Recensione a cura di Raffaelina Di Palma
“Il canto è irresistibile,
imparino a cantare le ragazze:
(per molte più del viso fu la voce a sedurre).
Ovidio, Ars amatoria, III, 315-316”
Questi versi citati all’inizio del capitolo 13° del romanzo, “Le lupe di Pompei”, ricordano il canto delle sirene di Ulisse ed è ciò che è stato sempre chiesto a una donna: essere seducente.
Con il romanzo di Elodie Harper edito da Fazi editore, si entra in una Pompei irreale, si percorrono le sue strade, si entra nei suoi alloggi, nelle osterie fumose e squallide, nei lupanari: quei luoghi di “piacere” che con il buio si trasformano in ambienti infernali e violenti.
Forza, passione, affari occulti, ma anche una lotta disperata verso la liberazione dai gioghi di assoggettamento. Una città pullulante di affari, di cultura, di lusso sfrenato e di povertà assoluta.
Si può percepire il ruvido fruscio di tela grezza delle tuniche di poco prezzo con le quali si coprono le lupe: tra le pagine del romanzo si vive davvero la Pompei di quell’epoca. Si avverte il fluire del tempo, quel tempo che porta a interminabili notti, fugaci giornate, il susseguirsi delle stagioni, la pioggia che gonfia le strade che diventano fiumi melmosi: dove dietro a ogni piccola occasione si affaccia timidamente la speranza per frantumarsi subito dopo inesorabilmente.
È una città diversa quella che viene raccontata che, noi figli del ventesimo secolo, conosciamo soltanto attraverso i siti archeologici.
Si respira lo stesso clima di Amara, Didone, Vittoria, Berenice, Cressa: le lupe di Pompei.
Attraverso di esse l’autrice racconta come ogni giorno esse cerchino di sopravvivere alla crudeltà delle loro notti.
Alcune, come Amara, non è nata schiava, ha un passato di libertà e non si fermerà davanti a niente per riottenerlo. Altre, invece, sono nate schiave e non hanno conosciuto un’altra realtà.
Amara pensa a suo padre, al sorriso che faceva quando lei gli domandava se credeva negli dei.
«Le storie hanno un potere, che noi ci crediamo o no». Scaccia dalla mente il ricordo della sua voce.
Ma pur in un ambiente difficile e colmo di sofferenza, per procurarsi clienti che significano cibo, tra le lupe si instaura quella reciproca solidarietà, propria, che scatta tra le persone nei momenti di smarrimento e di difficoltà: da quei momenti dolorosi traggono forza anche soltanto con una stretta di mano, con un sorriso, condividono paure, debolezze e, al tempo stesso coltivano la speranza che possa arrivare anche per loro l’occasione per ribaltare la loro crudele sorte.
In particolare Amara, in possesso di un elevato grado di cultura, è la più legata all’idea di libertà. Ritorna nel suo mondo quando Plinio la invita a casa sua a leggere per lui “Le Argonaute”. Ma è solo una parentesi poi è costretta a ritornare alla vita del lupanare. Greca, fiera, orgogliosa delle sue origini, figlia di un medico, ridotta in schiavitù dopo la morte del padre. Tra loro c’è chi riesce ad accettare la propria schiavitù creando un distacco mentale dal proprio corpo, come Didone, Vittoria, Berenice, Cressa, ma lei non si rassegna a vendere, notte dopo notte, il proprio corpo.
“Le lupe di Pompei” è il 1° capitolo di una trilogia, “The Wolf Den”, ambientata nella Roma antica che sommerge, avvince, trascina, rende emotivamente partecipe il lettore portandolo indietro nel tempo: al primo secolo d. C.
Nell’antica Pompei il termine lupanare ha due significati: bordello e tana di lupi.
Negli stessi termini, lupa significa sia femmina di lupo, sia prostituta.
Berenice, Cressa, Amara, Didone, Vittoria: non sono più padrone non solo del loro corpo, ma nemmeno del loro nome; infatti, questi sono i nomi della schiavitù a cui sono state condannate. Forzate brutalmente alla prostituzione da Felicio: è lui l’unico, crudele, “padrone” del loro corpo, che ostenta sprezzo e beffarda indifferenza nei loro confronti.
Si può andare a Pompei e fermarsi dove la storia si è fermata. Gli scavi offrono all’uomo moderno una sorta di “the day after” girato e visualizzato non da un regista, ma da uomini che navigando nel mare della vita cercano punti di riferimento del proprio presente, del proprio passato, del proprio futuro.
Si è perso molto nella memoria dei tanti secoli trascorsi. Quel qualcosa che Elodie Harper in queste pagine cerca di recuperare portandoci a scoprire non soltanto l’immagine archeologica pur preziosa e unica, di quello che quei raffinati artisti ci hanno lasciato: graffiti, affreschi, gioielli, vasellame, ma l’altra Pompei, quella dei lupanari e delle terribili condizioni di vita delle donne “vendute”; frutto di saccheggi, ma a volte vendute proprio dalle loro stesse famiglie.
Anche i giovani ragazzi vengono venduti come schiavi, Melandro è uno di questi. Anche loro sono costretti a prostituirsi.
«La mia famiglia è rimasta senza un soldo», risponde, però. «E io ero l’ultima cosa che avevano da vendere.»
Il tono di voce non è cambiato, e lui conserva i modi cordiali di prima, ma la tristezza si sente.
Amara vorrebbe dirgli che capisce, che questa è anche la sua storia, ma non trova le parole.
La Harper traccia il profilo di ognuna di queste giovani donne che si prostituiscono, ma al tempo stesso si allontana da tutto ciò, dando molta importanza a loro come persone; descrive gli aspetti della loro vita a come sarebbe stata senza la crudeltà della prostituzione: descrive con minuziosità le loro aspirazioni, i loro amori, soprattutto il loro coraggio nel continuare a credere nei loro sogni, nonostante tutto.
Ho visitato più volte gli scavi. Dopo le splendide ville con gli stupendi affreschi, vedere quegli angusti ambienti del lupanare, quei letti in muratura sui quali le donne dovevano lavorare, separati dagli altri da una semplice tenda tirata sull’uscio delle piccole stanze, dà veramente i brividi. In nessun’altra parte degli scavi si nota l’abissale contrasto tra ricchezza e miseria, cittadini liberi e schiavi senza alcun diritto: l’autrice ci parla di una resistenza umana femminile straordinaria, riuscendo a dar voce a quelle donne che la storia, volutamente, ha reso mute.
Attraverso queste cinque schiave, l’autrice, ricostruisce le loro tragiche vicende seguendole passo, dopo passo, con ricchezza di particolari , con le descrizioni di quei postriboli e la vita quotidiana che vi si svolgeva trovando in alcuni passaggi risposte chiarificatrici. Descrivendo gli episodi più cruenti ne fa un ricco e travolgente racconto: tragico ma anche ricco di umanità, riuscendo a dare espressione verbale a quelle donne le cui ferite si sono perpetuate nei secoli: testimonianze arrivate sino a noi ancora cariche di forti emozioni.
Trama
Le Lupe di Pompei sono Amara, Didone, Vittoria, Berenice, Cressa. Ma nessuna di loro si chiama davvero così. Questi sono i loro nomi da schiave, costrette alla prostituzione nel bordello cittadino dal cinico padrone Felicio. Nella Pompei antica che procede ignara incontro al proprio destino, vivendo contrasti abissali tra ricchezza e miseria, uomini e donne, cittadini liberi e schiavi privi di qualunque diritto, le ragazze che abitano il prostibolo tentano ogni giorno di sopravvivere alla brutalità delle loro notti. Qualcuna, come Amara, ricorda un passato di libertà ed è decisa a riconquistarlo con ogni mezzo; altre, al contrario, sono nate schiave e non hanno conosciuto un’esistenza diversa. Ma nonostante il dolore di ogni storia personale e la continua gara per procurarsi clienti, denaro e pane, le lupe possono contare le une sulle altre, farsi custodi delle reciproche debolezze e paure, proteggersi a vicenda ogni volta che è possibile, senza perdere la capacità di cogliere minuscole gioie quotidiane, ma soprattutto senza perdere la speranza: le strade di Pompei sono piene di opportunità e perfino chi non ha più nulla può trovare un’occasione per rovesciare la sorte in suo favore. Con “Le lupe di Pompei”, primo capitolo di una trilogia imbastita sullo sfondo di una realtà lontana nel tempo, ma brulicante di vita, Elodie Harper mette in scena un racconto di resistenza umana e femminile, riuscendo a dar voce alle donne le cui storie sono rimaste ai margini della storia.