gridare e piangere. Continuammo a camminare e le grida si fecero più forti e disperate. Mi girai verso la mia giovane compagna e dissi: -Non capisco perché stanno piangendo. Tutti i bambini ebrei devono andare al crematorio. Per cosa piangono?”
Credo che questo passaggio riassuma significativamente tutta la violenza, soprattutto psicologica, che le giovani vittime hanno subito, come può un bambino di soli cinque anni credere che la sua vita debba finire nei forni crematori?
Altra figura di vitale importanza per Tova è la madre, colei che cercherà di proteggerla dagli orrori in corso. Non le nasconde nulla, i suoi discorsi sono chiari e concisi, deve sapere a cosa potrebbe andare incontro se non obbedirà alla gerarchia nazista del ghetto prima e del campo dopo. Le insegnerà a cavarsela con le proprie forze, Tova imparerà da sua madre l’indipendenza e acuirà grazie a lei il suo istinto di sopravvivenza. Ogni madre vorrebbe proteggere i propri figli dagli orrori della vita e dai pericoli, preservare la loro spensieratezza ma alle madri deportate è stato strappato violentemente anche questo.
Il libro compre un arco temporale ampio, osserviamo lo scorrere del tempo: Tola bambina nel ghetto, Tola prigioniera nel campo, Tola adolescente che cerca di ricostruire quello che rimane della sua vita, Tola moglie e madre. Raccogliere i cocci e cercare di andare avanti non è facile, l’ombra di quello che le è successo non abbandonerà mai i suoi passi. Ad un certo punto della sua vita si rende conto che il silenzio deve essere interrotto, i suoi figli e i suoi nipoti devono sapere, quello che ha dovuto sopportare non deve cadere nel dimenticatoio perché come dice lei stessa “Auschwitz è impresso nel mio DNA”.
Ovviamente non è stata una lettura semplice, Tova accompagna delicatamente il lettore per mano attraverso la sua vita da deportata e da ex prigioniera sopravvissuta miracolosamente, il tutto descritto con una semplicità devastante, nulla di urlato e nessuna rabbia nelle sue parole, sembra quasi sussurrare il dolore provato. Il suo racconto è una ruvida carezza lasciata sul cuore, vorresti semplicemente stringere in un abbraccio quella bambina erroneamente felice di finire nei crematori.
“Ho sempre considerato il 27 gennaio, la data della liberazione ufficiale di Auschwitz, il mio compleanno alternativo, perché fu il primo giorno del resto della mia vita.”
Trama
La storia vera di Tova, una tra i pochissimi ebrei a essere uscita viva da una camera a gas Tova Friedman è una delle più giovani sopravvissute ad Auschwitz. A soli quattro anni scampò alle esecuzioni di massa nel ghetto della città polacca in cui viveva insieme alla sua famiglia. A sei anni fu fatta salire su uno dei treni diretti verso l’inferno in terra e deportata nel campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau. Nonostante la giovane età, in quel luogo fu testimone di terribili atrocità e si trovò, come pochissimi altri hanno avuto la possibilità di testimoniare, dentro una camera a gas. In questo libro Tova Friedman racconta finalmente la sua storia.